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Eric Walberg sull’Imperialismo Post-moderno

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Fonte: http://www.counterpunch.org/atzmon07222011.html

Eric Walberg sull’Imperialismo Post-moderno

The Great Games

Sebbene il numero di voci critiche riguardo a Israele, il sionismo e il potere ebraico stiano progressivamente crescendo, si può fare una chiara distinzione fra, da una parte, coloro che vi contribuiscono operando all’interno del dibattito e che sono politicamente schierati, dall’altra coloro che trascendono loro stessi al di là di qualsiasi paradigma politico esistente.

La prima categoria fa riferimento agli scrittori e studiosi che operano “all’interno degli schemi”, accettando le misure restrittive di un certo dibattito politico e intellettuale. Un pensatore che operi all’interno di questo contesto identificherebbe inizialmente i limiti del dibattito, e poi modellerebbe le sue idee così che si adattino a essi. La seconda categoria si riferisce a un tentativo intellettuale molto più stimolante: essa include quei pochi che operano all’interno di ‘reame’ post-politico, quelli che sfidano la dittatura del politicamente corretto, o qualsiasi ‘linea di partito’ conosciuta. Si riferisce a quelle menti che pensano ‘fuori dagli schemi’. E, in effetti, sono questi soggetti che, come gli artisti, piantano i semi di un possibile cambiamento concettuale e di coscienza.

Abbastanza tristemente, la dissertazione di solidarietà occidentale anti-sionista, anti-israeliana, e palestinese è lungi dall’essere saturata da grandi testi intellettualmente e spiritualmente illuminanti: per molti anni il dibattito non è riuscito a indirizzarsi verso le questioni cruciali inerenti al successo locale e globale del sionismo e di Israele. Da troppi anni ormai, in pochi hanno osato interrogarsi sul ruolo della lobby ebraica e sull’ovvio continuo fra lo stato ebraico, la cultura ebraica, e l’ideologia. Molti anni di egemonia della Sinistra nel cuore del dibattito di solidarietà verso i Palestinesi rappresentano una parte del problema, ma tale fatto può essere facilmente spiegato e giustificato.

Il Sionismo è nato alla fine del diciannovesimo secolo e, come altri movimenti politici emergenti a quel tempo, ha chiaramente convogliato alcuni evidenti sintomi ideologici modernisti.(1) Esso era fomentato dallo spirito dell’Illuminismo. Presentava un argomento ‘razionale’, secolare, coerente e strutturale per l’autodeterminazione e la ri-allocazione degli ebrei.(2) Era guidato da una poeticità eurocentrica modernista pseudo-scientifica, nonché biologico-determinista.(3) Il Sionismo politico si è ritrovato a negoziare ampiamente con gli imperi dominanti all’epoca, gran parte dei quali erano modernisti per definizione. Risulta chiaramente ragionevole assumere che il Sionismo, manifestandosi come un’ideologia modernista, sarebbe stato opposto ad altre ideologie moderniste anti-coloniali del diciannovesimo secolo come il Marxismo, la ‘politica della classe operaia’, il materialismo dialettico, il cosmopolitismo o il pensiero di sinistra più in generale.

Tuttavia, a differenza del pensiero di sinistra che è sempre in pericolo di una stagnazione strutturale e intellettuale, il Sionismo si è dimostrato un movimento politico intrinsecamente dinamico: non ha mai smesso di evolversi e di reinventarsi. La storia del Sionismo si è rivelata di chiaro successo. In sole sei decadi, esso ha adempiuto la sua promessa iniziale e ha fondato lo stato di ‘soli ebrei’, a spese dei Palestinesi. Ha raggiunto il suo scopo iniziale con il vasto supporto delle nazioni più ricche del mondo e delle maggiori superpotenze. Nel 1967, era riuscito a mobilitare la comunità ebraica mondiale nella sua interezza, e aveva trasformato le élite ebraiche in un feroce pugno del potere ebraico. Da quel momento, il Sionismo ha anche cambiato il suo corso – invece di trascinare lentamente gli ebrei in Palestina, ha compreso che Israele avrebbe tratto beneficio se gli ebrei della Diaspora fossero rimasti esattamente dov’erano, e ha accresciuto la pressione sui loro rispettivi governi. Entro la fine del ventesimo secolo, Israele è riuscito a trasformare l’impero ‘dalla lingua inglese’ in una missione di forza israeliana.

 

Nel 2003, la Gran Bretagna e gli USA mandarono i loro figli e le loro figlie a distruggere l’Iraq, l’ultimo feroce nemico di Israele nella regione. E ancora, a quel tempo vi era difficilmente una qualsiasi teoria critica che potesse far luce sull’immenso potere di Israele e delle sue lobby all’interno del mondo politico anglo-americano. Non vi era alcuna teoria politica che spiegasse la decisione suicida anglo-americana di combattere guerre illegali per Israele. Vi era anche una notevole e sostanziale mancanza di lavori di studiosi che potessero gettare luce sull’improvvisa svolta delle élite occidentali contro l’Islam e i musulmani. Essendo modernista, eurocentrica e secolare, la Sinistra ha trovato difficile, o addirittura impossibile, gestire il rapporto con la complessità dell’ideologia sia islamica che ebraica.

 

Tuttavia, a differenza del Marxismo o di qualsiasi altra forma di pensiero progressista, il Sionismo non è mai stato veramente devoto ad alcun pensiero strutturale modernista. Il Sionismo è, primariamente, leale verso gli ebrei e verso ciò che percepisce come loro bisogni. La semplice verità è che è stato molto rapido nell’allontanarsi dal modernismo. La realtà più profonda è che il Sionismo non è mai stato un precetto genuinamente modernista. Questo è basilarmente una visione Zelig populista-pragmatica, che attraversa delle rapide metamorfosi, incarnazioni e affiliazioni, solo per adattarsi a ogni discorso che sia utile al suo scopo.

 

Effettivamente, il Sionismo si è mascherato come un’ideologia politica modernista all’occorrenza, ed era secolare e razionale quando tali idee erano largamente attrattive. Tuttavia esso ha anche sviluppato un gusto religioso-evangelista – quando le prospettive di tali transizioni potevano essere tradotte in potere. Il Sionismo è stato anche molto celere nel comprendere le condizioni postmoderne;   si potrebbe addirittura sostenere che esso sia stato il primo a definirle. Il Sionismo si permette di essere contraddittorio (4), talvolta irrazionale, tribale e carico di emotività in altre occasioni.

 

Questi fatti da soli spiegano come mai la Sinistra abbia sino a oggi fallito nell’offrire una critica adeguata del Sionismo e di Israele, poiché se questi ultimi appartengono al regno della post-modernità, allora potremmo difficilmente aspettarci che una qualsiasi cultura modernista offra una lettura complessiva in merito alla complessità della situazione.

 

In tempi recenti, abbiamo visto ben poco successo nel distanziarsi dalla Sinistra tradizionale, dall’analisi politica materialista e modernista del Sionismo e della politica di Israele. James Petras, John Mearsheimer e Stephen Walt sono stati fra i primi a pubblicare un lavoro di livello accademico sull’immenso e disastroso impatto della ‘lobby israeliana’ (una dicitura politicamente corretta per il potere ebraico). Due anni fa Shahid Alam ha pubblicato “L’eccezionalismo israeliano – La destabilizzante logica del Sionismo”, un tentativo accademico incredibilmente coraggioso di afferrare il ruolo distruttivo del potere ebraico in America e oltre.

 

Petras, Mearsheimer, Walt e Alam hanno agito fuori dagli schemi: la loro critica a Israele, al sionismo e al potere ebraico non era delimitato da una linea di partito o da un qualsiasi consenso politico o paradigma. Al contrario, il loro lavoro si è allontanato dai loro paradigmi contemporanei e ha dato vita a un nuovo dibattito che ora si delinea in un corpo di pensiero, fornendo al contempo applicazioni politicamente pragmatiche.(5) Come ci si può aspettare, Petras, Mearsheimer e Walt sono stati criticati da elementi interni alla Sinistra, e specialmente da prominenti voci di ebrei all’interno della stessa. Ma loro hanno prevalso. La saggezza e  le vere intuizioni intellettuali non possono essere contenute. Tutt’al più, queste voci posso essere messe a tacere o represse per un breve periodo, ma contrattaccano sempre con un rigore molto più grande.

 

Questa settimana ha visto la luce  “Postmodern Imperialism Geopolitics- And The Great Games” di Eric Walberg (Clarity Press), una sostanziale aggiunta alla sopracitata e preziosa categoria dei ‘fuori dagli schemi’.

 

Il libro delinea un affascinante viaggio storico che fornisce a Walberg i mezzi necessari per svelare la particolarità peculiare delle condizioni postmoderne a cui siamo soggetti. Walberg ci fornisce un’esposizione estensiva della profondità fino alla quale il Sionismo è penetrato nel pensiero occidentale e del potere distruttivo delle guerre imperiali israeliane.

 

Per raggiungere il suo scopo, Walberg stabilisce un modello storico. Egli identifica 3 fasi cruciali nei passati e recenti affari imperiali: Great Game I (GGI) si riferisce all’imperialismo classico, con imperi che competono e gareggiano per territori e risorse.

Great Games II (GGII) si riferisce soprattutto alla Guerra Fredda e all’alleanza fra imperi occidentali che in precedenza erano in competizione, sotto l’egemonia statunitense, nel tentativo di bloccare il comunismo e contenere la sua influenza.

Great Games III (GGIII) è il punto in cui ci troviamo ora – la fase postmoderna. Essa inizia pressappoco con il collasso del blocco sovietico. Può essere descritta in linea di massima in termini neo-conservatori come dominazione americana unilaterale del mondo attraverso l’assoluta superiorità militare. Ma tale definizione sarebbe fuorviante. In realtà, noi incontriamo la totale ‘israelificazione’ dell’America e delle sue élite. In pratica ciò a cui assistiamo è l’America che presta volentieri la sua potenza a uno stato ebraico in miniatura.

GGIII è la marcia vittoriosa di israeliani, sionisti, e del potere ebraico. L’analisi di Walberg è utile a spiegare la deplorevole reazione dei senatori e degli uomini del Congresso americani al discorso di Netanyahu, recentemente. Essa spiega perché l’America, una volta vista come leader del mondo libero, sta ora concedendo la sua forza distruttiva al minuscolo stato ebraico. La spaventosa realtà è che Israele è ora ‘un Impero e mezzo’, come Walberg lo definisce. Esso ha a sua disposizione l’unica superpotenza mondiale che combatte le sue guerre per procura e si prende cura dei suoi bisogni. È abbastanza devastante che l’America non trovi dentro se stessa il potere di liberarsi. L’èlite dell’unica superpotenza mondiale è tenuta praticamente in ostaggio da uno stato in miniatura e dalle lobby che lo sostengono.

 

Come altri testi significativamente illuminanti, Walberg dona al lettore i mezzi fondamentali per intercettare la realtà ‘sionizzata’ nella quale viviamo. Coloro che leggono il libro saranno in grado di comprendere il recente affair Murdoch e il ruolo del suo impero mediatico all’interno del contesto del Sionismo globale. Proprio meno di un anno fa, il magnate dei media ha accettato l’ ADL Award. Nel 2003 il network di Murdoch si è schierato in difesa della ‘Guerra contro il Terrore’. Murdoch sarebbe dovuto essere fermato dal governo britannico o dal Parlamento, ma a quanto sembra, tutti i più recenti governi e partiti britannici sono stati ampiamente supportati dalla lobby israeliana in Gran Bretagna. Quando questa nazione fu presa nel mezzo di una guerra illegale in Iraq, Lord bancomat Levy era la fonte principale di fondi di Tony Blair.

Walberg produce una lettura approfondita dei vari elementi che hanno fatto di Israele ‘un Impero e mezzo’. Egli indaga all’interno del Giudaismo senza paura: esamina in maniera accademica alcuni lavori inerenti al complesso rapporto fra ‘ebrei e stato’, aggiunge dettagli sulle ideologie ebraiche e sioniste, svela il ruolo degli oligarchi ebraici. Walberg esamina anche le tattiche e le strategie messe in atto da Israele e dai suoi sostenitori: guerre globali, armamenti nucleari, soft power, sayanim, spie e guardiani. Egli scrive anche della Lobby israeliana e della loro manipolazione dei media. Rivela anche il ruolo di alcuni elementi ebraici della Sinistra nel soffocamento del libero dibattito e nel distogliere l’attenzione dalle questioni reali.

Verso la fine del libro, Walberg rivela l’amara verità – Israele è realmente molto più indipendente dell’America, con un impero alle spalle che lo sostiene: “A dispetto della continuazione della relazione speciale con gli Stati Uniti, Israele sta giocando un ruolo sempre più indipendente in GGIII nel mondo, con il suo governo, le corporazioni e kosher nostra che collabora con qualsiasi attore statale o non statale che voglia condonare i suoi giochi mortali, la vendita di armi, il traffico di droga, la compravendita di diamanti insanguinati dall’Africa, la perpetrazione di operazioni segrete al fine di sovvertire i governi, l’assassinio degli oppositori, la falsificazione di passaporti.. La comunità della Diaspora e il network Chabad, diffusi virtualmente in ogni angolo del pianeta, facilitano la pianificazione del suo gioco, mantenendosi più avanti rispetto ai piani e la tecnologia statunitense, attraverso i sayanim americani, gli agenti segreti, le spie e la potente lobby.”(6)

Sembra che Israele sia più avanzato rispetto agli USA in ogni possibile campo. Se Israele è mai stato un ‘Golem’ creato dalle ‘potenze coloniali’ così come alcuni pensatori della Sinistra continuano a suggerire, allora è abbastanza ovvio che il ‘Golem’ si è ritorto contro il suo creatore. “Nel continuare la strategia della sopravvivenza ebraica nel corso della storia”, continua Walberg, “i piani di Israele sono più subdoli rispetto a quelli dell’odierno impero statunitense dominante, poiché esso non può sperare di sottomettere il mondo in maniera diretta, ma piuttosto modellando e sovvertendo, in primo luogo, gli scopi e le strategie del suo impero ospitante, al fine di raggiungere il suo “posto al sole” geopolitico. Questo sia tramite la sua Diaspora che attraverso l’uso dell’arte di governare e della sovversione, senza tener conto della reazione del resto del mondo.”(7)

“L’Imperialismo Postmoderno” di Walberg è un testo che funge da riferimento, ed è scritto in un momento storico cruciale. Per l’Occidente, per l’America e per gli americani questo potrebbe essere l’ultimo campanello d’allarme per prendere atto della situazione. Per Israele, per gli israeliani e per i suoi sostenitori questo testo è un allarme rosso. Israele deve urgentemente trovare il modo di limitare il suo ‘entusiasmo di espansionismo globale’ prima che sia troppo tardi. Infatti, potrebbe già essere troppo tardi.

(Traduzione a cura di Eleonora Peruccacci)

Note.

(1)La nozione di modernità in questo testo si riferisce alla cultura intellettuale intrecciata con ‘grandi narrazioni’, razionalità, illuminismo, coerenza, scienza, secolarizzazione, opposizione binaria e fattori correlati.

(2)Gli ebrei come tutte le altre popolazioni dovrebbero avere una terra tutta per loro.

(3)Esaminare ‘The Song Of Betar’ di Ze’ev Jabotinsky

“Un ebreo anche nella povertà è un principe

Sebbene sia uno schiavo o un vagabondo.

Siete stati creati come figli di un re,

Incoronati con la corona di David,

La corona dell’orgoglio e del conflitto.”

(4)Vittima e oppressore.

(5)Lasciare spazio all’AIPAC è certamente un buon esempio di quanto detto sopra.

(6) Eric Walberg; “Postmodern Imperialism Geopolitics And The Great Games”, Clarity Press, 2011, pg. 235.

(7) Ibid., pg. 235.

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Il ritorno degli Usa nell’America Indiolatina

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Gli Stati Uniti sembrano destinati dalla Provvidenza a piegare con la fame e la miseria l’America intera in nome della libertà” è quanto profetizzò Simon Bolivar nel 1815, durante il suo esilio in Giamaica, nella “lettera Guatemalteca” sulla Royal Gazzetta di Kingston.

 

Dopo 194 anni da tale affermazione, si può ben dire che l’egemonia economico-politica nell’area da parte degli Stati Uniti è stata indiscussa. Con metodi non sempre leciti, il colosso nord americano è riuscito a tessere una rete di relazioni che gli hanno permesso di controllare l’intero continente.

Ma oggi la centralità geopolitica statunitense è fortemente in discussione:

  • Il Medio Oriente è in continuo fermento e ciò non giova all’economia a stelle e strisce che vede vacillare le certezze sulle proprie riserve energetiche nella Regione;
  • Le “Missioni di Pace” si sono dimostrate guerre di logoramento difficili da portare a termine con un conseguente risultato economico che non giustifica l’ingente investimento fatto;
  • Non va sottovalutato il peso che hanno sul bilancio le situazioni di stallo in aree strategicamente fondamentali come nel caso della penisola coreana. Qui è in atto un’eterna partita a scacchi con la Cina che non permette agli USA di ridurre la propria presenza militare ai margini di Seul;
  • La crisi economica che ha investito tutto l’Occidente (la più lunga della storia) ha visto – negli ultimi giorni – per la prima volta il colosso statunitense condotto ad un declassamento del proprio debito pubblico. Ciò ha confermato la vulnerabilità di quella che sino ad oggi è stata la prima e indiscussa potenza mondiale.

Proprio da quest’ultimo punto si può partire per un’analisi dei rapporti tra nord e sud nel Nuovo Continente.

La criticità del debito pubblico statunitense palesa, oltre all’insostenibilità del sistema creditizio americano, la paradossale asimmetria nelle variazioni quantitative delle voci di bilancio.

Se da una parte le spese militari sono andate progressivamente aumentando come i costi per il risanamento bancario, dall’altro i flussi di capitale dall’esterno verso l’interno si sono progressivamente ridotti. Per quest’ultima voce di bilancio si osserva che gli accordi economici nel bacino del mediterraneo stanno perdendo il loro status di “certezza” così come quelli riguardanti il Sud America.

L’America Latina, negli ultimi anni ha fatto osservare in molti Stati, un cambiamento di rotta per quanto concerne sia la politica interna che quella esterna. Stati come Venezuela o Brasile hanno dimostrato fortemente la loro volontà di svezzarsi dal capitale nord americano.

Il venezuelano Chavez continua a guidare la propria nazione verso uno sviluppo economico sostenibile il più possibile indipendente da influenze esterne. Il Presidente ha promosso una progressiva nazionalizzazione dei settori chiave dell’economia venezuelana (in primis l’estrazione di idrocarburi) a discapito delle multinazionali statunitensi. Ciò ha comportato un progressiva emarginazione, osteggiata fortemente dagli Usa, del Venezuela nei dialoghi internazionali, accrescendo, di conseguenza, la tensione tra Caracas e Washington.

Il Brasile punta a consolidare il suo status di “economia emergente” ponendosi alla pari delle Nazioni che storicamente detengono l’egemonia nei dialoghi internazionali. A riprova di ciò vi sono gli svariati interventi internazionali come ad esempio la volontà di rafforzare la propria posizione all’interno delle Nazioni Unite e la presa di posizione nei confronti dell’Italia nel “Caso Battisti”. Quest’ultima, se pur discutibile, dimostra una fermezza del governo brasiliano nel mantenere salde le proprie decisioni che prescinde dalla possibilità di inficiare gli accordi economici sussistenti tra i due Stati.

Lo stesso Messico, da sempre preda del neocolonialismo statunitense, manifesta un cauto ottimismo sulle sue possibilità di progredire economicamente. Partendo da un sottosviluppo cronico, dovuto per lo più ad un forte sfruttamento delle proprie risorse da parte dei vicini anglofoni, e perennemente alle prese con la lotta al narcotraffico e alla tratta clandestina di emigranti verso gli Stati Uniti, negli ultimi anni il Messico ha registrato un aumento del PIL costante tra il +4 e il +5% e un’interessante aumento del tasso di alfabetizzazione della popolazione. Il governo messicano sta indirizzando il proprio sviluppo economico verso le energie rinnovabili approfittando delle favorevoli condizioni geo-climatiche del territorio nazionale. Ma il tutto va letto con cauto ottimismo dato che, ogni prospettiva di progresso, dipende dalla capacità di Città del Messico di rendersi indipendente dalla politica e dagli interessi economici statunitensi (prospettiva lontana). D’altra parte risulta cruciale la conciliazione tra il potere centrale e le popolazioni delle diverse regioni che compongono questa nazione.

In Perù il neo eletto Humala rappresenta ancora un’incognita politica, occorrerà difatti capire se verrà sostenuta la crescita economica verificatasi negli ultimi anni, e ancor più fondamentale, nel delineare i futuri scenari per il Paese, sarà la politica che Humala adotterà realmente: rispetterà le promesse di non intromissione da parte dello Stato nell’economia fatte in campagna elettorale, oppure si spingerà verso il modello del socialismo venezuelano?

Nel complesso, tuttavia, gli Stati latinoamericani hanno subito un, se pur modico, rallentamento dovuto alla crisi dei mercati finanziari, fatta eccezione, in apparenza, per l’Argentina. Qui si registra un aumento del PIL intorno al 9%, ma è indicativa la scelta del governo di vietare l’analisi e la divulgazione, da parte di società private, di stime riguardanti l’andamento dei prezzi al consumo. Ciò porta a concludere che l’intento di Buenos Aires è di diffondere ottimismo tra la popolazione e soprattutto, ricollocarsi come paese attrattivo per gli investimenti esteri.

In fine merita attenzione l’area caraibica dove il crescente flusso di investimenti esterni provenienti dalle economie emergenti del BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), mette a dura prova la consolidata egemonia statunitense in un’area da sempre croce (vedi la mancata stella Cubana nel novero degli Stati Confederati d’America) e delizia della geopolitica statunitense.

Quanto sin qui esposto ci porta a comprendere il comportamento di Obama in occasione dell’inizio della crisi libica. In circostanze più rosee dal punto di vista economico-finanziario, il sorgere di una crisi in una zona strategicamente rilevante come quella del Mediterraneo, avrebbe visto un qualsiasi presidente americano in prima fila nel promuovere un piano di democratizzazione. Ma il periodo non è dei più floridi e Obama ha preferito proseguire il suo tour politico sudamericano. Si può benissimo dedurre che ci troviamo dinanzi ad un “restyling” della Dottrina Monroe per cui gli USA puntano ad arginare l’incombenza degli investimenti provenienti dai BRICS, rinnovando vecchi accordi o proponendone nuovi, magari forti di interrelazioni bilaterali secolari. Purtroppo, e per questo lo definiamo restyling, non è possibile intimare ai Paesi del BRICS la non ingerenza su tutto ciò che riguarda il Nuovo Continente. Quindi il colosso Nord-Americano, per via del libero mercato, è costretto a competere come tutti gli altri e a “vendersi meglio” per ottenere l’esclusiva economica sull’area.

La competizione economica diventa sempre più agguerrita, le certezze diminuiscono, le Economie Emergenti incalzano e prima di essere travolta dallo tsunami dell’evoluzione economica in atto, Washington ha pensato bene di aggrapparsi allo scoglio geopoliticamente più vicino: l’America Indiolatina.

 

 

 

William Bavone è laureato in Economia Aziendale (Università degli Studi del Sannio, Benevento)

 

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Agosto sarà il mese del rimpasto repubblicano per le presidenziali del 2012

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Fonte: Washington Post

La nomina repubblicana per le presidenziali del 2012 è stata fino ad ora una questione sopita, confusa e priva di interesse, punteggiata da interludi comici, ma questo mese diventa seria. Un dibattito, un sondaggio in Iowa e la possibile entrata nella corsa alla Casa Bianca del governatore del Texas Rick Perry renderanno probabilmente le prossime settimane le più importanti per la campagna.

Entro la fine di agosto si saprà di più riguardo ogni singolo aspetto della corsa, compresa l’identità del politico meglio ‘posizionato’ per sfidare il favorito, ex governatore del Massachuttes Mitt Romney, la resistente dei Rep. Michele Bachmann e l’ex governatore del Minnesota Tim Pawlenty, e la composizione più verosimile del campo.

I candidati repubblicani sono stati messi in disparte per buona parte dell’estate a causa del difficile dibattito sul tetto del debito a Washington, la paura di un default e le crescenti preoccupazioni sull’economia statunitense e globale. Ora con le prime votazioni nella battaglia delle nomination a meno di 6 mesi di distanza, i candidati sono sotto pressione non solo per la loro capacità di attrarre voti, ma anche per come spiegheranno come intendono affrontare gli enormi problemi della prossima presidenza.

Ci stiamo velocemente avvicinando all’atto secondo del ciclo primario” afferma Tom Harris uno stratega del GOP non ancora allineato con nessun candidato. “Le prossime settimane saranno rivelatrici in termini di chi ha quello che serve per il secondo atto e chi no”.

Romney, il favorito, sembra sicuro di sé per il momento, data la sua forza complessiva nei sondaggi, il suo vantaggio economico, la sua base nel New Hampshire e la disciplina con cui ha gestito la sua campagna elettorale fino ad oggi. Ma le sue vulnerabilità intensificano la competizione fino a diventare la sua principale sfida.

La gara è stata segnata da due realtà – la mancanza di entusiasmo per Romney come il potenziale portabandiera del GOP e l’incapacità di qua qualsiasi altro candidato di sfruttare questa percepita debolezza.

Invece, la campagna del GOP è stata la storia di coloro che finora hanno tentato e fallito, così come di coloro che non hanno scelto nemmeno di provare.

L’elenco dei non partecipanti comprende diversi candidati potenzialmente formidabili – Il governatore del Mississippi Haley Barbour, il governatore dell’Indiana Mitch Daniels e l’ex governatore dell’Arkansas Mike Huckabee – e una carta sgargiante di nome Donald Trump. Bisogna aggiungere Sarah Palin a questa lista, a meno che improvvisamente non mostri un reale interesse per la corsa.

La lista di coloro che sono stati inferiori alle aspettative comprende due ex dirigenti dello stato, Pawlenty e l’ex governatore dello Utah Jon Huntsman Jr. nonché l’ex presidente della Camera Newt Gingrich.

Di tutti questi, Pawlenty è il più a rischio la prossima settimana. Il suo percorso per la nomina dipende dalla vittoria nel gruppo di maggioranza in Iowa il prossimo inverno. Ma è rimasto con una sola cifra nei sondaggi sia in Iowa che a livello nazionale. Negli ultimi due mesi, infatti, è stato eclissato dal collega del Minnesota Bachmann, che è entrato in gara a giugno ed è balzato in cima ai sondaggi in Iowa.

Bachmann così è dipendente da Pawlenty per una vittoria quest’inverno in Iowa, e i due sono ora in rotta di collisione, come ci si avvicina al sondaggio di sabato ad Ames. Vista la storia dei sondaggi, non è così probabile che entrambi possano rivendicare una vittoria il prossimo weekend, anche se possono tutti e due tentare.

Scott Reed, che gestì la campagna di Robert C. Dole nel 1996, vede Pawlenty come quello che ha più da perdere. “Il polo di maggioranza dell’Iowa può fare un candidato”, ha detto. “Il sondaggio può bloccare un candidato, e Pawlenty è in una zona di pericolo”.

Il rischio per Pawlenty di una performance meno brillante ad Ames è probabile dato che la sua raccolta fondi, già contestata, avrebbe subito un colpo ulteriore. Egli avrebbe concentrato considerevoli risorse nel sondaggio e, senza un buon risultato, potrebbe lottare per raccogliere i soldi per competere efficacemente nel polo di maggioranza e nelle primarie il prossimo anno.

Anche gli altri ora vedono Bachmann avere molto in gioco. Il suo emergere come uno dei preferiti attivisti sia del Tea party che dei Conservatori cristiani ha notevolmente aumentato le aspettative per la sua performance ad Ames. Uno stratega repubblicano dello Iowa, che ha chiesto di non essere identificato, per parlare liberamente dell’imminente il sondaggio, ha detto: “Non c’è dubbio che sia Bachmann”, che sarà stato colpito di più da una scarsa performance.

La carta jolly al sondaggio sarà il repubblicano Ron Paul, il cui piccolo ma appassionato gruppo di sostenitori potrebbe profittare grandi dividendi in un evento in cui poche migliaia di voti possono far saltare qualcuno in seconda posizione. Sia la campagna di Pawlenty che di Bachmann mostrano segni di preoccupazione riguardo a Paul, sabato.

Romney, Huntsman e Gingrich non stanno competendo attivamente nel sondaggio. Tuttavia, il voto includerà i loro nomi, così come quelli dell’ex senatore della Pennsylvania Rick Santorum, dell’uomo d’affari Herman Cain e del deputato Thaddeus McCotter.

La decisione di Perry si profila come un evento ancora più grande, uno che potrebbe ridefinire radicalmente la gara. Il suo ingresso potrebbe facilmente eclissare l’esito del sondaggio, in particolare se avverrà subito dopo questo evento.

Perry sta replicando la strategia del ‘front-porch’ adottata dal collega texano George W. Bush nel 1999 mentre si preparava alla corsa, ospitando visite di fundraisers, politici e attivisti di vari stati. Ha lasciato la maggior parte dei suoi ospiti con l’impressione di esser pronto a diventare candidato, anche se altri potenziali candidati sono quasi ricorsi ad un annuncio solo per decidere di non correre.

Consiglieri di altri candidati si aspettano che sia Perry a mettere in ombra tutti, anche lo stesso Romney, almeno nelle fasi iniziali. Cosa avverrà dopo nessuno lo sa.Credo che Perry si alzerà in fretta e resisterà, o si alzerà in fretta e scoppierà”, ha detto un altro consigliere del candidato, che ha rifiutato di essere identificato per parlare liberamente sullo stato della gara.

Perry proviene da uno stato la cui economia ha avuto un forte andamento negli ultimi anni e che è anche, storicamente, la prima destinazione di raccolta fondi per i candidati repubblicani. Entrambi i fattori sono importanti in un potenziale faccia a faccia con Romney, che ha raccolto molto più denaro di qualsiasi altro dei suoi rivali in corsa e che ha basato la sua candidatura quasi esclusivamente sul tema del lavoro e dell’economia.

Il fatto che Perry potrebbe anche entrare in gara in questa fase, sottolinea il fatto che, nonostante tutto quello che Romney ha fatto per proteggere il suo status di favorito, una possibilità di crescere rapidamente e sfidarlo resta per qualcuno.

L’altro grande evento della prossima settimana è il dibattito di giovedì notte in Iowa, ospitato da Fox News e dal Washington Examiner in collaborazione con il Partito Repubblicano dell’Iowa. Questa sarà la terza volta che i candidati del GOP dibatteranno – e sarà l’uscita allo scoperto per Huntsman che si unirà alla gara dopo i primi due eventi. Huntsman ha lottato con forza sin da quando ha creato la sua campagna elettorale, guadagnando poca trazione nei sondaggi. Questa settimana ha portato altre cattive notizie, viste le lotte interne tra i suoi consiglieri scoppiate davanti al pubblico grazie ad una storia su Politico.

Romney e Bachmann sono stati giudicati i vincitori del dibattito nel New Hampshire nel mese di giugno. Pawlenty è stato il perdente dopo aver rifiutato di sfida Romney sul piano sanitario del Massachusetts, che ricorda molto quello firmato dal Presidente Obama lo scorso anno. Questa volta Romney sarà probabilmente il bersaglio di vari candidati, inclusi Pawlenty e Huntsman.

I dibattiti sono raramente decisivi nelle battaglie per la nomina presidenziale, ma gli ambienti scottanti di Twitter e dei blog, sebbene modestamente rilevanti, possono assumere maggiore importanza rispetto al passato. Il dibattito in Iowa si avvarrà di un’orda considerevole di media, e l’analisi istantanea potrebbe essere dannosa per qualsiasi candidato che non avrà una buona performance.

Romney ha fatto finora una campagna con un ritmo proprio, cosa che è andata a suo vantaggio. Ha intenzione di accelerare la sua attività nelle prossime settimane, cosa che gli strateghi del GOP ritengono essenziale. Egli ha incentrato le sue critiche sul presidente ma non è stato costretto a combattere per la nomina. Agosto sarà probabilmente visto come il momento in cui le cose cominceranno a cambiare.

Come Reed ha ammesso, “Questo mese è il più importante perché qualcuno sta per essere fatto fuori. Poi vedremo cosa succederà “.

*Traduzione di Fabrizia Di Lorenzo

 

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I giornalisti Thierry Meyssan e Mahdi Darius Nazemroaya minacciati di morte a Tripoli

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I giornalisti Thierry Meyssan e Mahdi Darius Nazemroaya minacciati di morte a Tripoli.

A Tripoli, i bombardamenti sono ripresui verso le ore 10:20 di questa mattina (22 agosto 2011). Essi sono condotti su alcuni obiettivi specifici in cui la NATO persiste.

Gli scontri sono ripresi intorno al Rixos Hotel dove si trovano alcuni dirigenti libici e e la stampa straniera.

Al Rixos , alcuni sedicenti “giornalisti” statunitensi hanno dato l’ordine di uccidere i giornalisti Mahdi Darius Nazemroaya e Thierry Meyssan di Global Research e del Réseau Voltaire.

Tre Stati hanno offerto la loro protezione diplomatica ai collaboratori del Réseau Voltaire. Tuttavia, intrappolati nella città, i giornalisti non hanno modo di raggiungere le loro ambasciate.

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Preoccupazione al Réseau Voltaire per le minacce di morte a Meyssan e a Nazemroaya

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L’organo di analisi e informazione indipendente Réseau Voltaire è preoccupato per le minacce di morte rivolte a due membri dello staff attualmente impegnato a Tripoli.

Mahdi Darius Nazemroaya, ricercatore associato del Centre de recherche sur la Mondialisation, e Thierry Meyssan, presidente e fondatore del Réseau Voltaire e della Conferenza Axis for Peace, sono rinserrati nell’Hotel Rixos, attorno al quale si svolgono pesanti combattimenti. Secondo quanto riferito, è stato dato l’ordine  di ucciderli.

Thierry Meyssan si trova a Tripoli dal 23 giugno 2011, dove guida un gruppo di giornalisti del Réseau Voltaire. Negli ultimi due mesi, ha svolto un’inchiesta giornalistica del conflitto. La sua posizione è diversa da quella degli altri osservatori in quanto egli descrive la ribellione come una azione di minoranza, che permette di giustificare agli occhi dell’opinione pubblica mondiale un’operazione militare classica.

Quali che siano le posizioni assunte da Mahdi Darius Nazemroaya e da Thierry Meyssan, la loro uccisione sarebbe inaccettabile.

Mahdi Darius Nazemroaya e Thierry Meyssan, non sono combattenti, ma giornalisti. Coloro che sostengono questa guerra, pensando che si tratti di democrazia e libertà, non possono permettere l’assassinio di giornalisti.

Attualmente, cinque stati hanno offerto loro protezione diplomatica. Ma i combattimenti intorno all’Hotel impediscono loro di lasciare i locali e alcune delle ambasciate interessate sono state circondate per rendere impossibile l’accesso.

Consapevoli delle minacce che incombono su di loro, Mahdi Darius Nazemroaya Thierry Meyssan non hanno alcuna intenzione di esporsi a qualsiasi “pallottola vagante”.

Réseau Voltaire invita i cittadini di quei paesi coinvolti nella guerra ad esercitare pressioni sui loro governi per garantire la sicurezza dei giornalisti.

Si chiede a ciascuno/a di giocare il proprio ruolo di cittadino/a e di diffondere queste informazioni.

(Traduzione di Augusto Moellendorff)

Fonte:
http://www.voltairenet.org/
http://www.mondialisation.ca/index.php?context=va&aid=26135

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La battaglia per Tripoli

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Mentre la stampa italiana, sulla falsariga della posizione espressa ufficialmente dal ministro Frattini (che più d’ogni altro s’è sbilanciato nelle ultime 24 ore), continua a parlare dell’avvenuta “liberazione di Tripoli” e della “caduta del regime”, altre fonti – pur schierate con la NATO – cominciano a farsi più caute. Persino “Al Jazeera” stamane arriva a mettere in dubbio l’affidabilità delle rivendicazioni dei ribelli di controllare quasi tutta la capitale. Nella confusione di notizie che rimbalzano dalla Libia e dai paesi belligeranti, sembra adesso opportuno cercare di mettere un po’ d’ordine ed ipotizzare una ricostruzione dei fatti e della situazione sul terreno, per quanto aleatoria ed inevitabilmente fondata su una ridda di resoconti e voci non confermabili.

Dopo l’uccisione del generale Younes, comandante delle forze armate del CNT, ad opera degli estremisti islamici che compongono la fazione prevalente della stessa, la ribellione era parsa sgretolarsi, con molte tribù tornate nei ranghi filo-governativi. Le roccaforti Bengasi e Tobruk resistevano con l’aiuto delle forze straniere, ma la stessa Misurata dopo mesi d’assedio cadeva in mano ai governativi. Tuttavia, nelle vicinanze di Tripoli continuava ad imperversare un focolaio di ribellione, animato da combattenti berberi foraggiati tramite il vicino confine tunisino.

Secondo la credibile ricostruzione data da Thierry Meyssan, la “Operazione Sirena” contro Tripoli consisteva in massicci bombardamenti della NATO sulla città (secondo il cronista Nazemroaya, anche lui a Tripoli, per seminare il panico tra la popolazione) unita ad un’insurrezione interna di “cellule dormienti” dell’estremismo islamico, attivate dall’appello degl’imam radicali nelle moschee, sabato sera. Domenica mattina la risposta delle forze governative pareva aver stabilizzato la situazione, ma ai ribelli interni si sono aggiunti altri combattenti sbarcati via mare da navi straniere. Altre voci non confermate parlano dell’arrivo di mercenari ingaggiati dalla Francia tramite il confine tunisino, e dell’appoggio di forze speciali atlantiche.

In particolare, la NATO è intervenuta massicciamente con elicotteri per aprire la strada alle colonne d’insorti, che già domenica sera sarebbero arrivati alla Piazza Verde (in prossimità del mare, in pieno centro-città) avanzando da ovest e da est. Ciò pare confermato dalle immagini mostrate da “Al Jazeera”, e da varie altre fonti. Si è anche parlato della cattura di tre figli del Ra’is. Mentre di Saadi si sa poco, Mohammed Gheddafi è stato mostrato anche da “Al Jazeera”, ma le ultime notizie lo danno già sfuggito alla prigionia. Particolare interesse avevano però attirato le notizie della cattura di Saif al-Islam, spesso indicato come l’erede designato di Mu’ammar Gheddafi. Malgrado la sua cattura sia stata confermata anche dal Tribunale Penale Internazionale, Saif al-Islam è apparso in pubblico, tra una folla festante, a Tripoli questa notte, negando d’essere mai caduto prigioniero.

Si sa per certo che non sono mai cadute in mano ai ribelli la zona dell’Hotel Rixos, dov’è ospitata la stampa internazionale (benché le vicinanze siano infestate di cecchini) e quella del cosiddetto compound di Gheddafi, ossia il centrale quartiere di Bab al-Azizia. Anche la sede della televisione di Stato, benché più volte rivendicata sotto il loro controllo dai ribelli, dopo sporadiche interruzioni ha sempre ricominciato a trasmettere programmazione filo-governativa. Il tentativo d’interrompere le tramissioni libiche risponde evidentemente ad una logica di guerra psicologica, con i media della NATO e dei paesi arabi del Golfo che hanno cercato di avvalorare la tesi d’una repentina e festosa caduta della capitale in mano ai ribelli – evidentemente anche per demoralizzare i lealisti fuori di Tripoli, che controllano buona parte del paese.

Nella notte tra domenica e lunedì Khamis Gheddafi, figlio del Ra’is, era già segnalato a Tripoli, nei pressi del Rixos, alla testa della sua XXXII Brigata (che si credeva a Misurata). Poche ore dopo le immagini di “Al Jazeera”, cronisti sul luogo segnalavano la riconquista della Piazza Verde da parte dei lealisti. Lunedì mattina gli stessi reporter – segnatamente Lizzie Phelan e Frank Lamb (quest’ultimo ferito in maniera non grave da un cecchino) – ipotizzavano che le autorità avessero volutamente permesso ai ribelli d’avanzare fino nel cuore della città per poi circondarli e contrattaccarli. Meno di 24 ore Saif al-Islam, parlando alla stampa, ha riproposto la medesima interpretazione. In effetti, dal primo pomeriggio di lunedì è stata segnalata una controffensiva, condotta con carri corazzati emersi dalla roccaforte di Bab al-Azizia. Pare in questo momento che i ribelli siano stati respinti fino alle propaggini occidentali della città, sebbene loro continuino a rivendicare il controllo di gran parte di Tripoli.

 

* Daniele Scalea è segretario scientifico dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) e redattore della rivista “Eurasia”. È autore de La sfida totale (Roma 2010) e co-autore (con Pietro Longo) di Capire le rivolte arabe. Alle origini del fenomeno rivoluzionario (Dublin-Roma 2011).

 

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La droga, strumento geopolitico degli USA

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Da ormai molti anni si è a conoscenza dell’enorme  spesa della Difesa nordamericana (che rappresenta il 50% del totale del bilancio della difesa nel mondo), la quale è lo strumento della sua politica estera dai tempi di Reagan fino ad ora; ma il finanziamento delle agenzie dello spionaggio americano, il quale non si riduce alla sola CIA, bensì a moltissime altre strutture che ammontano a circa sedici, hanno un lato scuro, ovvero quello delle loro fonti di finanziamento, le quali vanno oltre i controlli delle amministrazioni formali (seguendo il discorso che nessuno può eseguire una revisione contabile su Dio e questi organismi credono di essere Dio per quanto concerne la “difesa” degli USA e dell’Occidente), questo “finanziamento extra” si localizza negli affari che procura il traffico della droga (verso la quale dicono di combattere), e inoltre sono questi organismi quelli che organizzano e affiancano questo affare della morte con la complicità dei grandi gruppi finanziari anglosassoni (mediante i loro “paradisi fiscali”).

Effettuare affermazioni del genere equivale ad essere qualificato come “seguace” delle “teorie del complotto” e in questa forma si cela la realtà con tutti i suoi affari, poiché per occultare la verità delle loro azioni hanno a disposizione la versione Hollywoodiana del canale satellitare History Channel, per giustificare le loro spie.

L’antefatto più vicino per cercare questo metodo di conquista geopolitico lo possiamo trovare nella politica dell’impero inglese durante la conquista dell’Asia nel XIX, secolo con due guerre per il controllo della produzione, distribuzione e finanziamento dell’opio, in primo luogo con una compagnia privata e, successivamente, direttamente sotto la guida della Corona, come parte della politica colonizzatrice dell’impero britannico; in questa maniera, l’Inghilterra sottopose sotto il suo controllo per primo all’India e dopo alla Cina, distruggendo a milioni di abitanti e rendendoli dipendenti di questa droga micidiale per meglio dominare i loro mercati.

Durante la II Guerra mondiale, la repubblica imperiale nordamericana riorganizzò i suoi servizi d’intelligenza e da quel momento iniziarono i suoi profondi rapporti con la mafia e le droghe per vari fini: il primo fu quello di evitare che si riducesse il suo operato, dal momento che poteva disporre di un proprio finanziamento,  senza dipendere dai politici; il secondo, perché così poté aprire dei contatti con il mondo della criminalità dal quale poteva ottenere mano d’opera per compiere i suoi crimini senza dover impiegare la sua équipe di specialisti –rapporti con la mafia italoamericana-; il terzo, perché gestendo il mondo della droga può gestire anche i governi mafiosi del mondo e ciò divenne molto evidente nell’America centrale – appoggiando le dittature e, dopo, con la fine delle stesse, sostenendo gli attuali Maras (bande di fuorilegge) -, ora si sa “ufficialmente” che gli USA equipaggia di armi sofisticate i cartelli messicani. E quarto, perché serve anche a dominare enormi masse della popolazione, istupidendola mediante la tossicodipendenza e, pertanto, rendendola inservibile per qualsiasi proposito di cambiamento della società.

Forse per questa ragione abbiamo varie domande senza risposte: come è possibile che l’iper potenza militare del mondo (USA) con tutto un arsenale di tecnologia infernale controlla solo il 5% della popolazione mondiale, cioè, il proprio paese, e consuma quasi il 60% della droga che si produce nel mondo?

E, un’altra domanda, anche questa relazionata con le droghe e l’economia in nero, la quale cominciò ad essere sottoposta sotto la lente d’ingrandimento come conseguenza della crisi finanziaria mondiale che viviamo dal 2009, quando la maggioranza dei paesi provarono, mediante il G20, di far controllare i Paradisi fiscali: perché USA e Inghilterra si opposero a questa richiesta?.

Alcune risposte alle nostre domande le troviamo in un rapporto poco divulgato in un articolo apparso nel Russia Today, su documenti nordamericani declassificati appartenenti agli anni settanta e ottanta, poiché quelli più recenti sono inaccessibili, classificati con la dicitura Top Secret:

Più di 8.000 documenti segreti recentemente declassificati negli USA rivelano i rapporti che intrattenne la CIA con i diversi cartelli di droghe nel mondo per finanziare le sue operazioni. L’informazione coincide con quanto denunciato dal giornalista Gary Webb, “suicidato” con due proiettili alla nuca nel 2004”.

La CIA si rivolgeva al narcotraffico per riempire le sue arche e compiere le proprie operazioni clandestine, secondo quanto segnalano alcuni documenti con il timbro federale nordamericano che sono stati declassificati, informa il sito web del Russia Today.

Gli oltre 8.000 documenti del Governo federale declassificati dalla Legge dell’Informazione Pubblica svelano i dettagli di questi controversi vincoli. Rapporti appartenenti agli anni ottanta fanno notare che per fronteggiare la presenza militare sovietica in Afganistan, gli USA spesero più di US$ 2.000 milioni per il finanziamento della resistenza afgana mediante i cartelli delle droghe. Questi stessi documenti indicano che anche la CIA era coinvolta con i narcotrafficanti latinoamericani.

E come era il giro nella nostra zona diretto verso i mercati finanziari?

Nel panorama nordamericano, il denaro della droga proveniva dal Cono Sud e diventava denaro pulito a Wall Street. In quello latinoamericano, quello stesso denaro, una volta lavato, tornava alla regione sotto forma di fondi per il paramilitarismo”, spiega l’ex agente federale Michael Ruppert.

Questa è la realtà che mettono in luce i documenti declassificati e che riconfermano quanto precedentemente espresso, il problema è che questi documenti fanno riferimento a un epoca trascorsa e tutti sappiamo che il tema delle droghe ha acquisito negli ultimi venti anni un aspetto più che allarmante nei nostri paesi, che può destabilizzare governi, condizionarli o diventare argomento per interventi “militari esterni” per il presunto sradicamento del flagello che distrugge le nostre società: il Messico con oltre 35.000 crimini eseguiti dal cartello in soli due anni. La Colombia con le sue migliaia di uccisi e milioni di dislocati dai paramilitari e le guerriglie finanziate dalla droga. Il Perù con la rinascita di Sendero Luminoso, amministrando la droga nelle zone montagnose e la Bolivia che è permanentemente messa sotto accusa dagli USA, insieme al Venezuela, per essere colpevole del dilagare della doga nelle strade americane ed europee; Argentina e Brasile come produttori a cominciare dalla pasta base e origine degli invii verso l’Europa, sono le realtà con le quali dobbiamo lottare quotidianamente i latinoamericani.

Per questa ragione è urgente che i paesi integranti l’UNASUR e del Consiglio per la Difesa Sudamericano, adottino misure congiunte contro il narcotraffico e le sue diramazioni finanziarie (che si svolgono mediante affari bancari e professionali, come quelli dell’industria delle assicurazioni, consulenti finanziari, ragionieri, notai, fondi fiduciari e aziende reali o “fantasma”, che costituiscono meccanismi raggiungibili per sbiancare fondi illeciti con il lavaggio del denaro) con organi propi, perché l’esperienza e i dati che analizziamo, ci portano ad affermare che “La droga è uno strumento geopolitico dell’Impero” per controllare il nostro continente; non restiamo ad aspettare altri 20 anni per leggere nei documenti declassificati come hanno impiegato i “cartelli” per dominarci.

LA CIA FINANZIAVA IL NARCOTRAFICO MONDIALE di Russia Today: http://actualidad.rt.com/actualidad/ee_uu/issue_22299.html

Origini della CIA, Polizia US: http://www.policia.us/nacional/academia/estatal/origen_de_la_cia/

Fu creata il diciotto dicembre millenovecentoquarantasette dal presidente degli Stati uniti, Harry S. Truman, in sostituzione dell’ Office of Strategic Services, operante durante la Seconda guerra mondiale; ha impiegato innumerevoli procedure e agenti dell’Organizzazione dei Servizi Speciali, quest’ultima fondata durante la guerra con missioni di spionaggio e di appoggio alla resistenza dietro le linee tedesche. Nel 1949, gli si conferiscono poteri per indagare senza necessità di autorizzazione giudiziaria, pratiche amministrative e fiscali.

La filosofia dell’organizzazione era quella di dotare al presidente degli USA di un secondo punto di vista elaborato da civili, oltre a quello prodotto dai militari dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale. Per via della grande quantità di ex alunni della Yale University gli si diede il nome in codice di “Campus”. Due dei tre creatori dell’OSS (Ufficio per i Servizi Strategici), provenivano dalla Yale, tra questi Hugh R. Wilson, e uno da Harvard, ma i dati erano gestiti solo da quelli della Yale. Persino il sistema di immagazzinamento dati fu lo stesso a quello della Biblioteca di Yale.

Ma alcune delle persone della Yale cominciarono a manifestare dei dubbi morali su questa istituzione, perché consideravano che una organizzazione di quel genere era un affronto per la democrazia americana in tempi di pace. L’Ufficio per i Servizi Strategici (OSS) e l’ufficio d’Intelligenza Navale (ONI), il primo da considerare la madre e il secondo il fratello della CIA, intrattenevano dei rapporti con i dirigenti della mafia italiana, dando inizio a un’opera di reclutamento nei bassi fondi di New York e di Chicago, affinché questi membri, tra i quali si annoverava Lucky Luciano, Meyer Lansky, Joe Adonis e Frank Costello, agevolassero queste agenzie a stabilire contatti con i capi della mafia siciliana, esiliati per colpa di Benito Mussolini.

Obiettivi della CIA:

● Da una parte, evitare il sabotaggio nei porti della costa est degli USA.

● dall’altra, ottenere informazione sulla Sicilia, prima di avviare l’invasione alleata e bloccare l’avanzata del vigoroso Partito Comunista italiano.

Imprigionato a New York, Luciano è graziato per i servizi prestati durante la guerra e viene deportato in Italia, dove comincia a costruire un impero fondato sull’eroina; in un primo momento mediante la diversione delle somministrazioni, provenienti dal mercato legale e, più tardi, creando una serie di collegamenti con i trafficanti libanesi e turchi, affinché gli procurino la morfina per i suoi laboratori siciliani.

In quel tempo, la OSS e la ONI, collaborano in stretto contatto con la mafia cinese, che domina la produzione di grandi quantità di oppio, morfina ed eroina, e da quest’ultima sono aiutate per la creazione del terzo punto per il commercio dell’eroina nel dopo guerra, il cosiddetto Triangolo Dorato, una regione formata dalle zone di confine della Tailandia, Birmania, Laos e la provincia cinese dello Yunan.

(trad. di V. Paglione)

Fonte: http://licpereyramele.blogspot.com/2011/08/drugs-empires-geopolitical-tool.html

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D. Scalea sul debito pubblico italiano a Class CNBC e IRIB

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Il nostro redattore Daniele Scalea, segretario scientifico dell’IsAG e saggista (autore de La sfida totale e co-autore con Pietro Longo di Capire le rivolte arabe), negli ultimi giorni è stato invitato a commentare la crisi del debito pubblico italiano presso la rete televisiva Class CNBC e quella radiofonica Radio Italia (IRIB). Riportiamo di seguito le trascrizioni d’entrambi i suoi interventi.

 

Scalea ha partecipato su Class CNBC alla trasmissione “Il debito dell’Europa”, condotta da Francesco Guidara e trasmessa in diretta alle ore 16.10 di oggi, martedì 23 agosto. Ospite in studio Alberto Mingardi, direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni, collegato telefonicamente Giorgio Benvenuto, ex segretario del PSI e presidente della Fondazione Bruno Buozzi.

Intervenendo in collegamento telefonico, Daniele Scalea ha dichiarato:

 

Vi sono due prospettive da cui è possibile osservare la questione delle privatizzazioni: una economico-finanziaria, ed è quella finora adottata nel dibattito; l’altra strategica. Per ragioni di competenza (e speculare incompetenza) io mi concentrerò su quest’ultima, ma non posso esimermi da una breve incursione nel dominio dell’economia. Dimostrando che le privatizzazioni non possono avere un effetto salvifico rispetto al problema del debito, si rafforza le liceità dell’approccio strategico.

Bene: prendiamo il caso dell’Italia stessa. Nel 1980, data che possiamo convenzionalmente assumere come inizio delle privatizzazioni, il rapporto debito pubblico / PIL era al 55%. Nel 1991, ultimo anno dell’ultimo governo Andreotti, il rapporto è al 98%. Si è alla vigilia della stagione dei governi tecnici e del grande ciclo di privatizzazioni. Ma nei vent’anni seguenti, il rapporto debito/PIL raggiunge il massimo nel 1994, col 121,8%, e come minimo non scende al di sotto del 103,6% del 2007, chiudendo il 2010 al 119%. La situazione del debito è dunque peggiorata, dal 1991 ad oggi, malgrado un decennio almeno di privatizzazioni.

L’Istituto Bruno Leoni ha individuato 20 società di proprietà pubblica o a partecipazione statale da dismettere, prevedendo un incasso pari a 102 miliardi. Questa cifra rappresenta solo una frazione del debito pubblico italiano, poco più del 5%.

Lungi da un’opposizione di principio alle privatizzazioni, bisogna però chiedersi se, per ottenere risultati tanto limitati, valga la pena rinunciare ad imprese strategiche come l’ENI – che cura l’approvvigionamento energetico d’un paese come l’Italia che di risorse energetiche è drammaticamente privo – come Finmeccanica – azienda di rilievo internazionale nella produzione d’armamenti – e come le Poste – che nell’ultimo periodo hanno cominciato ad operare nella collezione del risparmio. Lo stesso Luca Cordero di Montezemolo (non certo sospettabile d’ostilità verso il liberalismo) in una recente intervista al “Corriere della Sera” ha auspicato la privatizzazione ma delle “industrie non strategiche”.

 

L’intervista con l’IRIB è stata realizzata alcuni giorni fa, e può essere ascoltata tramite l’oggetto audio in questa pagina. Eccone la trascrizione integrale:

 

Signor Scalea, come giudica la situazione economica italiana?

 

Direi che si debba innanzi tutto distinguere tra la situazione economica e quella finanziaria. L’Italia rimane ancora uno dei primi paesi al mondo per quanto riguarda il prodotto interno lordo, malgrado il declino degli ultimi decenni. La situazione finanziaria, del debito pubblico, è invece molto più grave. Il quadro generale è dunque piuttosto negativo, anche perché l’Italia negli ultimi decenni ha affrontato un processo di finanziarizzazione e deindustrializzazione che ne ha minato la base produttiva, per quanto continui a difendersi quello che negli ultimi quarant’anni ha rappresentato il nerbo dell’economia italiana, ossia la piccola e media impresa. Ma la situazione più grave è nelle casse pubbliche, per un debito che si è creato fin dagli anni ’70. Esso è nato in concomitanza con le riforme, che erano dovute per creare uno Stato sociale in linea con quello degli altri paesi europei, ma che in Italia ha visto probabilmente eccedere negl’investimenti non produttivi e negli sprechi. Queste riforme hanno coinciso con la fine del “miracolo economico”, quindi il rallentamento della capacità dell’industria d’assorbire la manodopera, crescente in una fase di incremento demografico. Perciò, nel quadro della creazione dello Stato sociale si è teso a costruire un apparato burocratico più ampio di quello di cui effettivamente aveva bisogno l’Italia, pur di assorbire la disoccupazione anche in maniera non produttiva.

Sono già state fatte delle riforme per diminuire il numero d’impiegati pubblici: rispetto ad altri paesi europei, come la Francia, l’Italia oggi ha meno dipendenti statali in rapporto alla popolazione. Ma di sicuro il problema italiano sta anche nella qualità e nell’efficienza: al di là del numero d’impiegati, sovente gl’investimenti – soprattutto statali – non hanno un ritorno accettabile e tendono a consumarsi nello spreco.

Il problema fondamentale dell’economia italiana risiede dunque in questo: che l’Italia assorbisca una parte cospicua della ricchezza nazionale tramite le tasse, ma una grossa fetta del denaro così raccolto, anziché essere tramutato in servizi per la popolazione e per le imprese ed in investimenti produttivi (ad esempio per le infrastrutture), va ad alimentare un “sottobosco” di sperpero formato da una classe politica elefantiaca, probabilmente anche un certo numero di dipendenti pubblici in esubero, e sicuramente finanziamenti a pioggia e non troppo cristallini ad una miriade di enti non sempre di chiara utilità.

 

Secondo lei il Governo ha fatto dei passi verso il miglioramento di questa situazione?

 

Alcune misure sono probabilmente incoraggianti: ad esempio una prima diminuzione di “poltrone” politiche tramite il taglio della province e l’accorpamento di comuni. Va però notato che si parla di un intervento molto limitato: lungi dall’abolire tutte le province, come si prometteva pochi anni fa, oggi in una situazione di maggiore emergenza se n’è tagliata solo qualcuna.

Un altro problema della manovra finanziaria è quello che – forse per la fretta con cui è stata realizzata – prevede tagli salomonici, basandosi su criteri puramente quantitativi e non qualitativi. Una delle regioni più colpite dalla soppressione di province e comuni è il Piemonte, che pure ha un numero di dipendenti regionali molto inferiore ad altri regioni, come la Sicilia, che però sono risparmiate dai tagli pur essendosi distinte per lo sperpero di denaro pubblico.

La stessa logica del non distinguere tra “virtuoso” e “vizioso” soggiace alla scelta di rinunciare alla patrimoniale per imporre una sovrattassa oltre un certo reddito: si colpisce chi già paga le tasse risparmiando gli evasori, intere categorie sociali in cui l’evasione è molto diffusa.

 

Quali scelte possono cambiare l’attuale situazione economica?

 

Il nostro problema è che abbiamo un debito pubblico tra i più alti del mondo, sia in termini assoluti che in rapporto al PIL, e a differenza degli USA non possiamo stampare liberamente moneta controllando la banca centrale ed avendo la valuta di riserva mondiale. L’Italia deve fare i conti con una moneta amministrata da un’entità esterna (la BCE), con perciò tutta una serie di limitazioni: la più ovvia, l’impossibilità di svalutare per aumentare le esportazioni e scaricare il debito in inflazione.

Realisticamente, l’Italia non è in grado di ripagare questo debito. Dagli anni ’90 si taglia la spesa pubblica e il sociale, si è praticamente fermi con gl’investimenti infrastrutturali (qualche linea di TAV a parte), si ha una pressione fiscale esageratamente alta che deprime le capacità produttive del paese.

A mio parere, l’unica possibilità che avrebbe ora l’Italia è di seguire le orme dell’Argentina: ristrutturare il debito per commisurarlo alle effettive capacità di ripagarlo. Se anche l’Italia dovesse riuscire a ripagare tutto il suo debito nel giro di qualche decennio, si tratterebbe di decenni senza sviluppo, al cui termine il nostro paese oscillerebbe tra il “secondo” ed il “terzo mondo”.

Valutiamo invece il caso dell’Argentina, che nel 2005 ha ristrutturato il debito. Nel 2004 era un paese non solo in bancarotta, ma con una popolazione sotto la soglia di povertà pari a quasi il 45% di quella totale – malgrado quella della nazione sudamericana fosse una realtà storicamente d’alto reddito pro capite. In cinque anni, dopo la ristrutturazione del debito, l’Argentina è riuscita ad abbattere la povertà al 14%, ha avuto una crescita del PIL “cinese” (9% l’anno, 7,5%% nel 2010 dopo la crisi mondiale). Confrontiamola con la Grecia, che invece sta cercando di ripagare interamente il suo debito (come sembra intenzionata a fare pure l’Italia): il reddito pro capite sta calando dal 2007 (in Argentina è aumentato di quasi un quinto dal 2005 ad oggi), un quinto della popolazione è sotto la soglia di povertà, il PIL è sceso nel 2009 del 2% e nel 2010 del 4,5%. Una situazione economica tragica in cui l’Italia rischia di trovarsi molto presto.

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Siria: tra il complotto internazionale e le sue conseguenze

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Sono ormai passati più di centocinquanta giorni dall’inizio della “Rivoluzione Siriana”, così come è stata soprannominata in Europa, o“Manifestazioni Armate”, e “disordini”, definiti invece tali dal governo di Bashār al-Asad. Dopo questi cinque mesi di sangue e pressioni internazionali, la Siria sembra essere vittima di un nuovo piano di divisone territoriale simile al famoso accordo di Sykes-Picot tramite il quale i francesi e gli inglesi divisero la grande Siria in diversi stati. Qualora questo piano avesse successo tutta la regione ne subirebbe le conseguenze.

La Siria affronta un complotto internazionale?

La Siria è situata in una posizione strategica nel Vicino Oriente e sin dal tempo dell’ex presidente Hafiz al-Asad, Damasco è sempre stato un territorio ambito dagli Stati Uniti e dai suoi alleati a causa del suo appoggio nei confronti dei movimenti di resistenza popolare del Libano e della Palestina come Hizb-Allāh e Hamās. Dopo la morte di Hafiz al-Asad e l’arrivo di  Bashār al-Asad nel 2000, il nuovo presidente stabilì un piano di cambiamento strategico sui due livelli: interno ed esterno.

1. Politica interna :

La situazione economica e politica siriana non è paragonabile alla situazione esistente in Europa e neanche a quella dei paesi limitrofi come il Libano. Questa realtà è stata messa in evidenza dal presidente Asad sin dal primo giorno del suo mandato nel Luglio del 2000 e ripetuta durante le manifestazioni all’Università di Damasco nel Giungo del 2011. Asad non ha mai negato la liceità delle richieste dei manifestanti, tant’è vero che aveva già posto in essere un piano che prevedeva diverse riforme in ambito economico e una serie di cambiamenti in senso democratico per il Paese, tra i quali l’eliminazione delle leggi di emergenza, la libertà di stampa, la legge dei partiti politici, la riforma elettorale e quella  costituzionale.

A partire dal 2000 fino ai nostri giorni sono accaduti nella regione e nel mondo una serie di eventi che hanno influenzato e rallentato l’andamento del piano di Asad.

Gli eventi  sono stati i seguenti :

a.         L’attacco alle torri gemelle nel settembre 2001 e la conseguente guerra ed invasione dell’Afghanistan e in seguito dell’Iraq.

b.         L’omicidio del ex premier libanese Rafic Hariri nel 2005 a Beirut. Tale omicidio ha obbligato la Siria a ritirare i suoi militari stanziati in Libano tramite un mandato dalla Lega Araba e del governo Libanese.

c.      La guerra israeliana contro il Libano nel 2006 e la vittoria strategica del  partito di Dio – Hizb Allāh .

d.      La guerra israeliana contro Hamās nel dicembre 2008 – gennaio 2009, conosciuta come “Operazione piombo fuso” e il continuo assedio contro la Striscia di Gaza.

e.      Il fallimento dei tentativi di Pace tra i Palestinesi e Israele.

Ma essendo la Siria uno degli Stati arabi più importanti ed influenti della regione,  gli eventi sopracitati hanno indirizzato l’impegno politico di Damasco verso gli affari internazionali e regionali, mettendo in secondo piano il processo di  democratizzazione interno. A causa degli eventi di Damasco il 24 Luglio 2011 il presidente Asad ha firmato la legge dei partiti politici che prevede l’organizzazione della vita politica e permette la costituzione di partiti politici.

Due giorni dopo il presidente Asad ha firmato la legge  della riforma elettorale che organizza le elezioni del Consiglio del popolo e dei Consigli locali. Tale legge si basa sulla trasparenza e permette ai candidati di controllare l’andamento di tali elezioni.

1. Politica Estera:

Il rapporto fra Siria, Stati Uniti e Occidente  è sempre stato vincolato dal buon esito delle trattative di pace nel Vicino Oriente. Il governo di Damasco, che non ha mai tradito la causa palestinese, è disposto alla realizzazione di una pace stabile sul rispetto della volontà della Comunità internazionale che ha adottato la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che prevede: il raggiungimento di una pace “giusta e duratura” dopo il ritiro dei militari israeliani dai Territori arabi occupati nel 1967 da Israele, e il ritorno dei profughi palestinesi.

Tutti i tentativi di pace tra i Paesi arabi e Israele, partendo dagli accordi di Oslo del 1993, passando per la proposta di pace araba di Beirut del 2002, fino agli ultimi tentativi di Obama nel 2011, sono falliti a causa delle continue guerre ed offensive poste in essere contro il Libano e la Palestina. A ciò si aggiunge il continuo rifiuto di Israele di ritornare ai confini del 1967 e la negazione del diritto al ritorno dei profughi palestinesi. Tale posizione è stata recentemente confermata da Netanyahu nel 2011 a Washington: «Non possiamo tornare ai confini del 1967 perché per Israele sono indifendibili».

La Siria che considera sé stessa, insieme all’Iran, un importante membro del cosiddetto “asse della resistenza” ha voluto risanare i rapporti con l’Occidente giocando la sua carta regionale: il Libano. I primi passi di risanamento della politica estera prevedevano un riavvicinamento alla Francia. Nel 2008 Nicolas Sarkozy ha ospitato a Parigi il Presidente Bashār al-Asad e il Presidente libanese, i quali hanno annunciato lo scambio diplomatico tra i due paesi. Con gli USA il rapporto è sempre stato teso, il Presidente Asad ha fortemente voluto dialogare con Washington, credendo che tale dialogo fosse necessario per la stabilizzazione della regione. Ma l’amministrazione americana, che ha inserito Damasco nella lista degli “Stati canaglia”, ha sempre accusato la Siria di essere responsabile della violenza in Iraq, di finanziare Hamās e di non volere facilitare l’operato del TSL (Tribunale Speciale per il Libano).

Se dovesse cadere il governo di Asad ?

È ormai chiara l’importanza del ruolo siriano nella regione medio-orientale su diversi fronti, in particolare sul fronte libanese e iracheno. La domanda che ci si può porre è: cosa potrebbe succedere in Siria e nella regione se dovesse cadere il governo di Asad?

La prima conseguenza potrebbe essere la guerra civile in seguito alla divisione della Siria in diversi stati basati sulla religione e sull’etnia.

Il Libano ne subirebbe sicuramente le conseguenze poiché la caduta del governo guidato dal partito al-Baath metterebbe in ginocchio gli alleati che governano il Paese di cedri, isolandoli e lasciandoli soli ad affrontare il Tribunale Speciale istituito per l’omicidio di Hariri. Tale situazione farebbe tornare il Libano ai tempi della guerra civile con il ritorno di diversi gruppi e milizie libanesi apportatori di vecchi e nuovi progetti di divisione che aprirebbero la strada ad una nuova invasione israeliana, ora più che mai viste le recenti scoperte di petrolio e di gas nel mare libanese.

Anche l’Iraq, Paese che a causa dell’“invasione americana” o “missione di pace” del 2003, ha vissuto e vive ancora momenti economici e sociali molto difficili, non si salverà da un eventuale caduta del governo di Asad, poiché ciò potrebbe portare ad una forte crescita dei salafiti. Questo porterà all’aumento degli attentati suicidi (l’attentato del 15 Agosto che ha causato più di 390 vittime tra morti e feriti ne è una dimostrazione), oltre all’immediato ritorno di milioni di profughi iracheni che la Siria sarà costretta a rimpatriare per creare  pressioni politiche sugli USA attraverso l’Iraq.

Se l’Iraq dovesse trovarsi in tale situazione rischierebbe un’altra guerra civile più dolorosa di quella del 2006 – 2007, una guerra civile che avrà come conseguenza la divisione del Paese in diversi staterelli su base etnica e religiosa.

L’influenza negativa di un tale evento potrebbe arrivare fino al regno di al- Saud. La voglia di cambiamento che coinvolge tutto il mondo arabo potrebbe mettere in pericolo al-Riad che non gode di una ottima reputazione nell’ambito dei diritti umani. La famiglia reale discute da tempo sulla scelta del successore di Re Abdullah. Tale  discussione potrebbe uscire fuori dai Palazzi reali se l’Arabia Saudita non prenderà seriamente in considerazione le richieste di riforme e di cambiamento degli Sciiti alleati dell’Iran e della Siria che costituiscono il 20% della popolazione saudita. Se dovesse cadere il governo di Asad, l’alleato iraniano non rimarrebbe in silenzio ma cercherebbe di svegliare il sonno dei suoi alleati in Arabia Saudita e di organizzare manifestazioni per fare cadere il regime di Riad. L’Arabia Saudita per evitare l’estendersi delle manifestazioni nel suo territorio ha di recente appoggiato il governo del Bahrein inviando i propri soldati e carri armati nella piazza di Manama con lo scopo di combattere i manifestanti considerati dal regime traditori e alleati dell’Iran.

Il Re Abdallah ha recentemente espresso il suo dissenso dichiarando che  «Quello che accade in Siria è disumano e non islamico».

Come  sostenuto da diversi analisti, Abdallah avrebbe dovuto applicare il detto libanese che dice: “chi ha la casa di vetro, non dovrebbe lanciare sassi alle case altrui”.

La Turchia sembra essersi resa conto di quanto sia pericoloso per la sua sicurezza  l’eventuale  caduta  del  governo di Asad.  Gli Alawaiti che vivono in Turchia e che sono circa il 13 % della popolazione turca, hanno contribuito al cambiamento della politica di Ankara verso la Siria. Dopo che il governo turco aveva espresso dure posizioni contro quello siriano, nei giorni scorsi ha inviato in Siria il ministro degli Affari esteri il quale ha dichiarato che: «Con il progetto di riforme che ha adottato, la Siria con Bashār al-Asad sarà un esempio  nel mondo arabo».

La  politica turca nei confronti della Siria non è però stabile. Il 16 Agosto  a causa dello sviluppo delle operazioni militari, lo stesso ministro turco ha lanciato un ultimatum alla Siria per mettere fine alle operazioni militari. Tale confusione nella politica di Ankara verso Damasco è frutto delle forti influenze europee nei confronti della Turchia e del vecchio desiderio turco di farne parte della Comunità Europea.

Dopo questa breve illustrazione di ciò che potrebbe accadere nella regione con la caduta del governo siriano, in particolare le eventuali divisioni dei paesi limitrofi con le conseguenti guerre civili, è importante precisare che la divisone della Siria, del Libano e dell’Iraq in diversi stati su base religiosa, rientra nei piani strategici statunitensi e israeliani atti a giustificare la presenza di uno stato ebraico in Israele.

Tutto ciò rende più realistica l’idea che la Siria stia pagando le sue posizioni per quanto riguarda il conflitto Arabo-Israeliano. La Siria, che continua a volere un accordo di pace basato sul ritorno ai confini del 1967 e sul ritorno dei profughi palestinesi, sta subendo un complotto internazionale simile a quello del 1916 che portò all’attuazione degli accordi Sykes-Picot.

Chi deciderà il futuro della Siria ?

La situazione in Siria sembra non stia andando nella direzione giusta per tutti i gruppi coinvolti nella faccenda. Per potere rispondere alla domanda sopra citata è indispensabile prima individuare i gruppi coinvolti che potrebbero essere principalmente tre.

Il primo gruppo rappresenta la maggior parte della popolazione siriana che non ha preso parte alle manifestazioni e che continua ad appoggiare il presidente Asad e crede nelle riforme che sta portando avanti.

Il secondo gruppo rappresenta i manifestanti armati che continuano a violare le leggi dello Stato e diffondono il terrore nel Paese. Questi ultimi rappresentano una minoranza politica e sociale.

Il terzo gruppo include i manifestanti pacifici che credono nel dialogo con il governo per realizzare le loro richieste. Tale gruppo fino ad oggi non ha in mano un progetto politico da proporre e non è politicamente organizzato.

Alla luce di tutto ciò, la domanda che ci si pone è: chi deciderà il futuro della Siria?

È chiaro che il secondo gruppo non ha una base popolare che lo appoggia, e per tale motivo attraverso l’utilizzo delle armi spera, come in Libia, in un eventuale appoggio esterno attraverso una risoluzione ONU contro il governo di Asad. Ma l’appoggio russo e cinese alla Siria nel Consiglio di Sicurezza  ha impedito il tentativo degli USA e degli alleati Europei di adottare una risoluzione contro la Siria, questo perché la Russia e la Cina considerano quest’ultima un alleato strategico (La Siria ospita l’unica base militare russa nel Mediterraneo e la Russia non è sicuramente disposta a perderla).

La mancata presentazione di un valido progetto di cambiamento in Siria da parte del terzo gruppo e la mancanza di un leader politico che guidi tale movimento, non permettono a quest’ultimo di essere un eventuale alternativa che possa guidare la Siria nei prossimi anni.

L’appoggio della maggioranza del popolo siriano al governo di Asad e il sopracitato appoggio della Russia e della Cina in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, sono elementi che ci portano alla seguente conclusione:  il governo di Asad non cadrà e continuerà a governare il Paese seguendo la linea delle riforme che aveva già adottato e che porteranno ad un maggior cambiamento a livello socio – economico e politico.

*Hamze Jammoul, giurista libanese e esperto nella gestione dei conflitti internazionali .

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L’energia nell’Artico: geopolitica tra i ghiacci

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Tra spedizioni ed esplorazioni

Se negli anni novanta l’attenzione del mondo sul Polo Nord era concentrata su problemi ambientali come lo scioglimento dei ghiacci e l’estinzione di specie animali, nello scorso decennio la corsa agli approvvigionamenti energetici ha spostato gli interessi politici ed economici[i]. Si pensa che il bacino Artico possieda grandi quantità di idrocarburi: un recente studio dello United States Geological Service (usgs) stima che vi sia circa il 20% delle riserve mondiali. Tali riserve sono difficilmente quantificabili a causa degli evidenti problemi di esplorazione e di estrazione dovuti alle temperature e ai banchi di ghiaccio. Di conseguenza, l’estrazione di petrolio e gas naturale non presenta una grande attrattiva per le compagnie petrolifere: l’investimento di enormi capitali senza la sicurezza della buona riuscita del progetto potrebbe risultare antieconomico. I rischi collegati sarebbero la decrescita dei prezzi da una parte e l’incertezza sulla suddivisione territoriale del Polo.

Il Mar Glaciale Artico (od “Oceano Glaciale del Nord”, come viene definito in russo) è considerato un appendice dell’Oceano Atlantico e, in quanto tale, è caratterizzato come “mare aperto”, non come “oceano”. Le esplorazioni del Novecento verso le nuove frontiere del Nord hanno in seguito messo in evidenza come tale mare possa essere considerato un “Mediterraneo Polare”, data la somiglianza con il mare tra Europa, Medio Oriente e Africa.

L’Artico, che divide Asia, Europa e Nord America, era rimasto impraticabile fino all’attiva separazione dei ghiacci da parte di spedizioni polari mirate ad aprire passaggi attraverso la calotta polare (Passaggio a Nordest, Passaggio a Nordovest). Durante una di queste spedizioni, nel 1909, lo statunitense Peary pose la bandiera a stelle e strisce a testimonianza dei loro successi[ii]. L’apertura dei passaggi ha fatto parte della stagione delle esplorazioni artiche, quando certe imprese rappresentavano più una sfida per l’uomo che una venture economica. Questi passaggi hanno permesso le comunicazioni tra nazioni molto lontane in quanto a distanza longitudinale, ma che invece sono facilmente raggiungibili attraversando i ghiacci polari.

 

La situazione giuridica e le rivendicazioni

Negli ultimi anni, le nazioni che si affacciano sull’Artico hanno tentato di risolvere l’annosa questione giuridica sulla sovranità dell’Artico. Il diritto del Mare, codificato da una Convenzione ONU redatta nel 1982 (unclos), prevede che nessuna sovranità possa essere reclamata sull’alto mare (art. 86 unclos). La Convenzione è stata ratificata da tutti i paesi che si affacciano sull’Artico, meno che gli Stati Uniti ed è entrata in vigore nel 1994. Nel 1996 è stato formato il Consiglio dell’Artico (Arctic Council) allo scopo di risolvere attraverso negoziati specifici le controversie, i problemi e le emergenze (soprattutto ambientali) che potessero sorgere. Trattandosi di “alto mare”, i paesi litoranei mantengono una zona economica esclusiva che si estende fino a 200 miglia dalla costa (artt. 57, 58 e 86). Mosca, fin dagli anni venti, ha cercato di far passare il principio settoriale, ritenendo di propria pertinenza il triangolo che ha come vertici il Polo Nord e i due estremi del territorio russo (la regione di Murmansk a nordovest e il distretto di Chukotski a nordest). Tale politica è da sempre osteggiata, soprattutto dai paesi scandinavi, che hanno adottato una politica unitaria sull’Artico.

Gli Stati possono rivendicare una zona economica esclusiva più estesa delle 200 miglia, qualora si dimostri la continuità con la propria piattaforma continentale (art. 76 unclos). Virtualmente, considerando la dorsale Lomonosov come parte integrante della piattaforma continentale russa, Mosca ha disegnato un’area che va anche oltre il Polo Nord, contravvenendo alla consuetudine della suddivisione in settori con vertice proprio sul Polo. Questa rivendicazione è stata consegnata presso la Commissione ONU “sui limiti delle piattaforme continentali” dalla Russia. La stessa commissione ha ricevuto le richieste della Norvegia e ne attende ulteriori da Canada (2013) e Danimarca (2014[iii]). Tuttavia, con molta probabilità, le proposte dei singoli Stati non saranno compatibili. Rimane da capire in base a quale principio si muoverà la Commissione e come saranno affrontati i problemi legati alla sicurezza, agli approvvigionamenti energetici e alle popolazioni artiche. Una soluzione onnicomprensiva che affronti tutte le questioni relative all’Artico potrebbe essere raggiunta con un trattato internazionale. Sarebbe tuttavia necessario prevedere strumenti di monitoraggio e risposta rapida ai problemi, soprattutto ambientali, che potrebbero sorgere.

 

Artico, transito idrocarburi

L’atteggiamento russo

Proprio la Russia, nell’agosto del 2007, pose la propria bandiera sul fondale del Mare Artico[iv]. Su questo evento intervenne l’Alto Commissario Europeo Javier Solana, sostenendo che da allora sarebbero cambiate le dinamiche geostrategiche[v]. Nell’ultima Strategia Energetica (che rilascia proiezioni fino al 2030), decreto approvato alla fine del 2009, il Cremlino stabilisce le prossime tappe per lo sviluppo energetico regionale. Sono previsti lo sviluppo massiccio di infrastrutture di trasporto e la facilitazione dell’iniziativa privata attraverso l’abbassamento della pressione fiscale. Il primo di questi obiettivi riguarda la creazione di un condotto per il trasporto del gas naturale dalla regione di Murmansk che si congiunga con il sistema di trasporto eurasiatico, al fine di completare l’unificazione della rete rivolta all’esportazione, sia verso ovest, sia verso est. Il secondo obiettivo è realizzato dalla recente riforma della tassazione che abbatte significativamente il carico fiscale sulle operazioni di upstream (esplorazione, estrazione e produzione) soprattutto a nord del circolo polare artico[vi]. Quest’ultima mossa rappresenta una novità assoluta nella sfaccettatura giuridica della politica energetica russa, che ha una storia di incertezze burocratiche e ostilità tecniche verso gli investimenti esteri nei nuovi giacimenti (che sono quasi tutti inclusi nell’elenco delle aree di interesse strategico).

La Federazione Russa ha assunto una posizione “antagonista”[vii] ai recenti meeting dei paesi che si affacciano sull’oceano Artico, che si riflette nelle dichiarazioni del 2010 della Dottrina di Sicurezza Nazionale «non si esclude l’uso della forza per risolvere controversie che possano sorgere dalla battaglia competitiva per le risorse naturali»[viii]. Questa posizione rafforza l’atto unilaterale del piazzamento del vessillo russo sul fondale della porzione controversa dell’Artico, ma si distingue dalla tendenza dimostrata storicamente dalla Russia, che preferisce attenersi con scrupolo al Diritto Internazionale.

Oltre alle questioni di principio, la presenza di isole e popolazioni indigene ha causato alcune controversie negli ultimi decenni, che gli Stati hanno spesso risolto con accordi bilaterali. L’ultimo passo significativo è stato compiuto da Norvegia e Russia, durante gli incontri bilaterali che hanno preceduto il meeting del Consiglio dell’Artico nell’autunno 2010.

 

Energia artica

Per quanto concerne i giacimenti più promettenti sul confine meridionale della calotta polare come Shtokman, la Strategia Energetica al 2030[ix] riporta, con un errore di unità di misura[x], dati fermi alle esplorazioni del 2006/07. Nuovi sviluppi si sono visti nel 2008, quando il Cremlino ha pubblicato la propria “Strategia artica”. Inoltre, degli studi paralleli sui dati geologici forniti dagli organismi scientifici russi e norvegesi hanno spinto Bellona, organizzazione di Oslo che si occupa di questioni energetiche e ambientali, a prevedere l’inizio della produzione di gas per il giacimento russo al 2035[xi].

Per quanto riguarda Shtokman, che con le sue 370 miglia quadrate è il secondo giacimento di gas più esteso al mondo, gli ultimi sviluppi prevedono l’inizio dell’estrazione nel 2013. Se i dati delle versioni più ottimistiche fossero corretti, questo sarebbe il deposito più grande al mondo di gas naturale, capace di soddisfare la domanda europea di gas per sette anni. Ma le difficoltà tecnologiche nell’estrazione e nella manutenzione riguardanti le operazioni offshore sono probabilmente la ragione per cui la Russia sta cercando di rendere più appetibile la partecipazione straniera nelle Joint Ventures e negli accordi di produzione condivisa (Production Sharing Agreements o PSA). Shtokman è regolato da un PSA che coinvolge Gazprom (51%), Total (25%) e Statoil (24%), stabilizzato nell’ottobre 2007[xii]. L’ingresso di Total nelle quote della russa Novatek apre nuove prospettive per Parigi nella spartizione degli idrocarburi polari. Inoltre, Shtokman ha rappresentato un banco di prova importante per la collaborazione artica tra Russia e Norvegia: gli ultimi incontri hanno risolto alcune questioni territoriali tra i due paesi che perduravano dalla fine degli anni cinquanta[xiii].

Di nuovo, un giacimento molto promettente in quanto a volumi, ma probabilmente non profittevole in termini economici, diventa un canale fondamentale per la risoluzione attraverso vie diplomatiche di questioni di sovranità territoriale. Questa tendenza si sta rivelando sistematica da qualche tempo. Soprattutto nell’area ex-sovietica, i nuovi giacimenti scoperti in territori a sovranità non definita sono spesso il motore della cooperazione internazionale tra gli Stati rivali (vedasi la collaborazione russo-kazaka su Kurmangazy e quella azero-turkmena su Shah Deniz).

Rosneft e BP: il grande freddo

Alla fine di gennaio 2011, prima della comunicazione del primo “rosso” in bilancio dal 1992, i vertici della British Petroleum (BP) hanno prospettato una collaborazione con Rosneft per lo sfruttamento di risorse nella zona russa dell’Artico[xiv]. Allora, Rosneft era un campione dell’energia russa a pieno titolo: la seconda compagnia petrolifera russa era controllata dallo stato e Igor Sechin, importante uomo del Cremlino, la presiedeva. L’accordo, tuttavia, sembrava poco probabile già in partenza, dato il tradizionale atteggiamento russo, riluttante verso qualsiasi interesse estero per le proprie riserve strategiche. Inoltre, TNK-BP – la JV russo-britannica formata nel 2003 grazie all’intensa collaborazione tra Putin e Blair – non gradì la propria esclusione dalle trattative. Rosneft, infatti, avrebbe guadagnato in cambio il 5% delle azioni BP. Il volume monetario dell’accordo si aggira intorno ai 16 miliardi di dollari[xv].

Mikhail Fridman, l’oligarca russo che ha permesso il collegamento tra la Siberia e Londra, ha forse subito un ulteriore tentativo di Putin di scavalcare l’interesse privato, dopo lo smantellamento di Yukos, delle cui ricchezze ha principalmente beneficiato Rosneft. L’azione legale di Alpha Bank, gruppo finanziario di Fridman che controlla TNK, ha inserito un nuovo ostacolo nella partita tra Londra e Mosca.

Il progetto BP-Rosneft era nato come tentativo di avvicinare i due colossi energetici nel Mare di Kara, un territorio ostile alle esplorazioni. Il partenariato avrebbe significato uno scambio di know-how scientifico e tecnologico, tanto desiderato dalla componente russa. Se il Cremlino vuole far diventare l’Artico il suo centro energetico dei prossimi decenni, deve imparare a sfruttarlo. Per ottenere tale scopo, Mosca era disposta a invitare i suoi rivali stranieri in patria e a concedere il 9,5% degli stock di Rosneft. Ma a causa delle multiple azioni legali di Fridman, l’accordo è stato ripetutamente bloccato dalle corti (prima russe, poi svedesi). Egli sostenne che «se si vuole prendere una nuova moglie, bisogna prima divorziare dalla propria», mentre Putin si sentì ingannato da BP, colpevole di non aver comunicato che gli accordi con TNK-BP ne impedissero la capacità di negoziare direttamente con il governo russo[xvi].

Dopo il tentativo di buyback fallito da BP nei confronti della propria JV russa, la compagnia londinese ha dovuto inchinarsi alla decisione arbitrale del maggio scorso che ha interdetto BP da negoziati sui nuovi progetti di esplorazione in territorio russo. Così, TNK-BP manterrà l’esclusiva per qualsiasi attività di BP nell’Artico. Grazie a questo escamotage Bob Dudley, l’a.d. di BP succeduto a Tony Hayward dopo il disastro della Deepwater Horizon, aveva provato a salvare lo scambio di azioni e di quadri. Ma l’arbitrato ha negato quest’ultima possibilità e affidato la transazione a un blind trust[xvii].

La cronaca della questione è andata avanti negli ultimi mesi con lo stesso ritornello di difficoltà giuridiche miste a diatribe politiche. A fine maggio, il ministro dell’energia russo Sergei Shmatko l’ha infine definito «un accordo sfumato» e ha provato a coinvolgere Shell, senza scambi di azioni, per i progetti nel Mar Glaciale Artico.

Tanto rumore per nulla, diranno infine le testate economiche internazionali, ma forse la chiave di lettura più interessante è quella di politica energetica: c’è una forte tensione sull’esplorazione del sottosuolo artico alla ricerca di nuovi giacimenti per placare la sete di idrocarburi. Il Cremlino è arrivato a concedere la partecipazione straniera in progetti “strategici” a causa del declino della produzione nelle roccaforti siberiane del gas. Il segnale è chiaro, prima di convertirsi alle fonti rinnovabili, la Russia tenterà di sfruttare le riserve tradizionali fino all’ultima goccia. Data l’importanza strategica dei progetti futuri, lo Stato manterrà il ruolo da protagonista e si perpetuerà la dinamica di interdipendenza tra politica energetica e politica estera.

 

Conclusione

La corsa all’Artico somiglia sempre più alla corsa all’Africa risalente a più di cento anni fa. Oggi come allora, l’oggetto della prova di forza è lo spazio, considerato terra nullius, insieme alle sue risorse. A differenza dell’Africa, d’altra parte, per configurazione geografica e climatica, l’Artico non possiede una quantità di risorse facilmente quantificabile o sfruttabile. L’incertezza sulla disponibilità dei tesori nel sottosuolo artico si accompagna all’incertezza sul quadro giuridico che vi ripartisce la sovranità.

L’evoluzione, attraverso tutto il Novecento, delle regole internazionali sull’Artico dimostra come la consuetudine tra Stati possa essere scavalcata da accordi di hard law a cui gli Stati dovranno adeguarsi. Nell’attesa di un trattato sull’Artico, gli Stati possono rifarsi ad accordi bilaterali, consuetudini, interpretazioni del Diritto del Mare, oltre che al proprio diritto interno.  Un trattato che regoli i vari aspetti giuridici che riguardano la calotta polare, il suo ecosistema e le relazioni commerciali tra i paesi che vi si affacciano potrebbe comunque non essere abbastanza per risolvere i problemi che potranno sorgere, specialmente a livello ambientale. Lo sfruttamento delle risorse nel sottosuolo artico, senza considerare chi ne sarà alla fine il beneficiario, ne espone a rischi ulteriori l’ecosistema, già messo a dura prova dal riscaldamento globale che sta causando lo scioglimento dei ghiacci.

Un’ultima valutazione, considerati i rischi giuridici e ambientali, risiede nella fattibilità di progetti di estrazione di idrocarburi che richiedono tecnologie molto avanzate e ingenti investimenti iniziali. L’economicità di tali progetti è messa in discussione dai troppi rischi collegati. Nell’Artico meridionale molti progetti hanno subito ritardi e alcuni, principalmente Shtokman, rappresentano ormai una sfida politica prima che essere un lungimirante obiettivo di politica energetica.

Mosca partecipa da protagonista alla “corsa all’Artico” e la facilità con cui si muove in campo energetico – soprattutto attraverso dichiarazioni pubbliche e progetti di investimento – la rende credibile nelle sue rivendicazioni. La carta energetica sembra servire al Cremlino per portare avanti le sue pretese in campo internazionale da una posizione di forza. Nonostante il tentativo di far valere il fait accompli con la posa della bandiera nel 2007, il soft power energetico sembra più efficace dell’hard power militare nel risolvere le questioni aperte dell’Artico.

 

* Paolo Sorbello ha ottenuto la Laurea Specialistica in Scienze Internazionali e Diplomatiche dall’Università di Bologna (sede di Forlì). La sua tesi di ricerca è stata successivamente pubblicata da Lambert Academic Publishing con il titolo “The Role of Energy in Russian Foreign Policy towards Kazakhstan” (Giugno 2011). L’autore ha condotto i suoi studi presso istituzioni accademiche in Spagna, Russia e negli Stati Uniti. Ha lavorato presso importanti istituti di ricerca negli Stati Uniti e attualmente collabora con il centro di ricerca IECOB pubblicando articoli e approfondimenti su tematiche inerenti alla geopolitica dell’energia.

 


[i] Nonostante ciò, i problemi ambientali sono ancora evidenziati dai gruppi di protezione dell’ecosistema Artico. Arctic Monitoring and Assessment Programme, Arctic Pollution 2009, AMAP, Oslo, 2009. Oltre agli scienziati, anche i giornalisti sono preoccupati delle ripercussioni negative che l’estrazione di idrocarburi può causare nell’Artico: Subhankar Banerjee, “BPing the Arctic”, European Energy Review, 26 maggio 2010. www.europeanenergyreview.eu (ultimo accesso, 1 agosto 2011).

[ii] Yu. G. Barsegov, I. M. Mogilevkin, et al., Arktika: Interesy Rossii i mezhdye usloviya ikh realizatsii, Nauka, Mosca, 2002, p. 23.

[iii] “Denmark preparing to stake claim on North Pole”, The Telegraph, Londra, 18 maggio 2011.

[iv] “Both Russian mini-subs surface after symbolic North Pole dive”, RIA Novosti, 2 agosto 2007 http://en.rian.ru/russia/20070802/70229618.html (ultimo accesso: 1 agosto, 2011)

[v] Alun Anderson, After the Ice, Harper Collins, New York, 2009, p.103.

[vi] Ernst & Young, Global Oil and Gas Tax Guide, E&Y, Londra, 2011 www.ey.com/oilandgas (ultimo accesso: 1 agosto, 2011)

[vii] Andrew Osborn, “Russia employs Arctic brigade to defend oil and gas reserves”, The Telegraph, Londra, 31 marzo 2011.

[viii] Citato in Dmitri Trenin e Pavel K. Baev, “The Arctic: A View from Moscow”, Carnegie Endowment for International Peace, 2010.

[ix] President of the Russian Federation, “Energeticheskaya strategiya Rossii na period do 2030 goda”, approvata con il decreto num. 1715 (13 novembre 2009), disponibile in inglese: http://www.energystrategy.ru/index.htm (ultimo accesso: 15 gennaio 2011).

[x] Nell’elenco delle riserve presenti nella “sezione europea” dei giacimenti russi, si nota un errore tanto ingenuo quanto sorprendente: si dice che, grazie alla scoperta di Shtokman, vi siano presenti da 131 a 137 mila miliardi di metri cubi di gas, ma in realtà la cifra va declinata in mila miliardi di piedi cubi (cubic feet, la misura britannica dei volumi di gas), che determina un volume di gas inferiore di 33 volte.

[xi] Reiner Gatermann, “No scramble for the Arctic, yet”, European Energy Review, 22 gennaio 2010. www.europeanenergyreview.eu (ultimo accesso, 1 agosto 2011).

[xii] Indra Øverland, “Shtokman and Russia’s Arctic Petroleum Frontier”, Russian Analytical Digest, n. 33, 22 gennaio 2008, www.res.ethz.ch (ultimo accesso, 1 agosto 2011).

[xiii] Nicolai N. Petro, “Russian Foreign Policy 2000-2011: From Nation-State to Global Risk Sharing”, PECOB Paper Series, n. 12, Giugno 2011, p. 17, www.pecob.eu (ultimo accesso, 1 agosto 2011).

[xiv] “Historic alliance BP and Rosneft on major Arctic projects”, European Energy Review, 17 Gennaio 2011. www.europeanenergyreview.eu (ultimo accesso, 1 agosto 2011).

[xv] “BP in Russia: Dancing with the Bears”, The Economist, Londra, 3 febbraio 2011

[xvi] “Dudley do-wrong”, The Economist, 31 marzo 2011.

[xvii] Sylvia Pfeifer, “BP cedes Russian Arctic to TNK-BP”, Financial Times, 6 maggio 2011.

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Marco Costa, Soviet e sobornost. Correnti spirituali nella Russia sovietica e postsovietica

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Marco Costa
Soviet e sobornost
Correnti spirituali nella Russia sovietica e postsovietica

Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2011, pp. 94, € 10,00
posta elettronica:
insegnadelveltro1@tin.it

Il Libro
Questo saggio di Marco Costa ci presenta il quadro storico dei rapporti intercorsi tra autorità religiosa e potere politico nella Russia del Novecento. Dopo essersi ampiamente soffermato sugli anni del leninismo, che videro scatenarsi una virulenta offensiva ateista, coerente coi contenuti materialistici dell’ideologia marxista, l’Autore esamina attentamente il periodo successivo, indugiando sulla svolta che caratterizzò il periodo staliniano negli anni della “Grande guerra patriottica”, quando alla riappropriazione dell’idea di Patria da parte del potere comunista si accompagnò la fine della persecuzione antiortodossa, fino all’elezione del nuovo Patriarca. Lo studio si conclude con una panoramica della politica russa postsovietica, nella quale emerge con particolare evidenza la convergenza del filone nazionalcomunista con gl’indirizzi patriottici dell’Ortodossia russa.

L’Autore
Marco Costa, laureato in filosofia, è assessore esterno del Comune di Busana (RE) con deleghe ai settori: Lavori Pubblici e Difesa del suolo.

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L’attualità di Friedrich List

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Uno dei più attenti e lucidi osservatori dell’inarrestabile crescita economica statunitense scaturita dalla Rivoluzione Americana fu senza ombra di dubbio lo studioso tedesco Friedrich List.

Partito alla volta del Nuovo Mondo in compagnia del Marchese Lafayette (che era stato invitato negli USA in qualità di “ospite della nazione”), List rimase ben presto impressionato dall’originalità e dalla funzionalità del “sistema americano” che aveva consentito alle ex Colonie inglesi di bruciare le tappe riducendo drasticamente il divario, in termini di sviluppo, che le separava dalle più potenti nazioni europee.

List ebbe sufficiente acume per notare che la Rivoluzione Americana era scoppiata dall’esigenza dei coloni di recidere definitivamente il nodo gordiano della dipendenza dall’Inghilterra e di abbattere i vincoli fissati dal liberismo propugnato da Adam Smith, che inchiodavano il Nord America al mero ruolo di succursale dell’Impero Britannico.

Londra esigeva inderogabilmente che le Colonie profondessero tutti gli sforzi necessari per il potenziamento del settore primario e che rifornissero il mercato internazionale di tabacco, cotone e grano a prezzi altamente competitivi, lasciando alla madrepatria il monopolio della produzione manifatturiera.

Nella sua opera capitale “La ricchezza delle nazioni”, Smith previde, sotto certi aspetti, ciò che sarebbe accaduto nell’arco di pochi anni:

“[Qualora] Dovesse accadere che gli americani, per associazione o per qualche sorta di violenza, interrompessero l’importazione di manufatti europei, dando così un monopolio a loro compatrioti che potessero fabbricare beni simili, sviando una parte considerevole del loro capitale in questa intrapresa, essi ritarderebbero, anziché accelerare, la crescita della loro produzione annuale, e ostacolerebbero, lungi dal promuoverlo, il progresso della loro terra verso prosperità e grandezza. E sarebbe anche peggio se, allo stesso modo, tentassero di accaparrarsi essi stessi il loro commercio d’esportazione”.

Si tratta di una delle pietre miliari del liberismo: qualora non si ottimizzi l’uso del capitale a disposizione si finirebbe inesorabilmente per sobbarcare il consumatore finale di oneri tali da inceppare e compromettere il pieno e corretto dispiegamento del sistema produttivo.

Tuttavia, la profezia di Smith andò a infrangersi contro lo scoglio incarnato da George Washington e Benjamin Franklin, fermamente convinti che il pieno riscatto delle colonie non sarebbe mai passato per l’incremento delle esportazioni, ma per lo sviluppo e il potenziamento del mercato interno.

Fu così, in aperta e diametrale antitesi rispetto ai precetti basilari del liberismo propugnato da Adam Smith che nacquero gli Stati Uniti, nazione antiliberista per eccellenza.

Il Segretario del Tesoro Alexander Hamilton fondò la Banca Nazionale (1791), un istituto statale incaricato di emettere moneta in base alla domanda esistente delle forze produttive in modo da spezzare il rapporto di stretta interdipendenza che vincolava la produzione alla disponibilità dei banchieri privati di concedere credito.

Per emettere moneta Hamilton pensò di non limitare il capitale della Banca alle mere riserve di metalli preziosi custodite nei forzieri, ma di estenderlo anche a numerosi Titoli di Stato, di cui la nazione si impegnava ad onorare il pagamento tramite la ricchezza che sarebbe stata prodotta, negli anni seguenti, dal lavoro dei cittadini statunitensi.

Hamilton integrò queste innovative misure con l’imposizione di elevati dazi protettivi sulle importazioni di manufatti a basso prezzo, in modo da stimolare ricerca e innovazione da parte dell’industria nazionale.

Tali dazi sarebbero poi stati eliminati non appena il settore secondario americano si fosse dotato degli strumenti necessari per competere efficacemente sui mercati internazionali.

Tuttavia le pressioni esercitate dai grandi latifondisti e dai commercianti divennero ben presto soverchianti per i governi che avevano ereditato il testimone di Washington, finché la Banca Nazionale non fu chiusa, nel 1811.

List arrivò negli Stati Uniti proprio in quegli anni, in cui la lotta tra proprietari terrieri e industriali si stava facendo sempre più aspra e si schierò immediatamente contro i primi e a favore dei secondi.

Egli si pose in spiccata antitesi rispetto ai cardini del liberismo propugnato da Adam Smith, smontando pezzo per pezzo la sua dottrina e confutando molti degli assunti su cui si basava “La ricchezza delle nazioni”.

Smith considerava l’istituzione statale un intralcio al libero dispiegamento del mercato e di oppressione della libertà dei singoli individui, soprattutto in materia economica.

Lo stesso protezionismo era bollato da Smith come alta espressione di “Pura follia”, in quanto:

“Ogni nazione, come ogni individuo, deve comprare liberamente le merci dove esse sono disponibili al prezzo più basso”.

List, di converso, riteneva invece che l’applicazione dei dazi sulle importazioni fosse una misura indispensabile a garantire un grado di prosperità tale da affermare la nazione al rango di grande potenza, stimolando gli investitori americani a migliorare i propri sistemi produttivi e ad ammodernarli sulla falsariga dei loro rivali europei.

Ma il solco profondo che divise inconciliabilmente Smith da List consistette nella differente importanza che i due attribuivano a lavoro e capitale; il primo conferì al capitale una capacità produttiva intrinseca, mentre il secondo considerò il lavoro come forza produttiva primaria da sviluppare con l’ausilio di quantità determinate di capitale.

L’analisi di Smith consisteva principalmente nello studio delle dinamiche che regolavano il commercio, ovvero lo scambio dei beni, mentre l’indagine di List verteva sulla trattazione della vera forza produttiva.

Quest’ultimo accusò l’economista inglese di aver ridotto la nozione di capitale esclusivamente alle materie prime, conferendo ad esse un’importanza eccessiva e trascurando il fatto che il corretto e proficuo impiego di questo capitale dipende dalle condizioni sociali e culturali di una nazione, oltre che dalle possibilità offerte dalla natura.

List prese le distanze da Smith che aveva proclamato l’irrilevanza di tali condizioni sociali e culturali attribuendo ad esse un valore che ridefinì “capitale della mente”.

“Così – spiegò List – l’uomo che alleva maiali è, secondo questa scuola, un membro produttivo della comunità, ma colui che istruisce gli uomini è un mero non – produttore (…). Un Newton, un Watt, un Keplero non è tanto produttivo quanto un cavallo, un mulo o un bue da tiro (…). E non dobbiamo credere che J .B. Say abbia rimediato a questo difetto della dottrina di Adam Smith con la sua invenzione di beni immateriali. I produttori mentali (immateriali) sono produttivi solo in quanto, secondo questa veduta, sono remunerati con valori di scambio, e non in quanto produttori di capacità produttiva. Essi paiono a costoro solo un capitale accumulato”.

Nel corso della seconda parte della sua carriera di studioso di economia List assunse poi toni ancor più radicali nella critica al liberismo classico:

“La scuola [liberista] ha adottato come sua espressione favorita il detto <<laissez faire, laissez passer>>, un’espressione che suona gradita ai predoni, ai truffatori e ai ladri non meno che ai mercanti. Questa perversione, di abbandonare gli interessi dell’industria e dell’agricoltura alle esigenze del commercio, senza alcun limite, è la conseguenza naturale di questa teoria, che tiene conto puramente dei valori presenti, e non delle capacità di produrli, e considera il mondo come nient’altro che come una indivisibile repubblica di mercanti. La scuola non comprende che il mercante può conseguire il suo scopo (ossia il guadagno di valori di scambio) a spese dell’agricoltura e del fabbricante, a spese delle capacità produttive della nazione e della sua stessa indipendenza”.

L’accusa contenuta nel passo riportato è evidentemente diretta al cuore stesso del modello liberista, che si basa sull’assunto che l’economia politica corrisponda alla semplice somma delle economie private, o degli interessi privati, dei singoli individui, laddove la Storia ha ampiamente dimostrato l’esattezza della tesi contraria; l’agire degli individui che perseguono con attenzione i propri interessi personali non necessariamente migliora le condizioni della nazione, né consegue gli interessi della comunità.

Ladri, rapinatori, usurai coltivano con puntiglio i propri interessi, ma che la società nel suo complesso benefici delle loro attività, qualora costoro fossero lasciati liberi (“laissez faire”) di esercitarle è una conclusione che pochi oseranno trarre.

Ciò si verifica tanto in seno alle singole nazioni quanto, e in misura esponenziale, tra le nazioni stesse.

Parlando di un libero mercato unico mondiale e trattando le nazioni alla stregua di meri individui, Smith dedusse che ogni nazione, così come ogni individuo, finisca inesorabilmente per conseguire l’interesse globale della razza umana nel perseguire i propri specifici interessi.

Tuttavia, a differenza del cieco ottimismo sparso a piene mani dal celebre economista britannico, la Storia ha ampiamente dimostrato che, come scrive Gianfranco La Grassa:

“In linea di principio dunque – e non soltanto nel capitalismo ma anche nelle società precedenti – il conflitto, la competizione, lo scontro sono aspetti generali e preminenti, mentre la cooperazione, la collaborazione, l’alleanza, sono aspetti particolari e subordinati. Se ne tenga infine conto con un minimo di realismo. Basta con le pie intenzioni che annebbiano la mente e sviano le indagini”.

Si tratta di un’impostazione certo schmittiana dei rapporti umani, ma che non tradisce affatto il sostanziale stato delle cose.

Ed è proprio in relazione/opposizione alla propagazione del libero mercato su scala mondiale auspicata da Smith che si colloca il pragmatismo di List, il quale comprese benissimo dove si sarebbe andati a parare applicando asetticamente i dettami del liberismo:

“Nelle condizioni attuali del mondo l’effetto di un libero commercio globale non porterebbe a una libera repubblica universale ma, al contrario, alla soggezione universale delle nazioni meno avanzate sotto la supremazia della potenza predominante. Il mercato unico può essere realizzato solo fra le nazioni che hanno raggiunto un livello pressappoco uguale di industria e di civilizzazione, di civiltà politica e potenza”.

Egli ebbe inoltre modo di comprendere il ruolo strategicamente fondamentale dei mezzi di trasporto proprio nel corso del suo soggiorno negli Stati Uniti quando, nell’osservare l’estensione inarrestabile della rete ferroviaria verso le terre inesplorate dell’ovest ebbe a scrivere che:

In precedenza conoscevo l’importanza dei mezzi di trasporto solo dal punto di vista della teoria dei valori, ovvero solo sull’effetto che i trasporti hanno riguardo all’espansione del mercato e alla riduzione dei prezzi dei beni materiali.Solo adesso comincio a considerarli dal punto di vista delle forze produttive (…) e del suo influsso sull’intera vita mentale e politica, i rapporti sociali, la produttività e la potenza delle nazioni”.

Non è un caso che non appena List rimise piede sul suolo natio si fece attivo sostenitore dell’unione doganale tedesca (zollverein) – che nacque nel 1834 – per ottimizzare il flusso delle merci all’interno della confederazione.

E’ brandendo la spada del “sistema americano” propugnato a suo tempo da George Washington e celebrato, rivisitato e ampliamente corretto di Friedrich List nella sua opera capitale “Il sistema nazionale di economia politica” che Abraham Lincoln si fece garante degli interessi degli industriali del nord per reprimere le riottosità dei grandi proprietari terrieri del sud, portatori di interessi profondamente antinazionali connessi alla ex madrepatria britannica.

Non a caso una delle prime mosse strategiche della Guerra di Secessione (1863 – 1865) fu il blocco dei porti confederati ad opera della flotta unionista, che impedì ai cargo carichi di cotone di salpare alla volta della Gran Bretagna.

Ciò assestò un duro colpo agli interessi dei grandi proprietari terrieri che finanziavano le armate sudiste e accelerò la debacle della Confederazione.

La lezione di Friedrich List si rivelò poi fondamentale in Germania, paese che fu più volte ricostruito da uomini politici come Bismarck, Hitler e Adenauer, i quali usufruirono delle intuizioni dell’economista tedesco (specialmente in relazione al potenziamento delle forze produttive) per applicare modelli economici finalizzati ad accrescere la ricchezza complessiva del paese a scapito dei gruppi dominanti portatori di interessi profondamente antinazionali.

Anche l’attuale fase capitalistica conferisce all’analisi listiana una straordinaria attualità.

Essa si rivela uno strumento indispensabile alla comprensione delle dinamiche che regolano l’odierna epoca di globalizzazione espansiva incardinata sul perno monocentrico statunitense.

List insegna a comprendere come l’unipolarismo imperniato sugli Stati Uniti abbia prodotto numerosi attriti tra gruppi di dominanti che hanno aperto una serie di faglie spesso coincidenti con i confini delle singole nazioni.

L’odierna fase capitalistica consacra infatti il ruolo centrale dello Stato, unica entità in grado di attingere alle proprie risorse per ergersi a punta di lancia delle forze strategiche garanti degli interessi corrispondenti a quelli nazionali.

Letture ideologiche come l’internazionalismo delle masse sfruttate e animate da una volontà di riscatto nei confronti dei propri oppressori o il pacifismo di cui è innervata la dottrina neoliberale che attribuisce al mondo una stabilità continuamente confutata dalla realtà sviliscono di fronte alla cruda e lucida analisi listiana.

Solo negli anni a cavallo tra ‘800 e ‘900 si è verificata una conflittualità internazionale paragonabile a quella che sta progressivamente andando ad acuirsi nel corso dell’attuale fase.

Tale conflittualità è animata non solo e non tanto dallo scontro tra i paesi ricchi e paesi che ambiscono a rompere il giogo che li ha inchiodati alla propria irrilevanza storica e geopolitica, ma va estendendosi a macchia d’olio condizionando i rapporti tra le grandi potenze che elaborano strategie atte a minare il primato internazionale occupato da quella dominante.

List sostenne che è dovere di ogni nazione quello di combattere l’unipolarismo incardinato sulla potenza egemone elaborando strategie atte a riattizzare focolai di conflittualità internazionale.

La tortuosità dalle strade da percorrere per giungere a questo risultato rende ovviamente arduo il cammino ed imprevedibili le potenziali evoluzioni del conflitto scatenato.

Ma è proprio il caos fomentato dall’inasprimento dei toni del conflitto tra grandi potenze che ha aperto una falla nel rigido assetto monocentrico.

Si tratta di una falla che sta costantemente allargandosi e che promette di ridisegnare i rapporti di forza internazionali.

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Notti e giorni di angoscia a Tripoli

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Notti e giorni di angoscia a Tripoli

24 agosto 14:30

Contrariamente a quanto riportato dalla Cnn, non sono le forze lealiste  che avrebbero impedito ai giornalisti di uscire.

Dal 21 agosto l’Hotel Rixos è circondato dalle forze ribelli sotto il comando della NATO.

I 35-40 giornalisti (tra cui Thierry Meyssan e Madhi Darius Nazemroaya, n.d.t.) lì assediati (non sappiamo il numero esatto) potranno uscire soltanto quando sarà trovata una soluzione per garantire la loro sicurezza

 

Silvia Cattori

http://www.silviacattori.net/article1845.html

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Sarkozy: la Russia sarà invitata alla conferenza degli “Amici della Libia”

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Fonte:  http://www.newsland.ru/news/detail/id/765659/?utm_medium=twitter&utm_source=Newsland

24 agosto

Russia, Cina, Brasile e India saranno invitate a partecipare alla conferenza internazionale degli “Amici della Libia” che si terrà a Parigi il 1° settembre, ha detto il presidente francese Nicolas Sarkozy.

“Questo incontro va ben al di là del gruppo di contatto. Abbiamo intenzione di invitare (a prendervi parte) i nostri amici cinesi, russi, gli amici brasiliani, e indiani”, ha detto Sarkozy dopo un incontro con il capo del comitato esecutivo della nazionale di transizione Consiglio (CNT) della Libia, Mahmoud Jibril. Ha anche detto che alla conferenza sarà presente il Segretario Generale Ban Ki-moon.

Si prevede che la conferenza discuterà ulteriori passi per attuare il cambio di regime in Libia nel dopo Muammar Gheddafi e le azioni della coalizione per aiutare le nuove autorità. La precedente riunione del gruppo di collegamento sulla Libia si è svolta a metà luglio a Istanbul. I ribelli hanno preso la residenza a Tripoli di Gheddafi e ha annunciato un pieno trasferimento di potere nelle loro mani. Dove sia Gheddafi attualmente è sconosciuto. E’ stato riferito che ha fatto un viaggio segreto nella Tripoli controllata dai ribelli.

Il Consiglio di sicurezza dell’ONU, il 17 marzo ha approvato una risoluzione che chiede l’introduzione della no-fly zone sulla Libia. Le operazioni delle forze della coalizione in Libia sono iniziate il 19 marzo. La leadership della Campagna in Libia, il 31 marzo è stata completamente trasferita ai rappresentanti del comando NATO. Il mandato dell’operazione era scaduto il 27 giugno, ma il 1 giugno è stata estesa l’operazione della NATO di 90 giorni – fino alla fine di settembre.

Nella città di Bengasi in Libia orientale, il 27 febbraio i ribelli hanno costituito il Consiglio nazionale di transizione, che si è dichiarata la sola autorità legittima nel paese. Decine di paesi tra cui gli Stati Uniti, hanno riconosciuto illegittimo il regime di Gheddafi e di fatto annunciato il riconoscimento del CNT come legale rappresentante del popolo libico.

Si prevede che il CNT s’incontrerà nella capitale libica, il 27 agosto.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

http://www.aurora03.da.ru
http://www.bollettinoaurora.da.ru
http://aurorasito.wordpress.com

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Messaggio di Thierry Meyssan da Tripoli (0re 21:47 del 24 agosto 2011)

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Messaggio di Thierry Meyssan da Tripoli (0re 21:47 del 24 agosto 2011)

Thierry Meyssan fondatore del sito indipendente Réseau Voltaire   ci ha inviato un messaggio confermando l’evacuzione  dall’ Hotel Rixos a cura della CRI;   a mezzogiorno dovrebbe – insieme ad altri giornalisti – essere imbarcato per Malta per il tramite dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni.
Scrive Meyssan  ( ore 21:47 del 24 agosto ) ” Il centro di Tripoli è occupato dalle forze ribelli. La popolazione è rinchiusa in casa. Nessuna gioia. Solo terrore. Nessuna libertà, solo occupazione straniera.


Chers amis,

La Croix-Rouge internationale nous a tous extraits du Rixos.

Nous serons évacués par bateau demain midi vers Malte par l’Organisation des migrations internationales (OMI)

Le centre de Tripoli est occupé par les rebelles. La population est cloitrée chez elle. Pas de joie, de la terreur. Pas de liberté, l’occupation étrangère.

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Intervista esclusiva a Sergej Baburin

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Sergej Baburin, rettore dell’Università Statale Russa del commercio e dell’economia, ex deputato della Duma di Stato della Federazione Russa, ex vice-presidente della Duma, attualmente presidente del comitato russo di solidarietà con i popoli della Libia e della Siria, ha rilasciato questa intervista esclusiva per la rivista Eurasia sui rapporti tra Italia e Russia e sulla guerra in Libia. L’intervista è stata raccolta da Antonio Grego a Mosca, il 5 giugno scorso

Antonio Grego – Può descriverci, secondo il suo punto di vista, la situazione politica attuale interna della Russia? Come giudica l’operato dell’attuale presidente Medvedev?

Sergei Baburin – Dmitry Medvedev è un uomo molto intelligente, ma purtroppo per essere il capo dello Stato, non basta avere solamente la mente. E lui ha fatto tutti gli stessi errori che commise Gorbaciov a suo tempo, in effetti ne è il degno successore. E la cosa più triste è che lui essendo il capo di Stato, non prendeva in considerazione gli appelli dei nostri partner del G8 per ripensare, sulla scorta dell’esperienza della crisi finanziaria mondiale, il ruolo dello Stato e rafforzare le funzioni sociali dello Stato.

Infatti il presidente Medvedev ed il suo staff rimangono preda delle illusioni liberali. Delle illusioni che in economia non dovrebbe esserci la presenza dello Stato e che l’economia è capace di svilupparsi da sola. Nel mondo si è già dimostrato il contrario. E la Russia ha già cominciato a non stare strategicamente al passo nella comprensione delle sfide del 21° secolo. Questo non porterà a nulla di buono né per Medvedev né per la Russia.

La situazione politica interna in Russia è molto allarmante. Perché l’elite, o per meglio dire la nomenclatura politica, si è staccata dalla realtà. Si librano nello spazio, senza sapere cosa sta succedendo alla maggioranza della popolazione. È proprio questo il motivo che rende i processi rivoluzionari praticamente inevitabili. E il destino di Medvedev nel migliore dei casi sarebbe una ripetizione del destino di Gorbaciov. Anche se non escludo che ora, durante la compagnia per le elezioni presidenziali, Putin semplicemente lo metterà da parte e ritornerà. O proverà a ritornare al suo posto.

A.G. – La novità politica più importante di questi mesi, la creazione del “fronte popolare panrusso” (Общероссийский народный фронт) ad opera del primo ministro Vladimir Putin, sembra voler chiudere con gli anni della presidenza Medvedev, caratterizzati da un tentativo di normalizzazione e occidentalizzazione della Russia a cui ha corrisposto una politica estera poco incisiva e remissiva nei confronti delle pretese occidentali. Secondo lei questo nuovo partito può essere una occasione di ritorno ad una politica di forza e di prestigio per la Russia oppure si tratta soltanto di una mossa elettorale per riguadagnare i consensi ed i gruppi di interessi che in questo periodo si sono coalizzati intorno alla figura del “liberale” Medvedev?

S.B. – L’idea del Fronte Popolare io la predico da due anni. E un anno e mezzo fa la stavo discutendo con il presidente del Consiglio della Federazione di allora, Sergei Mironov, leader del partito “Russia giusta”, e con il leader dei comunisti Gennadij Zyuganov.  Perché l’idea di Fronte Popolare presuppone l’unificazione delle masse popolari prive di potere politico, una larga alleanza per farle arrivare al potere e realizzare i loro ideali sociali.

Questa è la sostanza di qualsiasi fronte popolare. Perciò quando il Primo Ministro ha esortato a creare un Fronte popolare, negli ampi strati sociali questo ha destato stupore, anzi raggelamento. Stupore di chi non riesce a capire – ma che potere manca a quelli che creano il Fronte Popolare? Qual e’ il potere che vogliono prendere? Ce l’hanno già il potere, se si parla del partito “Russia Unita”. Se si parla del fatto che il partito “Russia Unita” ha deciso di attirare sostenitori… Già c’è un istituto di sostenitori di Russia Unita. Già dicevano fieramente che hanno milioni di sostenitori. Beh, diciamo che ora hanno deciso di fare tutto nel formato di una certa organizzazione, hanno chiamato questa organizzazione Fronte Popolare, ma non hanno risposto alla domanda – contro di chi è questo fronte?

Qualsiasi fronte popolare è contro il governo in carica. In Russia questo è stato, ad esempio, il Fronte di Salvezza Nazionale degli anni 92 – 93. E contro chi è rivolto questo fronte popolare panrusso di oggi? Nessuno ha risposto e non può rispondere a questa domanda. Bene, il raggelamento che questa iniziativa ha destato in quelli che si mobilitano c’è perché vengono invitate diverse persone e si dice: unitevi al Fronte Popolare se volete che vi vada tutto bene al lavoro. In questo modo si allineano in file regolari le varie società pubbliche, i cui capi sono già iscritti al partito Russia Unita.

Non molto tempo fa ho ricevuto una lettera dal presidente della Unione dei Rettori della città di Mosca, il Prof. Fedorov, in cui mi chiede come mi porrei nell’eventualità di un’adesione dell’Unione Russa dei Rettori al Fronte Popolare. Naturalmente, ho risposto in forma scritta che appoggio completamente l’adesione dell’Unione Russa dei Rettori al Fronte Popolare dopo l’uscita da quest’ultimo del partito di Russia Unita. Perché altrimenti è un assurdo. Partecipare all’assurdo io non lo voglio nemmeno per far compagnia. Di per sé, la creazione del Fronte Popolare non corrisponde in nessun modo ai processi di Medvedev, perché il Fronte Popolare assorbe tutti i devoti alle autorità. Il significato di un Fronte popolare così  consiste solo in una prova di lealtà: “Hai confermato la tua lealtà iscrivendoti al Fronte Popolare oppure no?”. Non può nemmeno diventare una fonte di una qualche nuova dirigenza politica, come in questo caso cercano di dire “si”, Russia Unita è un sindacato dei burocrati del nostro Paese che stanno al potere.

Ma, il Fronte Popolare cambia la situazione in questo sindacato? Niente affatto. Se dal Fronte Popolare saranno reclutati candidati deputati alla Duma di Stato, queste stesse persone sarebbero state nominate candidati deputati anche senza il Fronte Popolare dalla stessa Russia Unita o dai suoi satelliti. Inoltre, un appello alla fondazione del Fronte popolare non poteva svolgere il ruolo di distrarre l’attenzione pubblica. Nessuno nella società ha guardato seriamente a questa organizzazione.

A.G. – Questo significa che Putin ha creato il Fronte Popolare per  vincere alle elezioni?

S.B. – Per fare qualcosa di nuovo, perché sia Putin che Medvedev alla maggioranza degli elettori nel Paese sono venuti a noia. Russia Unita desta  bruciore di stomaco, e questo si rileva nel fatto che la gente non va alle elezioni. Purtroppo, i massimi dirigenti non vogliono riflettere su questo processo, e non prestano attenzione al fatto che l’astensione per protesta alle elezioni sia già pericolosa. Il Fronte Popolare morirà silenziosamente, perché non si evolverà in nessun partito, non si evolverà semplicemente. Tranne per il fatto che Russia Unita cambia nome in Fronte Popolare.

A.G. – Il cosiddetto “reset” dei rapporti bilaterali tra USA e Russia, fortemente voluto da Obama, dopo un avvio promettente (firma del nuovo trattato START) si sta arenando a causa dell’ostinazione degli USA nella prosecuzione dell’allestimento dello “scudo antimissile” in Europa e nel supporto incondizionato di USA e NATO alle rivendicazioni della Georgia. Qual è la sua opinione in merito? Quale ritiene sarà la reazione russa al dispiegamento dello “scudo antimissile”, in particolare nelle zone dei “conflitti congelati” (Kosovo e Transnistria)?

S.B. – Credo che la questione del reset si bloccherà ora alle elezioni presidenziali del Presidente della Federazione Russa, perché gli americani hanno fatto capire diverse volte in maniera univoca che non vogliono vedere il ritorno alla carica di presidente di Vladimir Putin, che vedono per questa carica solamente Medvedev. Questo non accadrà. E quindi se gli statunitensi rivolgeranno l’attenzione solo su questo criterio, allora sarà un vicolo cieco totale e non ci sarà nessun “reset”. Se appoggeranno le pretese dei nostri confinanti, per esempio dei polacchi, con le loro speculazioni sull’argomento Katyn; della Georgia con le sue dichiarazioni che affermano che la Russia ha occupato l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia, allora sono sicuro che il periodo dell’approccio liberale verso di loro dal lato della politica estera russa stia finendo. L’Abkhazia e l’Ossezia del Sud sono riconosciuti come Stati indipendenti e non è possibile invertire il processo. Ma per quanto riguarda tutto il  resto… Se gli Stati Uniti vivranno nel passato, allora sono condannati ad entrare nel periodo del fallimento strategico. Soprattutto tenendo conto del fatto che essi adesso hanno intenzione di far sprofondare l’Europa nel caos. Non riesco a spiegare in altro modo la destabilizzazione del Mediterraneo che hanno prodotto i nordamericani. Quindi gli avvenimenti in Tunisia, come pure in Egitto, e in Libia, e quello che avviene intorno alla Siria, non sono certo solo gli intrighi di Sarkozy. A Sarkozy si può attribuire, al massimo, solo la Libia. Lui ha fatto sparire le tracce della sua  campagna elettorale, e cerca di farle sparire anche adesso. Ma per il resto è un colpo molto potente diretto alla destabilizzazione del Mediterraneo. Gli USA, tuttavia, non si sono resi conto che abbattendo i loro alleati in Tunisia e in Egitto, possono ottenere come contraccolpo il ritorno del mondo arabo alle posizioni anti-americane, cosa che già avviene oggi, il rafforzamento del fondamentalismo islamico, il potenziamento della presenza dell’Iran, soprattutto all’interno della Siria. Così richiamo la vostra attenzione al fatto che nemmeno gli statunitensi sono omogenei. La politica interna nazionale degli Stati Uniti è costituita da più centri di potere che l’immagine esterna non mostra. E che sia stato inflitto un colpo contro i sostenitori potenziali del Partito Repubblicano è palese. Obama non ha nulla da vantarsi. Dopo aver ricevuto il suo premio Nobel, non ha presentato le prove che sia un pacificatore. Non ha ritirato le truppe né dall’Afghanistan né dall’Iraq. Non ha concluso nessuna guerra. Ne ha scatenata una nuova. Pertanto adesso negli Stati Uniti la situazione intorno la guerra statunitense in Libia è molto difficile.

A.G. – Penso che gli USA si stiano comportando in maniera molto scaltra. Da un lato rassicurano la Russia che è tutto a posto, tuttavia, dall’altro lato, continuano il programma di scudo missilistico in Europa…

S.B. – Fate attenzione che in Polonia, quando si iniziò a rifiutare di partecipare alla realizzazione degli elementi dello scudo anti-missile sul territorio polacco, subito, in un misterioso incidente aereo rimase ucciso tutto il comando supremo dell’esercito, che si era schierato contro gli interessi degli USA. Si tratta di quei 28 generali che agivano contro il dispiegamento dello scudo missilistico statunitense. Poi, forse, per riequilibrare, hanno eliminato in un incidente aereo vicino a Smolensk anche i principali politici anti-russi, ma questo era già in modo chiaro colpa dei piloti e di quelli che gli hanno dato  l’ordine di atterrare nella nebbia. Ma dopo questo fatto Donald Tusk (primo ministro polacco, n.d.t.), che aveva la possibilità di continuare la sua linea di atteggiamento critico al dispiegamento degli statunitensi e il ministro degli esteri, che fino a questo momento era considerato scettico, infine dopo consultazioni con gli USA hanno cambiato il loro punto di vista e hanno accettato il punto di vista di Washington rendendolo il proprio. E attualmente, appunto, ci sono tre questioni che secondo il mio punto di vista a lungo termine destabilizzeranno la situazione in Europa: il problema dello scudo antimissile statunitense, il il problema del Kosovo, che è una minaccia grave per la stabilità europea, e la Transnistria, come viene attualmente interpretata a Bruxelles.

Non molto tempo fa sono stato a Bruxelles, e mi sono sorpreso del fatto che in tutte le riunioni, presso l’Unione europea e il Parlamento europeo e presso la NATO la questione della Transnistria  è diventata di primo piano. Proprio la  regolarizzazione in Transnistria. E non in Moldavia, ma precisamente in Transnistria. Ho dovuto dire, avendo preso lì la parola, che i termini del discorso erano sbagliati. La Repubblica Moldava di Transnistria è uno Stato. Ci sono molti che non vogliono  riconoscere la formazione di questo Stato, ma nel mondo è sempre così – c’è sempre qualcuno non vuole riconoscere qualcosa. E nello stesso tempo non è venuto fuori di propria iniziativa. È sorto quando nel 1990, l’amministrazione della Moldavia ripudiò la legge di istituzione della Repubblica Socialista Sovietica di Moldavia all’interno dell’URSS, in base alla quale si erano uniti due territori. L’ex territorio occupato dalla Romania (è il territorio dell’attuale della Moldavia) e il territorio che non è mai stato sotto i romeni, e che faceva parte dell’URSS come Repubblica Autonoma di Moldavia, l’attuale Transnistria.

Loro stessi si sono, in questo modo, separati dalla Transnistria, poi si sono risvegliati e hanno deciso di riprendersela. E così iniziò il conflitto armato. Legalmente, dal punto di vista del diritto internazionale, la Transnistria esiste per legge. Questo non lo vogliono ammettere, solo perché il governo della Transnistria è orientato verso la Russia. Dopo tutto, se la leadership della Transnistria avesse dichiarato che è pronta ad aderire all’Unione Europea senza condizioni, ma come uno stato indipendente, l’avrebbero ammessa prima ancora della Repubblica di Moldavia. Ma ora per la Russia non c’è interesse né morale né politico a tradire la Transnistria. E per gli occidentali questa è una questione fondamentale. Qui sono sono dispiegate le truppe russe, qui si trova una popolazione che sostiene la Russia, è in gran parte sono cittadini della Federazione Russa. E impediscono alla Moldavia di essere assorbita dalla Romania. Questo nodo per l’Europa c’è e ci sarà. E se gli europei non si rendono conto che è necessario accettare lo status quo e riconoscere la Repubblica di Moldavia nei suoi confini attuali, e la Transnistria all’interno dei suoi confini, allora saremo in un vicolo cieco. E per la Russia, in futuro, spero si formi una sorta di unione, come la stessa unione doganale, che includerà la Russia, l’Ucraina, la Transnistria e, magari anche la Moldavia. Allora ecco questo spazio economico unico continuerà.

A.G. – Le difficoltà del governo di Silvio Berlusconi, sia in politica interna con il rafforzamento dell’opposizione e le sconfitte elettorali, sia in politica estera con una sostanziale rassegnazione verso decisioni prese oltreoceano che stona con la fase di protagonismo che aveva caratterizzato gli ultimi anni (asse Putin-Berlusconi-Erdogan) sono la spia di un processo di degenerazione e irreversibile decadenza sia per l’Italia che per l’Europa. In particolare la guerra in Libia, che l’Italia ha subito con un atteggiamento di totale impotenza, pare che abbia messo la pietra definitiva ad ogni tentativo di costruire una politica estera parzialmente autonoma dai poteri forti che tradizionalmente controllano l’Europa. La debolezza, per non dire “inaffidabilità”, di quest’ultima fase del governo Berlusconi ha minato i rapporti tra Italia e Russia? Come vede lo stato attuale dei rapporti tra i nostri due Paesi?

S.B. – Da un lato mi fa piacere che sulla base dell’asse Putin-Berlusconi, si rafforzino i contatti tra la Russia e l’Italia. Dall’altra parte tutti noi ci preoccupiamo che quando questo asse crollerà oppure cesserà lentamente di esistere, e ciò sicuramente avverrà, allora si rifletterà negativamente sui nostri rapporti, provocando un forte contraccolpo. Perché è un vero peccato che i rapporti personali tra Putin e Berlusconi siano un fattore dominante della nostra cooperazione. La collaborazione tra la Russia e l’Italia dovrebbe essere posta al di sopra e non dipendere né dalle amicizie dei politici e né da qualcun altro.

A.G. – Ma in realtà questo asse già non esiste più, perché la politica di Berlusconi è attualmente completamente cambiata. Dopo aver perso le ultime elezioni amministrative e soprattutto dopo l’inizio della guerra in Libia che ha visto il  clamoroso tradimento dei patti con Gheddafi. Si nota che anche i rapporti tra Italia e Russia non sono più così intensi come prima. Perché lui probabilmente teme di nuovo una reazione degli USA a causa di questa politica indipendente tenuta in passato, quindi si e’ allineato al diktat d’oltreoceano… l’Italia certamente non voleva la guerra in Libia.

S.B. – Berlusconi ha cercato di prendere una posizione neutrale. Sono stato in Libia oltre 10 anni fa e ho visto come in quel periodo iniziava  a crescere la cooperazione economica tra Italia e Libia. Ora io sono il presidente del comitato di solidarietà economica con i popoli della Libia e della Siria. E penso che gli europei, acconsentendo alla volontà degli americani e scatenando l’aggressione contro la Libia, naturalmente non solo hanno inflitto un colpo al diritto internazionale, travalicando la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ma con le proprie mani hanno indebolito la stabilità dell’ordine europeo. La stabilità del sistema di sicurezza economica e politica.

Mi dispiace che la Russia effettivamente partecipi a tutto questo, così come l’Italia. La posizione della Russia in Libia è molto passiva e mal ponderata. Perché Gheddafi è un leader nazionale, sostenuto dalla maggioranza della popolazione. Le accuse che gli vengono avanzate oggi sono le accuse contro un capo che ha cercato di sedare disordini di massa. Dopotutto, non ci sono contro di lui altre accuse. Viene incolpato dell’uso della forza contro coloro che hanno usato la forza per prendere il potere. È una situazione assurda. Questo è un modo per incolpare qualsiasi capo di Stato. Inoltre, è un grave precedente, perché se in qualche posto un governante userà la forza contro una ribellione sollevatasi nello Stato, allora lo si potrebbe bombardare da fuori per impedirgli di toccare l’opposizione e farlo arrendere ai ribelli. Ecco dove sta la logica. Ma spero davvero che non solamente la Libia riuscirà a tenersi in piedi ma che anche Gheddafi ce la faccia. E che l’ordine di arresto del tribunale penale internazionale, assolutamente contrario al diritto internazionale e alla legge, sia annullato come un errore portando scuse ufficiali.

In primo luogo, loro non possono praticamente arrestarlo. In secondo luogo, il mandato d’arresto di Gheddafi, di suo figlio e del terzo dirigente libico, tutti questi ordini non sono legittimi perché secondo la statuto della Corte penale internazionale, la giurisdizione si applica solo a quegli Stati che hanno firmato e ratificato lo statuto. Ma la Libia non fa parte della Corte penale internazionale. Quindi sono convinto che oggi in Libia stanno perdendo molto seriamente sia l’Italia che la Russia. Gli statunitensi hanno  coinvolto tutti mentre loro si ritirano. E poi si metteranno da parte e diranno: «pensateci voi!»

A.G. – Se Gheddafi non sarà ucciso, ciò significherebbe che l’America ha perso…

S.B. – Allo stesso modo, era chiaro che gli statunitensi non avrebbero permesso a Slobodan Milosevic di uscire vivo dal Tribunale dell’Aja che con la sua sola esistenza ricordava costantemente che, nel 1999, non è stata la Jugoslavia a violare il diritto internazionale. Ma è la coalizione della NATO che ha bombardato la Jugoslavia il vero criminale. Allo stesso modo, adesso non intendono rimettere in libertà dal Tribunale dell’Aia, l’ex vice primo ministro serbo e politico Vojislav Seselj, sebbene le accuse rivoltegli non sono effettivamente in grado di dimostrare nulla contro di lui. E sono d’accordo con Lei che la vittoria di Gheddafi è un disastro per gli Stati Uniti. Anche se cerchiamo di chiamare le cose col loro nome: la vittoria morale di Gheddafi si è in pratica già verificata. Non lo hanno ancora potuto uccidere. Inoltre, le tribù che abitano in Libia si sono mobilitate intorno a lui e lo sostengono. Infatti ora l’unica speranza di Washington e Bruxelles è proprio l’omicidio del leader libico e non semplicemente il suo rovesciamento.


Antonio Grego

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Война в Ливии и отношения между Италией и Россией: интервью Сергея Бабурина журналу «Евразия» (Eurasia)

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Война в Ливии и отношения между Италией и Россией: интервью Сергея Бабурина журналу «Евразия» (Eurasia)

Сергей Николаевич Бабурин – российский политический и государственный деятель. Ректор Российского государственного торгово-экономического университета, депутат Государственной Думы РФ четвертого созыва, бывший вице-спикер, доктор наук. Бабурин создан Российский комитет солидарности с народами Ливии и Сирии.

 

Москва – 05/06/2011

 

Антонио Грего – Не могли бы Вы нам описать, согласно Вашей точке зрения, современную внутреннюю политическую ситуацию в России? Как Вы могли бы оценить проделанную нынешним президентом – Дмитрием Медведевым работу на его посту?

 

Сергей Николаевич Бабурин – Д. А. Медведев – очень умный человек, но к сожалению для того, чтобы быть Главой государства, одного ума мало. А он допустил все ошибки, которые допустил в свое время Горбачев, и по-большому счету является его продолжателем. И самое печальное то, что он, как Глава государства, не прислушивался даже к призывам наших партнеров в Восьмерке на опыте мирового финансового кризиса переосмыслить роль государства и укрепить социальную функцию Государства.

 

И президент Медведев, и его команда остаются в плену либеральных иллюзий. Иллюзий того, что в экономике не должно быть государственного присутствия, что экономика сама по себе способна развиваться. В мире уже доказано обратное. И Россия уже начинает стратегически отставать в понимании вызовов 21 века. Это не приведет ни к чему хорошему ни Медведева, ни Россию.

 

Внутриполитическая ситуация в России очень тревожная. Потому что элита, точнее политическая номенклатура, оторвались от реальности. Они парят в космосе, не понимая, что происходит в основной массе населения. Именно поэтому революционные процессы становятся практически неизбежными. И судьба у Медведева в лучшем случае будет повторением судьбы Горбачева. Хотя я не исключаю, что сейчас в период президентской компании Путин просто отставит его в сторону и вернется. Или попытается вернуться на свое место.

 

А.Г. – Самая важная политическая новость этих месяцев – создание “народного фронта ” (Общероссийского народного фронта) под управлением премьер министра Владимира Путина. Похоже его создание было на правлено на разрушение достижений лет президентства Медведева, характеризующихся попытками нормализации и европеизации России, которым соответствовала не очень сильная внешняя политика, послушная требованиям Запада. По Вашему мнению, эта новая партия может быть способом возврата России к  политике силы и внешней политике престижа или же ее образование было связано лишь с избирательной кампанией, чтобы снова получить поддержку заинтересованных  групп, которые в этот период соединились вокруг «либеральной» фигуры Медведева?

 

С.Н.Б. – Идею народного фронта я проповедую уже два года. И полтора года тому назад обсуждал ее с тогдашним председателем Совета Федерации Мироновым, лидером партии Справедливая Россия и с лидером  коммунистов Зюгановым. Потому что Народный фронт предполагает объединение лишенных политических возможностей народных масс, широкое объединение для того, чтобы они пришли к власти и осуществили свои социальные идеалы.

 

Это – суть любого народного фронта. Поэтому, когда председатель правительства призвал создавать Народный фронт, в широких слоях общества это вызвало либо изумление, либо столбняк. Изумление у тех, кто не может понять – а какой власти не хватает тем, кто создает Народный фронт? Какую власть они хотят взять? Они и так ее имеют, если говорить о партии Единая Россия. Если говорить о том, что партия Единая Россия решила привлечь сторонников…У нее уже есть институт сторонников. Они уже гордо говорили, что у них несколько миллионов сторонников. Ну, допустим, что они теперь решили это все сделать в формате какой-то одной организации, назвали эту организацию Нородным фронтом, но они так и не ответили на вопрос – а против кого этот фронт?

 

Любой народный фронт –  против существующей власти. В России это был, например, фронт Национального спасения в 92 – 93 году. А против кого направлен вот этот сегодняшний Общероссийский Народный фронт​? Никто не ответил и не может ответить на этот вопрос. Ну а столбняк эта инициатива вызвала у тех, кто в этот фронт мобилизуется, потому что приглашают самых разных людей и говорят : вступайте в Народный фронт, если хотите, чтобы было все хорошо по работе.  Туда стройными рядами идут различные общественные организации, лидеры которых уже состоят, как правило в Единой России.

Ни так давно я получил письмо от председателя Московского Городского Союза ректоров профессора  Федорова с вопросом о том, как я отношусь к вступлению Российского Союза Ректоров в Народный фронт. Я, конечно, ответил письменно, что я целиком и полностью поддерживаю вступление Российского Союза Ректоров в Народный Фронт после выхода из него партии Единая Россия. Потому что иначе – это абсурд. Участвовать в абсурде я не хочу даже за компанию. Само по себе создание Народного Фронта никак не корреспондирует с процессами Медведева, потому что Народный Фронт поглощает всех лояльных к власти. Смысл этого такого Народного фронта заключается только в проверке на лояльность – “ты подтвердил свою лояльность, вступив в Народный Фронт или нет”? Он даже не может стать каким-то источником новых кадров, как тут они пытаются сказать, что “да”, Единая Россия – это профсоюз бюрократов в нашей стране, которые при власти. Но что, Народный фронт меняет ситуацию в этом профсоюзе? Ничего подобного. Если из Народного фронта они будут рекрутировать кандидатов в депутаты Государственной Думы, так ведь эти же люди были выдвинуты ими кандидатами в депутаты и без всякого Народного фронта от той же Единой России или ее сателлитов.

Более того, призыв к созданию Народного Фронта не смог сыграть роли отвлечения общественного  внимания. Никто в обществе серьезно на эту организацию не посмотрел.

 

А.Г. – Значит ли это, что Путин создал Народный Фронт, чтобы победить на выборах?

 

С.Н.Б. – Чтобы сделать что-то новое, потому что и Путин, и Медведев большинству избирателей в стране уже надоели. Единая Россия вызывает изжогу, что проявляется в том, что люди не ходят на выборы. К сожалению высшие руководители не хотят задуматься над этим процессом, и не обращают внимание на то, что протестное не участие в выборах – это уже опасно. Народный Фронт тихо умрет, потому что он не перерастет ни в какую партию, не перерастет. Ну разве что Единая Россия переименует себя в Народный Фронт.

 

А.Г. – так называемая «перезагрузка» двусторонних отношений между США и Россией, особенно сильно желаемая Обамой, после многообещающего начала (подписание нового договора старт) — почти остановилась из-за упрямства США в продолжении подготовки системы “противоракетного щита” в Европе и в безусловной поддержке США и НАТО требований Грузии. Каково ваше мнение по данному вопросу? Какой вы считаете будет  реакция  России на развертывание “противоракетного щита”, главным образом в зонах “замороженных конфликтов” (Косово и Приднестровье)?

 

С.Н.Б. – Я  думаю вопрос перезагрузки споткнется сейчас на президентских выборах президента Российской федерации, потому что американцы несколько раз однозначно давали понять, что они не хотят видеть возвращения на президентский пост Путина, что они видят на президентском посту только  Медведева.. Этого не будет. И поэтому, если только на этот критерий американцы будут обращать внимание, это будет полный тупик и ни какой перезагрузки.  Если они будут поддерживать претензии наших соседей к России , например поляков, с их спекуляцией на тему Катыни; Грузии, с их заявлениями, что Россия оккупировала Абхазию и Южную Осетию, то я уверен, что тот период либерального поддакивания им со стороны Российской  внешней политики  заканчивается. Абхазия и южная Осетия признаны независимыми и повернуть вспять это не возможно. Ну а во  всем остальном… Если Соединенные Штаты будут жить в прошлом, то они обречены, что войдут в период стратегического провала. Особенно с учетом того, что они сейчас рассчитывают погрузить и Европу в хаос. Я ничем другим не объясняю дестабилизацию  Средиземноморья, которая осуществлена американцами. Ибо и события в Тунисе, и события в Египте, и события в Ливии, и вокруг Сирии,  это все не только происки Саркози. На Саркози можно списать только Ливию. Он заметал следы своей предвыборной компании, и пытается заметать их сейчас. А во всем остальном это очень сильный удар, направленный на  дестабилизацию Средиземноморья. Американцы, правда, не учли, что сваливая своих сторонников в Тунисе или Египте, они могут получить откат в арабском мире на антиамериканские позиции, что и происходит сейчас, усиление исламского фундаментализма, усиление присутствия Ирана, особенно во внутрисирийской позиции. Так что обращаю ваше внимание, что американцы тоже не однородны. Американская внутренняя политика имеет гораздо больше центров власти, чем внешнеполитические картинки, которые мы видим. И то, что наносился удар против потенциальных сторонников республиканской партии, это однозначно. Обаме нечем похвастать. Получив свою нобелевскую премию, он так и не предъявил доказательства того, что он является миротворцем. Он не вывел войска ни из Афганистана, ни из Ирака. Он не закончил ни одной войны. Он развязал новую. Поэтому в США сейчас очень сложная ситуация вокруг войны американцев в Ливии.

 

А.Г. – Мне кажется, что американцы очень хитрые люди. По их словам у них всегда все в порядке. Но тем не менее, они продолжают программу противоракетного щита…

 

С.Н.Б. – Обратите внимания, что в Польше, когда стало склоняться к отказу от участия в размещении элементов противоракетного щита на территории Польши, во-первых, в загадочной авиакатастрофе погибло все командование, которое выступало против Америки. Это те 28 генералов, которые выступали против размещения американского щита. Потом, может быть, для равновесия, под Смоленском грохнулись и главные антироссийские политики, но это уже была в чистом виде вина пилотов и тех, кто дал им команду садиться в туман. Но после этого Дональд Туск, имея возможность продолжить свою линию критического отношения к размещению американцев и министр иностранных дел, который слыл до этого скептиком, они ведь после консультаций с американцами изменили точку зрения и приняли точку зрения Вашингтона, сделав ее своей.

 

И на сегодняшний день, конечно же, есть три вопроса, которые на мой взгляд долговременно дестабилизируют ситуацию в Европе. Это проблема американского ПРО, это проблема Косово, которая является очень серьезной занозой для европейской стабильности, и это Приднестровье, как это сейчас интерпретируется в Брюсселе. Я не так давно был в Брюсселе и удивился, насколько во всех встречах, и в Евросоюзе, и в Европарламенте, и в НАТО тема Приднестровья стала выступать на первый план. Урегулирование в Приднестровье. Причем ни  в Молдове, а именно в  Приднестровье. Мне пришлось, выступая там, сказать, что акценты неверные. Приднестровская  Молдавская Республика – это государство. Там многие не желают признавать возникновение этого государства, но в Мире всегда так – кто-то чего-то не признает.  Причем оно возникло не по своей инициативе. Оно возникло, когда в 1990 году руководство Молдовы денонсировало закон о создании Молдавской Советской Социалистической Республики в составе СССР, по которому объединили две территории. Бывшую территорию, оккупированную Румынией (это территория нынешней Молдовы) и территорию, которая никогда не состояла под Румынами, и была в составе СССР как Молдавская автономная республика, нынешнее Приднестровье. Они сами отказались от Приднестровья, потом спохватились и решили его захватить. И начался вооруженный конфликт. То есть юридически, с точки зрения международного права, Приднестровье существует законно. Этого не хотят признать,только потому, что руководство Приднестровья ориентируется на Россию. Ведь если бы руководство Приднестровья заявило, что готово вступить в Евросоюз безоговорочно, но как самостоятельное государство, его бы приняли, даже раньше, чем Молдову.

 

Но сейчас Россия ни моральных ни политических интересов предавать Приднестровье не имеет. А для западников – это ключевой вопрос. Тут размещаются Российские войска, размещается население, которое выступает про-российски, является во многом гражданами Российской Федерации. И препятствуют тому, чтобы Молдова была поглощена Румынией. Этот узел для Европы был и будет. И если Европейцы не поймут, что нужно принимать статус кво и признавать Молдову в ее сегодняшних границах, а Приднестровье в его границах, то мы будем в тупике. А для России в перспективе, я надеюсь, будет формироваться некое объединение – тот же таможенный союз, куда войдет и Россия, и Украина, и Приднестровье, а может быть и Молдова.

Тогда вот это единое экономическое пространство – оно сохранится.

 

А.Г. – Трудности правительства Сильвио Берлускони, как во внутренней политике, с усилением оппозиции и поражениями на выборах, так и во внешней политике, с существенными уступками решениям из-за океана, действия которого противоречат предыдущим этапам итальянской политической жизни – чем  и характеризовались последние годы его работы (Ось Путин-Берлускони-Эрдоган). Все это является тайным оружием процесса вырождения и безвозвратного разрушения как для Италии, так и для Европы. Главным образом война в Ливии, в которой Италия продемонстрировала свое полное бессилие, кажется, что она поставила окончательную точку в попытках построить частично независимую от влияний лобби внешнюю политику, под влиянием которых традиционно находится Европа. Слабость, чтобы не сказать “ненадежность” этой последней фазы правительства Берлускони подорвала отношения между Италией и Россией? Как Вы видите нынешнее состояние отношений между нашими двумя странами?

 

С одной стороны я рад, что опираясь на ось Путин-Берлускони, крепнут какие-то контакты между Россией и Италией. С другой стороны мы все опасаемся, что когда эта ось рухнет или спокойно прекратит свое существование, а это произойдет, то это скажется на наших отношениях, вызовет волну отката.  Потому что очень жаль, что личные отношения Путина и Берлускони доминируют как фактор нашего сотрудничества. Сотрудничество России и Италии должно стоять выше и не зависеть ни от любвеобильных политиков, и ни от кого другого.

 

А.Г. – Но в реальности эта ось уже не существует, потому что политика Берлускони в настоящее время полностью поменялась.  Проиграв последние выборы, и особенно после начала войны в Ливии, он совершил свою сенсационную измену Каддафи. Заметно, что отношения между Италией и Россией сейчас ни такие насыщенные, как раньше. Потому что Берлускони, возможно, снова боится реакции США по причине этой независимой политики, которой Италия следовала в пошлом. Поэтому он сообразовал свои действия с американским диктатом… Но Италия, конечно же, не хотела войны в Ливии.

 

С.Н.Б. – Берлускони попытался занять нейтральную позицию. Я был в Ливии больше 10 лет назад и видел, как в то время начало нарастать экономическое сотрудничество между Италией и Ливией. Сейчас я являюсь председателем комитета экономической солидарности с народами Ливии и Сирии. И считаю, что европейцы, пойдя на поводу у американцев и развязав агрессию против Ливии, конечно не просто нанесли удар по международному праву, извратив резолюцию совета безопасности ООН, они своими руками стали расшатывать стабильность европейского порядка. Стабильность экономической и политической системы безопасности.

 

Я сожалею, что Россия фактически в этом принимает участие, как и Италия. Что позиция России по Ливии очень пассивна и непродумана. Потому что Каддафи – национальный лидер, которого поддерживает большинство населения. Обвинения, которые к нему предъявляются сегодня – это обвинения к руководителю, который пресек массовые беспорядки. Ведь к нему нет обвинений более ранних. Его обвиняют, что он применил силу против тех, кто применил силу по захвату власти. Абсурдная ситуация. Это так можно обвинить любого главу государства. И более того, это серьезный прецедент, что если где-то глава государства будет применять силу против мятежа поднятого в государстве, то можно будет извне его побомбить, чтобы он не трогал оппозицию и сдался на милость мятежников. Вот ведь какая логика. Но я очень надеюсь, что не просто Ливия устоит, но и Каддафи устоит. И что абсолютно не соответствующие закону и статусу международного уголовного суда решения об ордере на его арест будут отменены как ошибочные с принесением извинений.

 

Во-первых, они не могут арестовать его фактически. Во-вторых, ордер на арест и Каддафи, и его сына, и третьего ливийского руководителя – все эти ордера не законны, потому что даже по статуту международного уголовного суда, юрисдикция  распространяется только на те государства, которые подписали и ратифицировали этот статут. А Ливия не является участником международного уголовного суда. Так что я убежден, что сегодня в Ливии очень сильно поигрывают и Италия, и Россия. Американцы всех втянули, а сами устранились. А потом сами отойдут в сторону – расхлебывайте как хотите.

 

А.Г. – Если Каддафи не будет убит, это будет означать, что Америка проиграла…

 

С.Н.Б. – Точно также было понятно, что американцы не допустят выхода живым из Гаагского Трибунала Слободана Милошивеча, который своим существованием постоянно намекал, что в 1999 году не Югославия нарушила международное право. А та коалиция НАТО, которая бомбила Югославию, является преступной. Точно также сейчас они не хотят выпускать из Гаагского трибунала бывшего сербского вице-премьера и политика Воиcлава Шешеля, хотя обвинения против него фактически доказать ничего не смогли. И я с Вами согласен, что победа Каддафи – это катастрофа для Соединенных Штатов Америки. Хотя давайте называть вещи своими именами – моральная победа Каддафи – она практически уже произошла. Его не смогли уничтожить мгновенно. Более того, племена, которые населяют  в Ливию, сплотились вокруг него. Действительно, сейчас вся надежда для Вашингтона и Брюсселя в убийстве ливийского лидера, а не в его свержении.

Антонио Грего

журнал «Евразия» (Италия)

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Libia: Réseau Voltaire denuncia il tentativo dei ribelli libici di arrestare il giornalista Thierry Meyssan

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Fonte: http://www.voltairenet.org/Le-Reseau-Voltaire-denonce-la

Il sito di analisi e informazione Réseau Voltaire denuncia il tentativo dei ribelli libici di arrestare il giornalista Thierry Meyssan

25 agosto 2011, ore : 15 :25

I giornalisti stranieri bloccati da domenica scorsa all’interno dell’Hotel Rixos di Tripoli sono stati evacuati dalla Croce Rossa Internazionale, ieri, mercoledì 24 agosto alle ore 17:00.

Tra il gruppo di giornalisti stranieri si trovavano anche i quattro collaboratori del Réseau Voltaire: Thierry Meyssan, Mahdi Darius Nazemroaya, Mathieu Ozanon et Julien Teil.

Tuttavia, appena i giornalisti sono usciti dall’Hotel Rixos, alcuni ribelli hanno tentato di arrestare Thierry Meyssan, noto per i suoi articoli denuncianti i crimini della NATO. La Croce Rossa Internazionale (CRI) ha impedito l’arresto.

I giornalisti sono stati condotti in un altro albergo, senza più la protezione della CRI

I giornalisti non sono stati in grado di raggiungere l’imbarcazione dell’Organizzazione Internazionale per i Migranti (OIM) che avrebbe dovuto portarli a Malta.

Lo staff del Réseau Voltaire è seriamente preoccupato per l’attitudine dei ribelli riguardo ai propri giornalisti. Il Réseau Voltaire lancia un appello alla comunità internazionale affinché i suoi collaboratori siano protetti e possano lasciare la Libia sani e salvi.

Thierry Meyssan è un cittadino francese residente in Libano. È iscritto al consolato di Beiruth. Giornalista da oltre venticinque anni, ha scritto per testate arabe, sudamericane e russe, tra cui Odnako (Russia) o La Jornada (Messico). È autore di numerose opere di politica internazionale e collabora con diverse emittenti radiotelevisive, tra cui Russia Today, Telesur, Press TV.  È presidente e fondatore del Réseau Voltaire, rassegna indipendente di politica internazionale.

Mahdi Darius Nazemroaya è un cittadino canadese, attualmente corrispondente a Tripoli. Giornalista indipendente, ha pubblicato e rilasciato interviste a diversi media, tra cui Russia Today, Press TV, Al Jazeera, Pacifica KPFA, Global Research, China Life Magazine. Ha pubblicato anche numerosi articoli nel Réseau Voltaire.

Anche i giornalisti Mathieu Ozanon e Julien Teil scrivono per il Réseau Voltaire.

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Daniele Scalea: “In Libia la guerra proseguirà ancora a lungo”

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Fonte: “Agenzia Stampa Italia

 

In Libia la guerra proseguirà ancora a lungo”

Fabio Polese intervista Daniele Scalea

(ASI) Agenzia Stampa Italia ha incontrato Daniele Scalea, segretario scientifico dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG), redattore della rivista di studi geopolitici Eurasia, autore de “La Sfida Totale” e co-autore, insieme a Pietro Longo, di “Capire le rivolte arabe”.

E’ sempre più difficile ottenere notizie indipendenti su quello che sta succedendo in Libia. I media mainstream rimbalzano la notizia di una Libia liberata dal Rais Muhammar Gheddafi. Cosa sta succedendo e chi c’è dietro questa rivolta?

Sta succedendo che, dopo l’assassinio del generale Younes (comandante militare del CNT) da parte degli estremisti islamici, il fronte dei ribelli si è spezzato. La NATO, nel timore che la missione si concludesse con un clamoroso insuccesso, ha preso in mano la situazione e, con l’ausilio di ribelli islamisti in loco ma principalmente servendosi delle sue forze speciali, di mercenari stranieri e d’intensissimi bombardamenti aerei, è riuscita a conquistare Tripoli. I governativi hanno opposto una fiera resistenza, ma ormai appaiono quasi completamente debellati nella capitale.

Tuttavia, ritengo che la situazione in Libia sia ben lungi dal potersi considerare stabilizzata. La guerra, a mio giudizio, proseguirà ancora a lungo, sebbene i media occidentali la proporranno da oggi in poi come “lotta al terrorismo” o qualcosa di simile. Il punto è che i vertici del Governo libico sono stati scacciati da Tripoli, ma non eliminati. Ed allo stato attuale possono contare ancora sul controllo di molte città e l’appoggio della maggior parte delle tribù. Certo possibili mediazioni e corruzioni potrebbero far deporre le armi ai lealisti, ma bisogna rendersi conto che, dopo Gheddafi, il quadro libico risulterà ancor più frastagliato e confuso. Lui è l’elemento di stabilità nel paese, ed il CNT è ancora un’entità poco rappresentativa e che riunisce componenti molto, troppo eterogenee al suo interno (dagli ex affiliati a Al Qaeda ai liberali espatriati negli USA). Inoltre, il ruolo decisivo delle truppe straniere nella vittoria della battaglia di Tripoli (ed eventualmente della guerra civile) non farà che ridurne il prestigio presso la popolazione ed i capitribù.

La caduta di Tripoli, in realtà, aumenta il rischio di fare della Libia una nuova Somalia. La soluzione negoziale che sembrava stesse uscendo dagl’incontri di Djerba avrebbe garantito un futuro migliore tanto al paese quanto alla regione mediterranea. Ma, evidentemente, non è questo l’obiettivo dell’alleanza atlantica.
Ieri per la prima volta fonti della difesa britannica hanno confermato che uomini dei S.A.S. – i corpi d’elite britannici – sono da settimane in Libia dove hanno avuto un ruolo chiave nella presa di Tripoli. Cosa potrebbe succedere nel “dopo regime”? Verrà inviata una missione di peacekeeping internazionale o il mantenimento della sicurezza verrà affidato al Consiglio di Transizione Nazionale libico?

Le truppe straniere – atlantiche e delle monarchie arabe – sono già nel paese, e dunque non se ne andranno. Il CNT, per quanto visto finora, non è in grado di assumersi l’onere di stabilizzare il paese. Credo che l’invasione di Tripoli abbia segnato una svolta nella guerra di Libia: la sua trasformazione in una vera e propria invasione ed occupazione straniera del paese. Anche se, ovviamente, le parti in causa eviteranno di chiamarla per il suo vero nome. Minimizzeranno il ruolo dei soldati stranieri nel conflitto, e non parleranno più di guerra, ma di lotta del nuovo governo (plausibilmente un governo fantoccio degli occupanti) contro i resti del passato regime per pacificare il paese.

Il portavoce del ministero degli esteri cinese ha dichiarato: “Sappiamo dei recenti cambiamenti nella situazione libica e chiediamo il rispetto della scelta del popolo della Libia. La Cina è pronta a cooperare con la comunità internazionale per giocare un ruolo attivo nella ricostruzione della Libia”. Che ruolo potrebbe avere la Cina – sempre attenta alle vicende globali – nel post Gheddafi?

La Cina si comporta sempre allo stesso modo: non rifiuta il dialogo con nessuno, non ingerisce negli affari interni di nessuno. A Pechino sarebbe stata bene la permanenza al potere di Gheddafi; ora sta bene l’insediarsi del CNT. Il suo unico interesse è tornare a commerciare al più presto con la Libia, convinta che l’amicizia del paese nordafricano s’otterrà coi rapporti economici e finanziari.

Fra pochi giorni ricorre l’anniversario della firma del trattato di amicizia Italia-Libia. Il trattato è stato sospeso unilateralmente e l’Italia ha preso parte all’attacco militare della NATO. Quali effetti economici e strategici ha portato e porterà per l’Italia questo cambiamento?

In questo momento il ministro Frattini, tra i principali artefici dell’intervento italiano contro la Libia, sta godendosi il suo momento di gloria: alla fine la fazione scelta pare abbia vinto la guerra, e promette di non rivedere in negativo i rapporti con l’Italia. Il fatto che tali risultati si siano ottenuti con un plateale ed indecoroso voltafaccia e tradimento, basterebbe già da solo ad invitare a non fregarsi troppo le mani. Ma il gongolare è ancor più ingiustificato perché, purtroppo per Frattini e per l’Italia, difficilmente i suoi sogni si realizzeranno. La Libia rimarrà a lungo instabile, in preda a scontri intestini. Il flusso di petrolio e gas riprenderà ma in maniera meno regolare che in passato. E gli architetti della guerra e del cambio di regime – Gran Bretagna, Francia e USA – non lasceranno certo che l’Italia continui a godersi la fetta più grossa della torta libica.

Contemporaneamente a quello che sta accadendo in Libia si è parlato spesso della situazione in Siria. Nei telegiornali scorrono esclusivamente le immagini di quella che, dagli occidentali, è stata chiamata “rivoluzione siriana”. Secondo lei, è vicina una risoluzione ONU contro il governo di Bashar al-Assad? E come potrebbe reagire la Russia che ha l’unica base militare nel Mediterraneo proprio in Siria?

Questa è una previsione molto più difficile da fare, poiché vi sono segnali contrastanti. Da un lato, il successo finale (o percepito tale) dell’attacco alla Libia potrebbe suggerire alla NATO di ripetere l’esperimento in Siria. D’altro canto, la Libia potrebbe trasformarsi in un grattacapo ancora maggiore, e di lunga durata, se come ho ipotizzato le truppe straniere dovessero stabilirvisi per pacificarla (ecco perché il ministro La Russa ha auspicato lo stanziamento di soldati africani e arabi, anziché europei e nordamericani). Inoltre, in Siria sembra apparentemente passato il momento peggiore per il governo: ha concesso riforme importanti, gode dell’appoggio della maggioranza della popolazione (perché anche il grosso dell’opposizione è ostile alla lotta armata ed all’intervento straniero), è riuscita a reprimere le insurrezioni armate, per quanto permangano ancora focolai di violenza, spesso alimentati da oltreconfine. Le monarchie autocratiche del Golfo faranno pressione per un intervento della NATO in Siria, perché sperano di instaurare – come in Libia – una nuova monarchia islamista, e di sottrarre un alleato all’Iran. La Russia, a rigor di logica, dovrebbe opporsi ad un nuovo tentativo d’erodere la sua influenza nel mondo, ma l’atteggiamento arrendevole l’ha già portata a piegarsi più volte, soprattutto quando la posta in palio si trovava al di fuori dello spazio post-sovietico.

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“La Cina da impero a nazione”: intervista a Diego Angelo Bertozzi

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Fonte: “Il Democratico

 

Ormai da anni la Cina è additata come la grande potenza del futuro: la sua inesorabile ascesa commerciale, economica e sempre più anche politica, culturale e militare, è sotto gli occhi di tutti. S’intravede, nella vita di tutti i giorni, quando entrando in un negozio si nota una sequela d’oggetti “Made in China”, o quando in edicola appaiono corsi a puntate di lingua cinese, o quando il vice-presidente della potenza egemone, Joe Biden, è costretto a dirsi sostenitore dell’unità territoriale cinese dopo che gli USA hanno ricevuto una plateale tirata d’orecchie sulla questione del debito. 

Eppure della Cina – della sua realtà presente e della sua storia, della sua cultura e visione del mondo – in Italia si sa poco o nulla. Prova, nel suo piccolo, a colmare parzialmente questa lacuna un libro di recente pubblicazione, La Cina da impero a nazione, di Diego Angelo Bertozzi, Edizioni Simple. Come recita il sottotitolo stesso dell’opera, essa si focalizza sul periodo “Dalle guerre dell’oppio alla morte di Sun Yat-sen (1840-1925)”. La scelta non è casuale né di scarso rilievo. È infatti in quel periodo che la Cina s’apre totalmente – per causa di forza maggiore (esterna) – all’influenza occidentale; ed è sotto quell’influsso occidentale che si dipana tanto la crisi del millenario Impero e della tradizione confuciana, quanto l’emergere di nuove ideologie più o meno “europeizzate”, tra cui il comunismo destinato a prendere il potere ed imprimere il suo marchio sulla Cina contemporanea. Il bresciano Diego A. Bertozzi, infatti, non è un sinologo bensì uno studioso del movimento operaio: il suo interesse per la Cina, ed i conseguenti studi affrontati, derivano dalla realtà comunista del paese. Scopo più che mai manifesto di quest’opera è scovare le radici dell’ideologia oggi dominante nell’ex Celeste Impero.

Al di là del sicuro interesse del tema – un argomento storico, sì, ma cui si guarda mirando al presente, e dunque esaltandone i caratteri d’attualità – un altro pregio di questa lodevole opera è lo stile divulgativo. Bertozzi appare rigoroso nel suo argomentare, ma chiaramente vuol rivolgersi ad un pubblico non specialista, e quindi dà sfoggio delle sue capacità di sintesi e di comunicazione chiara e diretta, scevra dagli arzigogoli intellettualistici che tanto vanno di moda soprattutto in Italia. Sarebbe anzi importante, trovandoci in una repubblica democratica in cui i cittadini sono chiamati ad eleggere i propri governanti sulla base di programmi concreti (o almeno così avrebbe dovuto essere in linea di principio), che esistesse una florida ed abbondante letteratura divulgativa ma nel contempo dalle solide basi scientifiche. Libri come quello di Bertozzi, se trovassero epigoni nella scelta dei temi (pregnanti per l’attualità) e nello stile (semplice e piano), potrebbero avvicinare alla lettura ed all’informazione un popolo, come quello italiano, che oggi vi appare in gran maggioranza refrattario. Coi ben noti tragici risultati sulla selezione dell’élite dirigente del paese.

Abbiamo incontrato Diego Angelo Bertozzi, ponendogli alcune domande circa il suo libro La Cina da impero a nazione (il quale contiene anche una corposa prefazione, di sapore strategico-geopolitico, firmata da Andrea Fais).

 

 

Il suo libro si concentra sul periodo 1840-1925. Può spiegarci perché questi sessantacinque anni furono tanto importanti nella storia della Cina?

Parto dal discorso ufficiale di Hu Jintao del 1 luglio scorso per le celebrazioni del 90° di fondazione del Partito comunista cinese. Ebbene l’opera di costruzione della Cina socialista è collegata alle umiliazioni subite dalle potenze coloniali e alle lotte intraprese dai cinesi per salvare la nazione: dai Taiping, al movimento degli Yihetuan (i “Boxers”), passando per i programmi di occidentalizzazione, dal tentativo riformista di Kang Yu-wei del 1898, fino alla rivoluzione nazionalista del 1911 personificata da Sun Yat-sen e al movimento del Quattro Maggio 1919. Questa valutazione è ormai un patrimonio acquisito del Partito e la si trova in diversi documenti ufficiali.

A mio avviso non è infatti possibile capire fino in fondo il ruolo del movimento comunista, e in generale quello rivoluzionario cinese, se non lo si colloca in quella autentica lunga marcia di sofferenze e umiliazioni rappresentata da uno dei peggiori esempi di colonialismo e imperialismo della storia moderna e contemporanea.

I sessantacinque anni oggetto della trattazione collocano su questa linea la nascita del moderno nazionalismo cinese, la faticosa gestazione di un movimento antimperialista fino alla nascita delle prime avanguardie comuniste. Il Fronte unito tra comunisti e borghesia nazionale si ripeterà più volte nella recente storia cinese e non è azzardato ritenere che anche oggi, con l’ingresso degli imprenditori privati nel Pcc, si stia rivivendo questa formula con un Pcc che da avanguardia di classe si presenta anche come avanguardia dell’intero paese.

Nella sua analisi identifica le radici dell’affermazione del comunismo in Cina: esse sono individuate in particolare in quelle correnti più “occidentalizzate” della cultura e del pensiero cinese moderno, talvolta persino “cristianizzate” come il movimento dei Taiping. Oggi molti commentatori parlano d’una riscoperta del confucianesimo in Cina (anche se va ricordato che già Mao riprese alcuni dei suoi slogan dalla tradizione nazionale). È secondo lei corretto affermare che la Cina stia facendo la pace con se stessa, col proprio passato, portando un’ideologia “occidentale” come il marxismo-leninismo nell’alveo della millenaria cultura cinese?

È vero, fin dalle sue prime esperienze politiche Mao Zedong rivendica le tradizioni storiche e culturali del passato cinese. Basti pensare al suo collocare nel passato imperiale cinese la vocazione rivoluzionaria dello sterminato mondo contadino.

I tentativi di salvare il paese “rubando” i segreti alle potenze occidentali hanno accompagnato gran parte della storia cinese trattata nel libro. I Taiping furono i primi ad abbozzare riforme costituzionali sulla base dei sistemi occidentali ancora scarsamente conosciuti. In questi tentativi si puntò, senza successo, ad innestare le innovazioni tecniche senza intaccare il patrimonio culturale-ideologico cinese, in primis quello confuciano, al massimo reinterpretandolo in chiave moderna. Sarà solo dopo la prima guerra mondiale che questo patrimonio – il confucianesimo divenne architrave ideologica dell’impero con la dinastia Han (206 aC – 220 dC) – lo si indicherà come una delle cause del decadimento del Celeste Impero. I comunisti per oltre un decennio cercheranno, inoltre, di adattare il marxismo-leninismo allo specifico contesto cinese, cercando di liberarsi da interpretazioni dogmatiche provenienti da ambienti legati a Mosca e alla Terza Internazionale. Alterne fortune, quindi, per Confucio nella storia recente.

Oggi la Cina con la sua via originale al socialismo (“socialismo con caratteristiche cinesi”) vive indubbiamente un ritrovato interesse per il suo passato legato ai fasti dell’Impero e in questo passato risalta indubbiamente Confucio. Ci troviamo di fronte ad una Cina orgogliosa in forte sviluppo che sembra cercare, oltre all’ancora ideologica del partito al potere, valori che tradizionalmente hanno anche salvaguardato la coesione sociale. La riscoperta di Confucio, in questo senso, copre parte del vuoto lasciato dalla fine delle campagne di massa che hanno caratterizzato il maoismo. Sono ormai lontani i tempi in cui al pensatore erano riservate condanne assolute in nome di un passato da superare. Si pensi solamente alla campagna “Pi Lin pi Kong” nella quale l’attacco a Confucio altro non era che la critica a Zhou Enlai che insisteva sulla necessità della preparazione culturale per gestire la modernizzazione. La sottolineatura, da Deng in poi, dell’importanza delle competenze rispetto al solo colore ideologico gioca certo a favore della riscoperta confuciana. Lo stesso principio guida introdotto da Hu Jintao della “società armoniosa” – presente anche nello statuto del Pcc, ha certamente un sapore confuciano. Prioritaria è, infatti, l’esigenza di uno sviluppo economico che non intacchi ordine e coesione sociale.

Sun Yat-sen, la cui morte segna il termine temporale della sua narrazione, è il padre del Kuomintang, il partito nazionalista cinese; nella sua analisi sottolinea però l’enorme debito intellettuale e politico del comunismo nazionale nei suoi confronti. Le difficili trattative per la riunificazione del territorio nazionale cinese e l’emergere d’una corrente d’opinione nazionalista all’interno della Cina potrebbero essere le prime avvisaglie d’una riconciliazione storica tra nazionalismo e comunismo, i due figli intellettuali di Sun Yat-sen?

Ancora nel 1940, poco prima della fondazione della Repubblica popolare cinese, Mao Zedong parla dei Tre principi del popolo di Sun Yat-sen come significativi riferimenti nella alleanza antigiapponese e per la futura Nuova Democrazia da costruire. Il Sun Yat-sen a cui Mao fa riferimento è quello del 1924: alleanza con la Russia sovietica, con il Partito comunista e con contadini e operai. Il Kuomintang, a partire dalla svolta repressiva del 1927, eliminerà questi riferimenti interpretando il pensiero del “Padre della patria” in chiave conservatrice e dando risalto, soprattutto, alle sue indubbie componenti autoritarie quali la necessaria “tutela” del partito sul popolo cinese e dando pure spazio ad una rinascita conservatrice del confucianesimo. Taiwan, non scordiamolo, solo negli anni ’80 ha aperto alla democrazia di stampo occidentale.

Oggi è indubbio che lo sviluppo della Cina popolare ripropone all’ordine del giorno una riunificazione, anche alla luce della sua crescente proiezione politico-militare. I legami economici tra le due realtà sono sempre più stretti e massicci sono gli investimenti di Taiwan sul continente. Il dialogo tra comunisti e nazionalisti di Taipei prosegue ultimamente su binari di pacificazione. Da questo punto di vista riveste un ruolo decisivo la natura dei rapporti fra Cina e Stati Uniti ormai in fase di continua evoluzione. Certo, le recenti dichiarazioni di riconoscimento di una sola Cina fatte dal vice-presidente Biden suggeriscono un avvicinarsi del ritorno della “provincia ribelle” alla madrepatria sulla linea sperimentata con Hong Kong e Macao del “Un Paese, due sistemi”.

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