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Se esistesse l’inferno

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Fonte: http://europeanphoenix.net/it/index.php?option=com_content&view=article&id=86&catid=8

16 luglio 2011 – Europeanphoenix – Intervista di Federico Dal Cortivo a Joe Fallisi, tenore e attivista per i diritti umani, sulla questione libica.

D: Sig. Fallisi nei giorni scorsi è arrivata  la notizie che la cosiddetta Corte Penale Internazionale dell’Aja ha deciso di incriminare e spiccare mandato di arresto contro Muammar Gheddafi, lei che ne pensa? Di che cosa dovrebbe essere imputato il Rais? Un Tribunale come quello dell’Aja, a cui ad esempio gli Stati Uniti non riconoscono alcun  potere verso se stessi,  che reale autorevolezza può avere?

* Moreno Ocampo e i funzionari lavapiatti come lui (per non parlare dei loro capi e mandanti), se esistesse l’inferno, si sarebbero già assicurati un posto nel girone più buio. Tutta questa gente spudorata sa benissimo chi abbia commesso e continui a perpetrare, nell’ambito della “guerra” in Libia, crimini contro l’umanità – e del genere peggiore. Sono i cari “ribelli” tagliagola-seno della Cirenaica a libro paga delle potenze predatrici (oltre a queste ultime, beninteso). Il “Tribunale dell’Aja” è uno strumento dell’armamentario politically correct in mano all’Anglogiudamerica. Un altro è l’ONU stessa. E lo si è visto con le risoluzioni a favore della no-fly zone, ovvero del bombardamento-impestamento-distruzione d’un Paese libero e sovrano che non aveva mai dichiarato guerra a nessuno.

D: L’attacco alla Libia, perché di un vero e proprio attacco militare si tratta, è stato come al solito fatto passare per “intervento umanitario”, tipica espressione con la quale la Nato in questi anni dichiara guerra senza dichiararla ufficialmente, lei cosa pensa sia stata la causa scatenante?

Quali sono i reali interessi in gioco che hanno spinto la Francia sempre più interventista e la Gran Bretagna, a premere per l’intervento militare diretto?

* Era da molti anni (una decina, secondo il generale Wesley Clark, cfr. http://www.youtube.com/watch?v=cUhlFO5qjVE) che l’America stava preparando l’aggressione alla Libia, il Paese più ricco e progredito (ed equo) dell’Africa e d’importanza strategica decisiva. Le sollevazioni in Tunisia e in Egitto, in parte spontanee, in parte fomentate e manovrate da quelli che io chiamo i Signori del Caos (cfr. http://it.groups.yahoo.com/group/libertari/message/85038), hanno costituito il via libera al tentativo di putch (inane) e all’”intervento umanitario” immediatamente successivo. Gli Stati coinvolti in veste di attori principali dell’assalto alla Giamahiria (USA, Francia, Gran Bretagna) sono tutti in grave crisi economica e sperano, con questa avventura neocolonialista, di impossessarsi delle risorse libiche (non solo il petrolio, ma anche l’acqua e l’oro dei forzieri della Banca centrale di Tripoli) e di poter costruire un’immensa base a servizio dei loro interessi geopolitici, come già è stato fatto in Kosovo. E, come lì, utilizzando appositi collaboratori “islamici” delinquenziali. Gheddafi, dopo l’attacco armato di Reagan alla Libia, si era sì riavvicinato all’Occidente, facendo molte (troppe) concessioni – e indirettamente favorendo il formarsi, all’interno del regime, di una casta di corrotti e venduti “privatizzatori”, tutti poi, non a caso, passati al nemico -, ma nell’essenza era rimasto il combattente rivoluzionario (e antisionista) di sempre. I padroni di Washington, Londra, Parigi, Tel Aviv lo sapevano. Avevano malissimo digerito la realizzazione, dovuta in larga parte alla Giamahiria, del satellite africano, così come, ancor più, il programma libico di creare una moneta comune (il dinaro d’oro) che avrebbe sostituito le valute straniere negli scambi commerciali del continente.

D: E’ oramai assodato che anche in Libia siano state usate bombe contenenti Uranio Impoverito, quelle che servono per perforare le corazze dei carri e le postazioni protette, ma anche  utilizzate sui centri abitati. Il ministro della Difesa britannico Liam Fox del resto non ha mai escluso tale eventualità, lo stesso vale anche per gli Stati Uniti. Lei ha notizie al riguardo provenienti dal fronte Nord  Africano?

* Quel che si sa per certo è che tali armi sono state usate fin dall’inizio e continuano ad essere impiegate (cfr. http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=24212http://www.voltairenet.org/NATO-War-Crimes-Depleted-Uraniumhttp://sjlendman.blogspot.com/2011/07/nato-using-nuclear-weapons-in-libya.htmlhttp://libyanfreepress.wordpress.com/2011/07/07/uranio-sulla-libia-intervista-al-prof-zucchetti/). Del resto ormai così succede in ogni campo di battaglia dei predoni del Nord e dell’Occidente del mondo. Per avere un’idea degli effetti che tale pratica produrrà anche in Libia, basta riferirsi all’Iraq e in particolare a Fallujah, ma anche “solo” alla ex-Iugoslavia, all’Afghanistan, a Gaza: dappertutto le malformazioni dei neonati sono in aumento. E’ un attacco alle fonti stesse della vita e a Madre Terra quale nessun tiranno nella storia aveva mai neppure immaginato di compiere. Si pensi che la vita media dell’uranio impoverito è di 4.468 milioni 109 anni (cfr. http://www.uranioimpoverito.it/cosa_e.htm), poco meno dell’età stessa del nostro pianeta (4 miliardi 550 milioni di anni), le cui prime forme multicellulari di vita hanno fatto la loro comparsa 2,1 miliardi di anni or sono. Il Sole terminerà la sua esistenza fra 5 miliardi di anni.

D: Si parla insistentemente in Occidente  e la stampa embedded lo riporta con enfasi, di presunte atrocità commesse dalle truppe fedeli a Gheddafi, addirittura il Segretario di Stato Usa Hillary Clinton parla di stupri contro gli insorti. Lei è al corrente di questo?  E se crimini di guerra vi sono stati chi ne è il responsabile?

* Le motivazioni della guerra (come al solito unilaterale e nell’eroica proporzione di 1000 contro uno) sono state l’apoteosi del falso. Gli stupri al viagra valgono quanto i 10.000 morti dei primi giorni. Hanno cominciato (Al-Jewzeera e al suo seguito tutti gli altri “network” e “agenzie” del genere ANSA) con menzogne stratosferiche. Proseguono imperterriti nel loro sporco lavoro. Sono “giornalisti” da radiazione immediata, gente con deontologia professionale sotto zero, embedded, appunto. Il fatto è che ormai ci troviamo nella società degli spettri, “superamento” di quella dello spettacolo (cfr. http://it.groups.yahoo.com/group/libertari/message/59412http://it.groups.yahoo.com/group/libertari/message/73020http://it.groups.yahoo.com/group/libertari/message/73021http://it.groups.yahoo.com/group/libertari/message/73022http://it.groups.yahoo.com/group/libertari/message/73024http://it.groups.yahoo.com/group/libertari/message/73621). Nel senso che non si tratta più di ammannire ai teleutenti passivi una qualche rappresentazione, un’ermeneutica della realtà, ma di abolire quest’ultima sostituendola con una fanta-realtà, virtuale, creata ad  hoc e trasmessa-imposta mediaticamente (piccolo esempio: “le ‘immagini di Misurata’ passate sulla CNN… (…) si sono rivelate essere immagini dei bombardamenti… di Fallujah, in Iraq. Lo si può facilmente capire osservando le targhe delle automobili incendiate”, http://it.groups.yahoo.com/group/libertari/message/84268). E siamo pure nella società dell’Ersatz (dal cibo artificiale ai droni), il cui compimento consiste proprio nella sostituzione della realtà con l’irreale, col teatro dei fantasmi. Infine viviamo ormai immersi anche nel tipo di società, prefigurata da Orwell e da Huxley, insieme del Grande Fratello e della Propaganda totale. L’”audience” drogata deve condividere il bipensiero (per cui 2 + 2 fa 5, a volte 3 e persino, non è escluso, 4) e la neolingua (sicché pace significa guerra, guerra pace), accettando, col sorriso catatonico sulle labbra, la propria schiavitù. Quanto ai crimini di guerra, come ho detto, sono realissimi. E chi ne sia responsabile è sotto le pupille (vuote) di tutti (cfr. http://it.groups.yahoo.com/group/libertari/message/79980).

D: E’ in possesso di dati sulle perdite civili fino ad oggi in Libia?

* Le ultime cifre parlano di 1.100 civili uccisi dai bombardamenti dell’Organizzazione Terroristi Nordatlantici e di 4.500 feriti. Ma bisogna aggiungere le tante vittime delle atrocità dei razzisti criminali monarcoteocratici di Bengasi, al soldo del Qatar, degli Emirati Arabi Uniti, dei Fratelli Musulmani e della coalizione. Almeno un migliaio di neri, per esempio, linciati, orrendamente torturati, bruciati. E le tante donne stuprate e massacrate. Forse nessun uomo farà mai pagare a questa feccia che usurpa il nome dell’Islam i suoi delitti. Ma un tribunale più alto ha già emesso la sentenza.

D: Come giudica l’atteggiamento del governo italiano, che con in testa il Capo dello Stato Napolitano ha giustificato l’attacco ad uno Stato sovrano, legato a noi da un trattato di amicizia?

* Posso solo dire, come ho fatto in aprile a Tripoli durante il colloquio con un signore libico, che mi vergogno di essere italiano e che non mi sento minimamente rappresentato dal “Presidente” guerrafondaio di cui sopra, vecchio arnese dello stalinismo dalla lacrima (radioattiva) facile.

D: Quali pensa che saranno le ripercussioni per gli interessi italiani in Nord Africa?

* Il nostro Paese traditore e opportunista, alla fine, comunque si concluda questa vicenda, avrà perso su tutti i fronti – e si sarà scavato la fossa con le proprie mani. Riconfermando la peggiore nomea, ben meritata, che ha all’estero.


Crisi: W. Tarpley, gli USA dietro attacco a euro e Italia

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(ANSA) – ROMA, 18 LUG – ”In una riunione del 2008 e’ stata  decisa la crisi europea, per evitare che il biglietto verde  crollasse. Gli sciacalli hanno puntato tutto sui Credit Default  Swaps”. La crisi dell’Euro? E’ una attacco degli Usa per evitare il suo crollo. Sembra una crisi ma e’ una guerra finanziaria. E’ Webster Tarpley, uno dei piu’ acuti e puntuti analisti americani a tracciare questo scenario intervistato dal sito wwww.cadoinpiedi.it <http://wwww.cadoinpiedi.it/>.
Tarpley conosce bene l’Italia essendoci vissuto a lungo ed e’ un osservatore di grande indipendenza e paladino delle battaglie contro tutte le oligarchie. A cominciare da quelle finanziarie. In Italia sta per uscire il suo ultimo volume ”Obama dietro la
maschera: golpismo mondiale sotto un fantoccio di Wall Street”.
L’analista americano indica come data di inizio di questo attacco all’euro il febbraio 2010, ”quando il Wall Street Journal pubblico’ un servizio su una cena cospiratoria (8 febbraio) tenuta nella sede di una piccola banca d’affari specializzata, la Monness Crespi and Hardt, alla quale parteciparono persone di grande influenza.  In quell’occasione si cercavano strategie per evitare un’ondata di vendite di dollari da parte delle banche centrali ed il conseguente crollo del dollaro. L’unica maniera per rafforzare il biglietto verde
passava attraverso un attacco all’euro le cui compravendite ammontavano circa a mille miliardi (one trillion) al giorno: impossibile pensare ad un attacco frontale contro una moneta cosi’ forte. Quindi, gli sciacalli degli hedge funds di New York – fra cui anche certi protagonisti della distruzione di Lehman Brothers – hanno cercato i fianchi piu’ deboli del sistema europeo e li hanno individuati nei mercati dei titoli di stato (government bonds) dei piccoli paesi del meridione europeo e comunque della periferia – Grecia e Portogallo”.

‘Per aumentare il potere distruttivo di questi attacchi speculativi, si usa una forma di derivati che si chiamano Credit Default Swaps (Cds) – detti talvolta derivati di assicurazione. Con pochi soldi si puo’ scatenare un effetto notevole al ribasso”. Nella intervista a Stefania Limiti Tarpley spiega ancora: ”Si tratta di un tentativo di esportare la depressione economica mondiale verso l’Europa, creando un caos di piccole monete che saranno facile preda alla speculazione, a differenza dell’euro che e’ abbastanza forte per potersi difendere. Si tratta di scaricare la crisi sull’Europa, sempre con l’idea di indebolire a tal punto l’euro da impedire a questa moneta di fungere da riserva mondiale accanto al dollaro o al posto del dollaro”, rimarca Tarpley.  E Tarpley, che motiva  gli attacchi
americani a Berlusconi anche con la sua indipendenza energetica, dice che la ventata speculativa che ha colpito l’Italia e’ legata alla crisi degli Usa che ai primi di agosto rischia la bancarotta. C’erano coloro -spiega Tarpley- che ”volevano seminare panico in Italia per avere piu’ opzioni nell’eventualita’ di una bancarotta nazionale USA alla vigilia
di Ferragosto che potrebbe scaturire dal rifiuto dei Repubblicani reazionari del Tea Party di aumentare il limite massimo dell’indebitamento dello Stato americano. In quel caso, l’unico aiuto per il dollaro sarebbe un tracollo contemporaneo
dell’euro, che potrebbe benissimo cominciare dall’Italia”. (ANSA).
Per il testo completo dell’intervista:
http://www.cadoinpiedi.it/2011/07/17/attacco_alleuro_per_tutelare_il_dollaro.html#anchor

Tra censura e tecniche di ritocco: politica e informazione in Cina

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Il rapporto tra i mezzi d’informazione e il potere politico in Cina è sempre stato strettissimo. Infatti, fin dalle epoche dinastiche più remote alla più recente contemporaneità, la Storia e le storie vengono scritte e diffuse da organi di potere appositamente pensati e congeniati. In questo rientra anche il gigantesco strumento della censura, tuttora perfettamente funzionante. Questo articolo si pone dunque come obiettivo quello di indagare tali connessioni da un punto di vista storico ed evolutivo, spiegando quali sono le motivazioni soggiacenti, e di mostrare quanto tale processo sia così radicato a livello culturale da essere quasi inavvertito dai cinesi. Nella parte conclusiva invece ci si sofferma in particolare sull’uso di quello che dovrebbe essere il mezzo d’informazione più libero per eccellenza cioè Internet, presentandone sia l’utilizzo propagandistico e pubblicitario impiegato per veicolare una nuova immagine della Cina (in cui si viene continuamente invitati a identificarsi), sia il margine frastagliato in cui può trovare un timido spazio anche il dissenso.

 

Già nel 1982 la prestigiosa rivista “Time” attribuiva il titolo di “Uomo dell’anno” al personal computer, per poi proseguire sulla stessa riga nel 2006, anno in cui dedicava la copertina a tutti gli ‘users’. Ma è stato nel 2010 che l’utilità, le funzioni, le svariate e molteplici possibilità di Internet sono tornate nuovamente alla ribalta. Infatti, a contendersi il podio di “Uomo dell’anno”, questa volta c’erano tre personalità di spicco, tutte e tre collegate in modi diversi all’utilizzo della rete: Mark Zuckerberg, Julian Assange e Liu Xiaobo. I tre rappresentavano evidentemente le nuove direzioni del web 2.0: da un lato il creatore di Facebook, uno dei social network più diffusi e usati nel mondo, dall’altro il discusso fondatore di Wikileaks, sito responsabile di aver portato a galla presunti segreti e intrighi. Infine Liu Xiaobo che, al contrario degli altri due, non aveva creato un nuovo modo di comunicare o di fornire informazioni più o meno attendibili ma rappresentava tutta quella parte sotterranea e occultata del dissenso politico cinese che talvolta utilizza, in un contesto certo non facile, anche le potenzialità della rete per esprimersi e organizzarsi. Si trattava quindi di un rappresentante scelto tra tutte quelle ‘voci fuori dal coro’ che, per potersi discostare dall’informazione di massa interamente gestita e improntata dall’alto, ricorrono a mezzi informatici: quelli che, rispetto ai media ‘tradizionali’ permettono un più ampio raggio di manovra.

Infatti, storicamente il rapporto tra politica, letteratura e informazione in Cina è sempre stato strettissimo. Come in molti altri Paesi, anche in Cina sono esistiti fin dai tempi più antichi appositi organi, gestiti dall’alto, che si occupavano di scrivere, trasmettere e talvolta ‘revisionare’ accuratamente i fatti secondo criteri precisi che cambiavano con il susseguirsi delle epoche: durante il succedersi delle varie dinastie per esempio, era compito degli storiografi scrivere e far conoscere gli avvenimenti tenendo presente la prospettiva e gli obiettivi della casa regnante. Ma, a differenza di altri Imperi, non esisteva la possibilità di collocarsi in un filone divergente. Questo perché la Storia era considerata, insieme alla filosofia e ai classici confuciani, una delle forme più alte di letteratura che in Cina non era vista (almeno nel periodo classico) come una forma di intrattenimento o di espressione del singolo ma come uno strumento educativo: la letteratura deve insegnare, formare, correggere, emendare. Inoltre i primi testi erano scritti su materiali estremamente costosi (come la seta) o poco maneggevoli (come le listarelle di bambù legate insieme), per questo si faceva un’accurata selezione dei testi da diffondere. Solo in seguito all’utilizzo della carta come supporto per la scrittura, intorno al I sec. d. C., si cominciò a diffondere anche un altro tipo di letteratura considerata più ‘bassa’ (narrativa, testi medici, religiosi ecc.), ma continuò ad essere la cosiddetta ‘letteratura alta’ l’unica a essere riconosciuta e appresa a corte e, per questo tipo di opere, venne codificato un vero e proprio “stile letterario”: il wenyan.

Se in epoca classica il wenyan rifletteva comunque la lingua parlata in quel periodo, con il tempo questo stile si cristallizzò e si distanziò enormemente dalla lingua parlata con cui non aveva più nulla a che spartire. Fu così che padroneggiarlo consapevolmente divenne l’unico mezzo di accesso al mondo della corte e della politica: coloro che sapevano leggere e scrivere correntemente il wenyan erano anche coloro che producevano e stabilivano la letteratura ‘corretta’, quella cioè che si presupponeva testimoniasse il vero storico.

Non a caso infatti il carattere wen (attualmente traducibile anche come ‘letteratura’) etimologicamente ha il significato di ‘linea, vena, venatura’ e si presenta come la forma visibile del li il ‘principio’: ciò che sta alla base del mondo. Il wen era dunque, effettivamente, la chiave di lettura e di interpretazione del mondo: il tramite attraverso cui capire il codice dell’universo e delle sue innumerevoli manifestazioni. In questo senso il wen è espressione del ‘principio’ sottostante ed è proprio per questo che di esso deve parlare: la letteratura deve descrivere l’ordine del mondo, deve rendere manifesto ciò che è implicito e soggiacente. Utilizzato in funzione politica, questo concetto aveva un potere enorme: la Storia, la letteratura non erano una semplice cronaca dei fatti, ma descrivevano e traducevano in parole quello che era (o quello che si voleva far credere fosse) l’ordine ‘naturale’ e giusto delle cose. Per questo motivo ciò che non rientrava nella letteratura ‘corretta’ (ovvero nella corretta interpretazione delle leggi del mondo) veniva messo al bando o, nel peggiore dei casi, messo a rogo: famoso per esempio quello ordinato da Qin Shihuangdi nel 213 a.C., in cui si bruciarono perfino i classici confuciani.

Così i testi che rappresentavano coerentemente il ‘vero’, diventarono dei veri e propri modelli stilistici da seguire come nel caso dello Shiji di Sima Qian (ca 145-87 a.C.), redatto in epoca Han e successivamente imitato da tutte le opere storiche seguenti. In questo monumentale compendio non ci si limitava soltanto a esporre con dovizia di dettagli la cronologia imperiale, ma si esplicitavano le basi ideologiche che sostenevano e giustificavano la presenza dell’imperatore e della corte. Il letterato, lo storico o, in termini più ampi, l’intellettuale era generalmente ‘stipendiato’ e gestito dalla corte: anzi, era proprio dall’esistenza di quest’ultima, che traeva la sua ragion d’essere. Inoltre era sempre alla corte che doveva render conto del suo operato: il letterato aveva il compito di far capire alle masse l’assoluta necessità dell’imperatore, la sua dogmatica indiscutibilità. L’intellettuale era, sostanzialmente, un portavoce e la storia, scritta secondo questi criteri, una forma di propaganda.

In tempi più recenti, ad esempio durante il periodo maoista, questo tipo di legame diventò ancora più evidente. Famosi gli slogan che campeggiavano sugli enormi dazibao: manifesti affissi in ogni punto, capaci di condensare in poche parole veri e propri insegnamenti/ordini. La cosa interessante è che, nonostante Mao propugnasse il rifiuto della cultura cinese classica (colpevole di essere reazionaria e capitalista), molti di questi slogan avevano in realtà un’origine tradizionale. Come nel caso del famoso Sha yi jing bai (“Colpirne uno per educarne cento”), ripreso perfino durante gli anni di piombo dalle Brigate Rosse e dai gruppi della sinistra italiana extra-parlamentare, la cui prima menzione appare nella sezione delle biografie dello Han Shu (storia dinastica, redatta durante il I-II secolo d.C., che ripercorre gli eventi della prima fase dell’epoca Han). O ancora il caso di Hengsao yiqie niugui sheshen (“Fare piazza pulita dei demoni-mucca e degli spiriti-serpente”): detto che utilizza addirittura immagini appartenenti all’ambito del buddhismo esoterico, che conobbero poi una grande diffusione a livello popolare grazie a miti e leggende.

La strategia politica di riutilizzare queste frasi già presenti nel linguaggio e nell’immaginario collettivo si rivelò assolutamente efficace: bastava caricare le parole di un nuovo significato, in linea con i tempi e con le direttive del partito. Ecco allora che, nel marzo del 1953 durante il suo “Discorso all’assemblea sulle attività di propaganda nazionale del partito comunista”, Mao Zedong identifica i demoni-mucca e gli spiriti-serpente con i ‘nemici di classe’ o, in seguito, con gli ‘elementi di destra’: proprietari terrieri, controrivoluzionari, ecc. Successivamente, in un saggio apparso sul “Quotidiano del Popolo” del 31 maggio 1966, Chen Boda (portavoce di Mao durante la nascente Rivoluzione Culturale) riutilizza la stessa metafora per riferirsi agli studiosi, agli esperti e ai “maestri borghesi” che devono essere definitivamente eliminati. Il passaggio dal piano linguistico a quello politico è più breve di quanto possa sembrare.

L’utilizzo massiccio di slogan sintetici e giochi di parole a cui si affidava un significato nuovo, indubbiamente era anche favorito dalle caratteristiche peculiari della lingua cinese. Infatti il cinese è una lingua logografica: composta cioè da caratteri che, non avendo nessuna indicazione fonetica precisa, non subiscono mutamenti sostanziali nel corso dei secoli. Questo significa che un carattere, proprio per via della sua natura, può essere compreso da chiunque e in qualsiasi epoca, riuscendo a superare le enormi barriere dialettali che, almeno fino alla codificazione di una ‘lingua comune’ (putonghua) negli anni ’50 del Novecento, continuavano a esistere. Scrivere rappresentava dunque il metodo migliore per farsi capire: per questo, il potere politico si rese conto ben presto dell’importanza della scrittura come mezzo di comunicazione efficace. Non a caso infatti lo stesso Mao Zedong si fece promotore di una campagna di alfabetizzazione delle masse e si occupò della questione della lingua. La capacità di scrittura e lettura, lungi dall’essere (almeno in quel momento) una libera espressione del singolo, era un passo necessario della informazione/formazione politica dell’individuo: ciò che è scritto, a differenza di ciò che è detto, è universalmente e unilateralmente comprensibile.

Ma perfino nel contemporaneo possiamo trovare esempi lampanti dello stretto rapporto che esiste tra scrittura (o ‘riscrittura’ della storia) e propaganda, che trova nuovi e più potenti mezzi di diffusione. Anche in Cina, per esempio, si fa largo uso dell’industria cinematografica e editoriale a scopi propagandistici: recentissima la notizia della pubblicazione in Cina del secondo volume della “Storia del partito comunista cinese” che, sotto caldo invito delle istituzioni competenti, si avvia a diventare il libro dell’anno, senza neanche dover passare attraverso il tam tam dei lettori… Sulla stessa linea si colloca anche la realizzazione del film “La fondazione di un partito”, disponibile nelle sale a partire dal 15 giugno, che narra gli eventi dalla caduta della dinastia Qing (1911) alla nascita del partito comunista cinese (1921). Il colossal, sponsorizzato dall’americana General Motors, vede la partecipazione di un nutrito cast di star cinesi tra le quali, per qualche tempo, ha brillato anche l’attrice Tang Wei a cui era stato affidato il ruolo di Tao Yi, il primo amore di Mao. Sembrava quindi che l’interprete, allontanata dalle scene per tre anni dopo le sequenze di sesso da lei girate nel film “Lussuria”, fosse stata infine riammessa. Ma è bastato un intervento di Mao Xinyu, nipote di Mao Zedong, a sollecitare l’attività della censura che ha immediatamente provveduto a rimuovere l’attrice con la motivazione che “il primo amore di Mao non può essere interpretato da una sgualdrina”. La stessa censura si è presa anche l’incarico di vietare, per almeno tre mesi, la proiezione di film hollywoodiani e di mandare in onda in tv solo fiction ‘rosse’ “che riflettano una vita positiva”, istituendo al contempo venti dipartimenti di propaganda che consigliano al popolo cinese di non perdersi assolutamente il film.

Il meccanismo della censura in Cina è quindi, tuttora, perfettamente oliato e funzionante. Il sistema dell’informazione e dei media è rigidamente sottoposto al controllo del dipartimento di Propaganda del Partito Comunista cinese, il quale si occupa non solo di scegliere accuratamente quali notizie diffondere ma anche e soprattutto di ‘come’ raccontare gli avvenimenti. Riprendendo una famosa affermazione di Tony Blair, potremmo dire che i giornali appartengano più alla categoria dei viewspaper che non a quella dei newspaper. Esemplificativo di questo, il caso delle rivolte in Tibet del 2008. Secondo alcune ricostruzioni degli eventi, in contemporanea con la maestosa preparazione delle Olimpiadi a Pechino, un gruppo di monaci tibetani inizia una manifestazione pacifica che viene puntualmente repressa dalla polizia. Questo provoca un moto in tutta la popolazione tibetana che si mostra solidale: in mezzo ai sostenitori però, ci sono anche alcune frange più estremiste che approfittano della confusione per scagliarsi contro han e musulmani, colpevoli di essere “gli invasori” del Tibet. Come afferma uno di loro in un’intervista rilasciata a Leonardo Ferri: “è da quando l’esercito cinese entrò per la prima volta in Tibet che i cinesi hanno iniziato a distruggere il Tibet. A distruggere la nostra cultura, la nostra religione, la nostra gente. A distruggere l’essere tibetani. Sono quasi cinquanta anni che si cerca di cambiare le cose per via pacifica. Adesso è finito questo momento, ora basta. (…) Dobbiamo armarci e uccidere il nostro nemico. (…)”. Le rivolte culminano nelle giornate del 14 e del 15 marzo e gli occhi del mondo sono tutti puntati in quella direzione. Ma qual è l’atteggiamento ufficiale della Cina? Alla conferenza di Boao, il presidente Hu Jintao, parlando con il premier australiano Rudd, riassume la questione in questi termini: “Il nostro confronto con la cricca del Dalai non è un problema etnico, non è un problema religioso, né un problema di diritti umani. È un problema di mantenere l’unità nazionale o spaccare la madrepatria.” Ed è su questo sentimento di unità, di salvaguardia del proprio Paese che il Partito Comunista fa leva. Difendere la Cina da e contro tutti, questo sembra essere l’imperativo. E in questo il ruolo dei media è fondamentale: verso metà aprile dello stesso anno, su Internet inizia a circolare una canzoncina orecchiabile, il cui motivo recita zuo ren bie tai CNN: ‘nei confronti della gente, non essere troppo CNN’ dove, in un intraducibile gioco di parole, CNN sta per ‘falso/cattivo’. I media occidentali sono accusati di distorcere la realtà anche da alcuni importanti intellettuali come Chang Ping che, in un suo saggio, afferma che l’ottica occidentale risente ancora di sostrati di un orientalismo duro a sconfiggersi: “Le notizie distorte sulla Cina derivano da una non disponibilità ad ascoltare e comprendere, perché i media occidentali sono troppo impegnati in quella sorta di orientalismo di cui ha scritto Edward Said. (…)”

Sembrerebbe dunque che il sistema d’informazione in Cina sia destinato a rimanere uguale a se stesso. Ma, come rileva Alessandra Lavagnino, questo non è del tutto corretto. Infatti, per esempio, a partire dal 1° Luglio 2010 è stato aperto dall’agenzia Xinhua un nuovo canale in lingua inglese interamente dedicato all’informazione, che trasmette 24 ore al giorno. Si tratta di China News Corporation (CNC World), esperimento di quella grande ‘offensiva mediatica’ che segue le regole del ruan shili (o soft power) : a partire dal 2009 infatti, i dirigenti cinesi hanno pianificato massicci investimenti per potenziare l’informazione sia in cinese che in inglese. A questi nuovi mezzi si richiede di usare modalità comunicative simili a quelle dei media occidentali. Questo però non è affatto legato a un tentativo di avvicinamento a una forma di cronaca ritenuta più oggettiva e lucida, ma al contrario è finalizzato a costruire e veicolare un’immagine della Cina sempre più potente e persuasiva. L’informazione è passata da essere un comodo ‘mezzo di formazione politica’ a un più raffinato ‘mezzo di formazione di immagine’: si racconta, con stile occidentale, una nuova Cina più ricca, più produttiva, più forte e competitiva.

Ma cosa succede in quello che, in linea teorica, dovrebbe essere lo strumento di comunicazione più libero in assoluto cioè Internet? Anche in questo caso la morsa della censura si fa sentire in tutta la sua forza. Si fa sentire nelle pagine dei numerosi siti oscurati, nelle parole semplicemente ‘introvabili’ e perfino in quelli che sono dei veri e propri ‘cloni’ cinesi di social network e siti famosi. Ecco allora comparire sotto il nome di renren (lett. ‘ognuno, tutti’), una pagina identica a quella di Facebook con la stessa grafica, le stesse opzioni e lo stesso meccanismo. O ancora QQ, la forma cinese di Messenger, o YouKu, versione edulcorata (ma provvista di un’importantissima opzione karaoke) di Youtube. In tutti questi siti si mantiene inalterata la funzione a cui sono adibiti ma, essendo creati e gestiti da strutture cinesi, si alza notevolmente il livello di controllo dei contenuti presenti e ci si orienta, in linea con una sorta di ‘patriottismo culturale’, su una scelta politica che privilegia in toto il ‘made in China’ rispetto al ‘made in other countries’, anche per quanto riguarda i social network

Anche perché, come racconta Giampaolo Visetti in un articolo su “La Repubblica” : “ (…) Internet è sottoposto a verifiche automatiche ossessive. Spesso degenerano nella comicità, innescata dagli equivoci di caratteri (..). “Carota” è un termine bloccato: il primo ideogramma coincide con il nome del presidente Hu Jintao. Quando ingenuamente cerco una parola proibita, o mi attardo su un argomento vietato, lo schermo del pc si svuota e una scritta mi segnala l’errore tecnico che ho commesso. Se i peccati sono più gravi, ancorché inconsapevoli, si viene educati. Per un certo tempo connettersi alla Rete diventa impossibile, o richiede tempi inaffrontabili. Per qualche settimana, dopo l’uscita di un articolo “non armonizzato”, viene a trovarmi la polizia. Ragazzi sorridenti controllano visti, documenti e permesso di lavoro. Sono uno straniero: fanno il loro dovere. L’assistente dell’ufficio viene quindi invitata a “bere un thé” dai funzionari. Al ritorno, con noncuranza, ne approfitta per un breve ripasso sui fondamentali della prudenza che regolano l’informazione ufficiale. Preferisce non sapere le notizie che seguo. Segnala quelle pubblicate sulla stampa del partito.”

La questione è dunque policroma e complessa. Dietro la censura, dietro le versioni ufficiali, c’è quasi sempre il tentativo di fornire prima a se stessi e poi al mondo un’immagine vincente, un’apparenza convincente e seducente. Si tratta, come in una fotografia, di una sofisticata tecnica di ritocco che mira a eliminare le zone d’ombra e a enfatizzare i punti luce per presentare il soggetto sotto il suo aspetto migliore. E per far questo, ogni mezzo è consentito: in fondo come diceva il pragmatico Deng Xiaoping “bu guan bai mao hei mao, hui zuzhua laoshu jiu shi hao mao” , “Non importa che il gatto sia bianco o nero, se acchiappa i topi allora è un bravo gatto.”

 

 

* Rita Barbieri è laureata in Lingua e Letteratura Cinese presso l’Università degli Studi di Firenze, docente di italiano per stranieri e di cinese presso varie strutture private e autrice di alcuni articoli di ambito sinologico.

 

A Beirut la formazione di un governo non risolve i problemi

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La situazione libanese è sempre stata estremamente intricata ed instabile.

Oltre alle normali dinamiche di palazzo, che ad oggi sono assolutamente complesse ed intrecciate, intervengono anche questioni religiose ed influenze più o meno dirette di altri poteri e paesi – se non si vogliono chiamare proprio ingerenze – che per ragioni e in misure diverse hanno interesse a che la situazione si sviluppi in un senso piuttosto che in un altro.

Anche il governo rispecchia quella che è la multiconfessionalità del paese: secondo il Patto Nazionale, il potere politico è suddiviso tra cristiani maroniti, che hanno accesso alla Presidenza della Repubblica, musulmani sunniti, a cui è riservata la carica di Primo Ministro, e musulmani sciiti, a cui rimane la Presidenza della Camera dei Deputati.

Questa suddivisione non è priva di implicazioni, soprattutto sul piano del dibattito politico, ed è estremamente utile al fine di inquadrare il più ampio scenario sullo sfondo del quale attualmente l’amministrazione libanese agisce, e fornisce una preziosa chiave di lettura per sbrogliare l’intreccio di legami strategico – politici del governo con i paesi contigui e non.

Ma prima diamo uno sguardo d’insieme a quanto è successo a livello politico in Libano negli ultimi mesi.

Il recente passato

Alla fine del 2010 hanno cominciato a filtrare notizie riguardo le indagini sull’assassinio del Primo ministro Rafiq Hariri, omicidio avvenuto nel lontano 2005; condotta dal Tribunale Speciale per il Libano (TSL) disposto dall’Organizzazione delle Nazioni Unite con la Risoluzione 1757– elemento che di per sé è un fertile terreno di contestazione – l’inchiesta ha poi ufficialmente rivelato che ad essere indagati erano dei membri di Hezbollah, in un momento in cui il Presidente del governo era Sa’ad Hariri, figlio dell’illustre defunto. La conseguenza di questa congiuntura è stata che, dal canto suo, il Presidente non poteva che sostenere verbalmente e concretamente l’operato del TSL ma dall’altra parte, ed altrettanto naturalmente, la fazione politica i cui membri sono implicati, Hezbollah, avrebbe gradito un diverso atteggiamento dal capo del governoi. Davanti all’ostinazione di Hariri figlio a non sconfessare l’operato del Tribunale Speciale, i membri sciiti al potere nel governo di unità nazionale hanno provocato una crisi, determinandone la caduta nel mese di gennaio del 2011.

Decisivo nel determinare il cambiamento dell’equilibrio delle forze politiche all’interno del governo, cioè tra la coalizione dell’ 8 marzo (composta da partiti quali Hezbollah, Partito Amal, Partito Socialista Arabo Baath ed altri, appoggiata da Siria ed Iran) e quella del 14 marzo (il cui leader è Sa’ad Hariri, e dunque al governo prima della crisi), è stata la ‘folgorazione sulla via di Damasco’ del leader druso Walid Jumblatt, leader del Partito Sociale Progressista, in origine parte della coalizione del 14 marzo che, con la sua defezione, è passato all’opposizione. La ragione di tale ‘ribaltone’, per usare un termine caro alla politica italiana, è da individuare nel mutato clima dell’intera area, soprattutto per ciò che sta avvenendo nella confinante Siria ormai da mesi.

Dunque, è ricaduto sul miliardario sunnita Najib Miqati, uomo fondamentalmente ‘di centro’ e per questo capace di catalizzare più consensi, l’onere di formare un nuovo governo che rispecchiasse il mutato equilibrio politico. Il compito del nuovo Primo Ministro era quanto mai arduo: conciliare forze piuttosto eterogenee tra loro, alla luce di tendenze sostanzialmente filo – siriane del nuovo governo. Infatti, diversamente da quanto di solito si verifica, vale a dire che il primo ministro sceglie una squadra che condivida la sua linea politica, in Libano il governo poggia su innaturali collaborazioni pensate per soddisfare interessi settari di natura anche lontana, determinando una situazione instabile a causa dei continui ribaltamenti di fronte da parte dei singoli gruppi politici.

La formazione progettata da Miqati ha un’ulteriore peculiarità: rispetto alla ‘consuetudine’ della democrazia confessionale libanese, è stato concesso alle forze sunnite un ministero in più a spese dei partiti sciiti presenti nella squadra di governo – cioè Hezbollah ed il partito Amal – fatto che alcuni interpretano come un segnale distensivo lanciato da Damasco che, alle prese con le rivolte interne, in questo modo vorrebbe assicurarsi l’assenza di grattacapi sul confine occidentale. D’altro canto, è doveroso sottolineare che l’assetto governativo che ne risulta, e che esclude la coalizione filo – saudita e filo – occidentale guidata da Sa’ad Hariri (la coalizione del 14 marzo), è un elemento che rappresenta un importante punto di rottura rispetto alla composizione dei governi di unità nazionale dello scenario politico libanese dell’ultimo trentennio circa. Infatti, come vedremo subito oltre, i governi precedenti erano chiusi ad una qualsiasi ingerenza della confinante Siria per essere invece meglio disposti verso paesi più ad Occidente, inclinazione determinata proprio dalla coalizione di maggioranza al potere.

Per l’appunto, con un’ equipe di governo che contiene al suo interno elementi sciiti di un certo peso, seppur non assoluto né totale di per sé, la strada per una rinnovata influenza di Damasco sul paese torna ad essere praticabile dopo una chiusura che durava dal 2005, anno in cui la ‘Rivoluzione dei cedri’ seguita alla morte del Primo Ministro Hariri sr. e connotata da un forte carattere anti – siriano, aveva sottratto il Libano all’orbita damascena; da allora, gli Stati Uniti avevano fornito a Beirut aiuti militari per un ammontare di $ 720 milioni nel vano tentativo di porlo sotto l’ala occidentale. Il passo indietro (agli occhi statunitensi) rappresentato dall’inclusione di Hezbollah al governo ha interrotto i suddetti aiuti e rimarranno sospesi “fintanto che un gruppo estremista indicato dagli USA come organizzazione terrorista avrà parte attiva in un governo”.

Riassumendo, la situazione attuale del governo libanese appare in questa facies: dopo mesi di tentennamenti, il Primo Ministro Najib Miqati ha formato un governo basato sulle forze della coalizione ‘8 marzo’, in cui rientra anche Hezbollah, di chiaro orientamento filo – siriano; dal 2009, anno in cui è stato disposto il Tribunale Speciale per il Libano, la sfera giudiziaria risulta tangente a quella della politica, tanto da determinarne le sorti.

Infatti, se in un primo tempo le indagini in corso hanno determinato la caduta del governo, adesso l’atto formale di accusa di quattro membri di Hezbollah rischia realmente di compromettere la vita di quello neonato.

In questo quadro piuttosto complesso, qual è la posizione di Hezbollah?

Le accuse di coinvolgimento di Israele nelle indagini, o per meglio dire di spionaggio (vedi nota 1), erano state precedute da una campagna di delegittimazione dell’operato del Tribunale Speciale, non del tutto prive di fondamento. Su questa linea si è attestato ancora qualche giorno fa Nasrallah, dichiarando che nessun membro di Hezbollah sarà arrestato “né fra trenta giorni”, né fra trent’anni.

Anche le reazioni da parte dell’attuale opposizione (la coalizione del 14 marzo) contribuiscono ad alimentare la ‘sindrome della persecuzione’ della dirigenza di Hezbollah; infatti, se in un primo momento le dichiarazioni riguardo l’incriminazione erano state assolutamente moderate (molti avevano affermato che l’appartenenza degli imputati al partito sciita non implicava necessariamente una criminalizzazione in toto dello stesso), recentemente si è arrivati ad affermare che la formalizzazione dell’accusa rende necessarie le dimissioni dei membri del governo appartenenti ad Hezbollah, e che il partito stesso è da considerare come il mandante ultimo dell’assassinio del Primo Ministro Hariri, qualora fosse appurato per via giudiziaria che gli imputati sono realmente colpevoli.

La netta presa di posizione dell’opposizione ha spinto la neo – maggioranza a definire il TSL una sorta di ‘cavallo di Troia’ pensato per colpire la resistenza libanese e soffocare Hezbollah, o quanto meno provarci.

Dopo la formalizzazione delle accuse e la conseguente ratifica dei mandati di cattura però, la situazione si è fatta più urgente: alla fine di luglio scadrà il termine massimo per l’esecuzione dei mandati (ovvero per l’arresto dei quattro imputati), per la quale il tribunale internazionale deve comunque affidarsi alla giustizia libanese (obbligo che per alcuni analisti rende estremamente improbabile l’arresto degli accusati dato il radicamento del partito sul territorio). Se entro questa scadenza i sospettati non saranno arrestati il tribunale internazionale avrà ben poco margine di manovra per perseguire il suo obbiettivo: rendere pubbliche le motivazioni dell’accusa e al massimo processare gli imputati in contumacia. Dal canto suo, l’autorità giudiziaria nazionale, e di riflesso il governo, potranno limitarsi a dichiarare che i colpevoli non sono stati rintracciati. Secondo quanto scrive la giornalista Natacha Yazbek, “tecnicamente, è tutto quanto richiesto al governo”.

In ogni caso, la posizione di Hezbollah risulta quanto mai controversa e ciò che l’attende è comunque una campagna di delegittimazione a livello internazionale, dovuta anche alle posizioni adottate riguardo il bagno di sangue che sta affogando la confinante Siria: la decisione di schierarsi de facto con Bashar al-Assad a proposito della repressione attuata nei confronti dei rivoltosi ha offuscato l’immagine di Hezbollah come di un movimento che si batte per la difesa degli oppressi, che invece le sue azioni di resistenza contro Israele avevano contribuito a costruire tra l’opinione pubblica araba. Una condanna definitiva rappresenterebbe un ulteriore motivo di imbarazzo per Hezbollah perché aggiungerebbe ai suoi numerosi appellativi anche quello di nemico della comunità sunnita, non soltanto libanese ma dell’intero mondo musulmano.

Le conseguenze

Da tutto questo si evince abbastanza chiaramente che la situazione politica in Libano è quanto meno nervosa; se si dovesse arrivare ad una condanna, si potrebbe aprire una nuova crisi nel governo libanese. Ma questo è solo uno degli scenari possibili, quindi procediamo con ordine.

Ottenuta la fiducia del Parlamento e stanti le dichiarazioni dello stesso Primo Ministro, i riflettori della comunità internazionale sono puntati su Hezbollah.

Miqati ha infatti recentemente dichiarato di non voler sconfessare l’operato del TSL e pertanto di essere determinato ad appoggiare la loro azione; posto che questo non implica necessariamente che venga dato seguito alla richiesta di arresto fatta pervenire ai tribunali ordinari libanesi (per le ragioni di cui sopra), la collaborazione del Primo Ministro sunnita potrebbe avere una causa e sicuramente una conseguenza.

Da un lato, infatti, potrebbe essere interpretata come un segnale distensivo nei confronti dell’ Occidente e dei regimi arabi filo – occidentali (leggi Arabia Saudita), concepito per recuperare il gap che la significativa presenza sciita al potere crea nel rapporto con l’Ovest; e questa motivazione potrebbe rientrare tra le cause che hanno spinto il premier libanese ad agire in questa direzione. Probabilmente, può soggiacere alla presa di posizione di Miqati anche una volontà di limare i rapporti con quella che tutt’oggi mantiene l’ambiguo appellativo di “unica democrazia del Medio Oriente” (Israele), che sicuramente non poteva, e non può, dirsi paga del ruolo di Hezbollah all’interno del neonato governo. In questa chiave di lettura, il Primo Ministro si sarebbe sganciato (almeno in parte) dalla presa di Hezbollah sul governo, onde evitare di pagare un prezzo che il Libano non può permettersi di corrispondere né ora né in futuro, soprattutto per quanto accaduto nel 2006.

Evidentemente, non ha comunque pesato molto sulla bilancia della politica il tacito accordo che sussisteva tra il Primo Ministro e le forze di Nasrallah che vedeva, o meglio avrebbe visto, il primo impegnarsi nella difesa del gruppo sciita dall’azione dei famigerati TSL ed al contempo dagli attacchi dell’opposizione riguardo la legittimità dell’arsenale militare di cui si è dotato.

Tutto ciò andrebbe a scardinare quanto sostenuto da una parte dei giornalisti ed opinionisti libanesi, e cioè che il neo Primo Ministro sia molto più anti – Hariri che filo – Hezbollah: volendo lasciare un attimo da parte convenienze e ritorsioni della politica, una posizione come quella assunta da Miqati dal punto di vista esclusivamente umano avrebbe come corollario una sfumatura di pietas per Sa’ad Hariri (oltre ad essere concepita per attirare le simpatie dell’Occidente ‘allargato’ ecc.).

Tra le conseguenze non esiterei a sottolineare la mutata posizione di Hezbollah, sostanzialmente all’angolo. Rimettersi alla volontà dei Tribunali, qualora si arrivasse ad una condanna definitiva, sarebbe un atto di realpolitik perché significherebbe scendere a compromessi con le altre forze politiche (il che comporterebbe soprattutto una preservazione del proprio posto e peso nel governo, oltre ad evitare una nuova crisi politica che farebbe precipitare il paese nel caos) rinunciando però ai principi che hanno fin qui prodotto le ostinate dichiarazioni dei diversi leader del partito. D’altro canto, l’alternativa per il gruppo di Nasrallah è di optare per la linea dura e far cadere il governo, di nuovo, gettando il paese intero nell’ingovernabilità, una condizione certo non nuova.

In realtà, agli occhi di alcuni esperti, vi potrebbe essere una terza via, e cioè quella di imporre il proprio controllo sul governo facendo valere il proprio ruolo di forza armata; in questo caso però si tratterebbe di un colpo di stato, alternativa che non appare troppo verosimile, per tutte le conseguenze a livello interno ma soprattutto internazionale che ciò comporterebbe (volendo considerare soltanto l’ipotesi migliore, un boicottaggio generalizzato del governo libanese, a cominciare dall’Occidente per finire con diversi paesi arabi).

Secondo una buona parte degli analisti libanesi, è in questo punto che si innesterebbe la figura di Bashar al-Assad; il suo regime rappresenta un importante punto d’appoggio per Hezbollah, ma la situazione interna alla Siria rende la sua posizione abbastanza precaria. Il legame tra i due soggetti in questione è talmente stretto che molti sono spinti ad asserire che le mosse di Hezbollah dipendano molto più da Damasco che dai TSL.

In caso di ulteriori e decisive scosse al ‘trono’ del Presidente siriano, Nasrallah mostrerà da che parte pende la bilancia dei suoi valori, se dal lato della poltrona e del potere politico o piuttosto dalla parte dei suoi quattro indagati.

Ricordiamo comunque che ci stiamo muovendo sempre nel campo del se (si procedesse realmente all’arresto degli incriminati).

Paola Saliola è dottoressa in Lingue e civiltà orientali presso l’Università La Sapienza di Roma

 

iUna grossa mano per sconfessare l’operato dei suddetti tribunali è stata fornita dallo ‘scandalo delle intercettazioni’: Nasrallah, leader di Hezbollah, ha denunciato che le compagnie telefoniche da cui sono state tratte una serie di intercettazioni utili alle indagini per l’omicidio dell’ex Primo ministro Rafiq Hariri, fossero infiltrate da spie israeliane; in effetti, una parallela indagine delle forze libanesi ha poi portato all’arresto di un considerevole numero di persone con l’accusa di spionaggio a capo di Israele. Anche volendo vedere dietro questi fatti una sorta di ‘sindrome di persecuzione’ di Hezbollah, il TSL ha commesso alcuni reali ed inconfutabili errori a causa dei quali quattro generali libanesi sono rimasti in carcere per ben quattro anni senza che venisse formulata alcuna accusa specifica, ed infine rilasciati.

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Libia e diritto internazionale visti dalla Russia

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Dal nostro inviato a Mosca:


Il 6 luglio a Mosca, presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università Statale Russa del Commercio e dell’Economia (RSUTE), ha avuto luogo la tavola rotonda dal titolo: “LIBIA, LA CORTE PENALE INTERNAZIONALE E I PROBLEMI DEL DIRITTO INTERNAZIONALE”. La discussione ha visto la partecipazione di diplomatici russi e stranieri, esperti di diritto internazionale delle principali università del paese, politologi, giornalisti, membri di organizzazioni e movimenti sociali. La tavola rotonda è stata organizzata dal Comitato russo di Solidarietà con i popoli della Libia e della Siria. Alla tavola rotonda hanno partecipato più di 12 accademici e ricercatori in discipline giuridiche, nonché esperti di diritto penale internazionale:

1) Sergey Baburin – Ph. D., Professore, scienziato benemerito della Federazione Russa, rettore RSUTE;

2) Alexei Vashchenko – corrispondente del quotidiano «Завтра» (Domani);

3) Svetlana Glotova – Dottore di Ricerca, membro del comitato direttivo dell’Associazione Russa di Diritto Internazionale e membro dell’Associazione Mondiale di Diritto Internazionale, membro della commissione di Diritto Internazionale dell’Associazione degli Avvocati Russi, membro del Comitato scientifico consultivo del Ministro degli Affari Esteri della Russia, docente del Dipartimento di Diritto Internazionale dell’Università Statale di Mosca Lomonosov;

4) Yurij Golik – Ph. D., professore, professore di diritto e procedura penale RSUTE;

5) Muftah Darbash – Vice Ambasciatore della Libia nella Federazione Russa;

6) Vladimir Jatiev – Ph. D., professore, capo del dipartimento di diritto e procedura penale RSUTE;

7) Nikolai Zhdanov – Ph. D., professore di diritto internazionale dell’Università russa di amicizia fra i popoli.

8 ) Sergey Kapitonov – Dottore in Legge, professore, capo del Dipartimento di Teoria e Storia del Diritto e dello Stato dell’Università ELSU;

9) Gennadij Melkov – Ph.D., professore, giurista benemerito della Federazione Russa, professore di diritto costituzionale RSUTE;

10) Vladimir Ovchinskii – Ph.D., membro del Consiglio della politica estera e della difesa (CFDP), generale di polizia (in pensione);

11) Alexei Osavelyuk – Ph. D., professore, Vice capo Dipartimento di Diritto costituzionale RSUTE;

12) Oleg Peresypkin – Ambasciatore dell’Unione Sovietica in Libia 1984-1986;

13) Oleg Saulyak – Ph. D., docente, Preside della Facoltà di Giurisprudenza RSUTE;

14) Oleg Fomin – Membro della Società Ortodossa Imperiale di Palestina, arabista;

15) Taras Shamba – Ph. D., professore, giurista benemerito della Federazione Russa, capo del Dipartimento di avvocatura, notariato, processo civile e arbitrato RSUTE;

16) Yaroslav Kozheurov – Dottore di Ricerca in Diritto;

17) Dmitry Malev – Ambasciatore straordinario e plenipotenziario della Federazione Russa in Guinea e Sierra Leone;

18) Alexei Antonenko – politologo;

19) Nikolai Sologubovsky – giornalista, scrittore;

20) Vladimir Orlov – Vice Presidente dell’ONG “Veche”

Alla tavola rotonda sono state poste le seguenti domande:

Chi trae vantaggio dall’eliminazione fisica di Muammar Gheddafi?

Chi è il violatore della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che impone la no-fly zone sulla Libia?

Sono legittimi gli attacchi missilistici e i bombardamenti sulla Libia, non violano la Carta delle Nazioni Unite e le leggi internazionali?

A seguito della discussione delle domande poste, i partecipanti hanno unanimemente convenuto che il Tribunale penale internazionale per la sua emissione di un mandato d’arresto per Muammar Gheddafi ha violato il diritto internazionale, e la NATO nell’utilizzo della risoluzione 1973 è andata al di là non solo del campo giuridico, ma anche oltre la ragione, e la sua azione è priva di fondamento giuridico.

I partecipanti alla tavola rotonda hanno quindi deciso di fare appello al Consiglio di Sicurezza dell’Onu chiedendo la cessazione immediata dei bombardamenti da parte delle forze della NATO sulle città libiche, in quanto sono contrari alla risoluzione 1973. Inoltre, i partecipanti alla tavola rotonda hanno convenuto di trasmettere un ricorso alla Corte penale internazionale, che richiede il ritiro del mandato di cattura per Muammar Gheddafi.

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“Social and Economic Effects of Modernization”

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Report as per results of session on strategic scenarios “Social and Economic Effects of Modernization: from “smart” devices to “smart” social networking services as a subject of “smart” investments”

(Moscow, 28 February – 2 March, 2011)

 

The report is made on the initiative of the Member of the Committee on Banks and Banking of the Russian Union of Industrialists and Entrepreneurs, Chairman of the Board of the Millennium Bank, Mikhail Baydakov, under the scientific leadership of the Director of the Schiffers Institute for Advanced Research, Prof. Yury Gromyko and of the Economist and Member of the Scientific Committee  of the Italian journal “La Finanza”, Paolo Raimondi.

Please download the entire Report in pdf format:

session on strategic scenarios – to smart investments-1

session on strategic scenarios – to smart investments-1

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La difesa dei diritti umani e la lotta contro l’imperialismo sono inscindibili

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Fonte: http://www.nodo50.org/ceprid/spip.php?article1201

Domenica 10 luglio 2011

I. L’aggressione imperialista contro la Libia, capeggiata da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, ha posto una volta di più in primo piano il disorientamento imperante in buona parte della sinistra e nei “progressisti” di diverse sfumature, il cui pensiero e le cui opinioni appaiono modellati dall’egemonia ideologico-culturale del capitalismo, abbigliato per l’occasione con le vesti del derechouhumanismo.

Qualcosa di simile accadde durante le aggressioni contro Iraq e Yugoslavia: non bisognava condannarle, perché farlo implicava appoggiare dittatori come Saddam Hussein e Milosevich.

Non ci riferiamo qui all’attitudine dei socialdemocratici che appoggiano l’aggressione dal Governo (nei fatti, la Spagna di Zapatero e la Grecia di Papandreu, dissanguata dal capitale finanziario transnazionale) o dall’opposizione, come nel caso del Partito Socialista francese.

Alcuni gruppi e partiti che si autoproclamano di sinistra e anticapitalisti, hanno salutato la “primavera araba” in Libia e in seguito hanno precisato la loro analisi, denunciando l’aggressione delle grandi potenze, scatenata con il pretesto di “proteggere i civili”.

Altri gruppi e persone, anch’essi che si autoproclamano di sinistra – molto pochi, a questo punto della situazione, perché l’aggressione è diventata assai impopolare persino negli stati aggressori – mantengono il loro appoggio ai ribelli, però giustificano anche, in  nome dei diritti umani del popolo libico, l’aggressione imperialista.

E accettano come verità irrefutabile la versione dei fatti trasmessa dai grandi monopoli di dis-informazione.

Gheddafi sarebbe un pazzo scatenato che ha saccheggiato il suo paese e ha i miliardi depositati nelle banche straniere. Quando le sue truppe si trovavano alle porte di Bengasi il Consiglio di Sicurezza decise di creare una zona di esclusione aerea sopra la Libia e immediatamente l’aviazione francese iniziò a bombardare le truppe di Gheddafi stazionate di fronte a Bengasi, evitando così il genocidio della popolazione, che pareva imminente secondo le informazioni delle grandi potenze e dei monopoli mediatici al loro servizio, sempre degni di fede per questi derechohumanistas con i paraocchi.

I ribelli, da parte loro, lotterebbero per i diritti umani, assetati di libertà e di democrazia, e non sarebbero un conglomerato eteroclito che include al suo interno anche ex alti dirigenti del regime, responsabili di gravi violazioni dei diritti umani.

II. La Libia è un paese quasi esclusivamente desertico, a eccezione di una stretta frangia di litorale (1770 km di costa), dove si trovano i principali nuclei di popolazione del paese.

Ha 6.500.000 di abitanti (un milione alla fine della Seconda Guerra Mondiale, la maggior parte nomadi) e una superficie di 1.750.000 km quadrati. Attualmente Tripoli ha circa due milioni di abitanti, Bengasi un milione, Misurata 480.000 e Tobruk 200.000.

Possiede giacimenti petroliferi di qualità altissima, che costituiscono la sua quasi esclusiva fonte di risorse e si suppone che disponga di grandi riserve non sfruttate e ancora non scoperte.

L’altra sua ricchezza naturale è l’acqua. Sotto una superficie secca e quasi desertica, in quasi tutto il territorio esiste una gigantesca riserva di acqua fossile potabile stimata in 150.000 km cubi, chiamata Acquifero della Nubia, che copre circa due milioni di km quadrati e si estende in parte del Chad, dell’Egitto, della Libia e del Sudan.

Nel 1983 in Libia si cominciò un progetto di irrigazione, conosciuto come Grande Fiume Artificiale, per utilizzare queste riserve sotterranee al fine di portare alle città costiere più di cinque milioni di metri cubi di acqua al giorno. A tutt’oggi il Grande Fiume Artificiale somministra acqua potabile e per l’irrigazione al 70 per cento della popolazione, portandola dalla falda acquifera del sud alle aree costiere del nord, alle città di Tripoli, Tobruk, Sirte, Bengasi e altre. Con un costo stimato di 30.000 milioni di dollari, finanziato con la vendita del petrolio, la rete del Grande Fiume Artificiale, con quasi 5000 km di tubazioni da più di 1300 pozzi scavati fino a 500 metri di profondità e stazioni di pompaggio nel deserto del Sahara, ha come obiettivo anche quello di aumentare la superficie di terre coltivabili. Inoltre, l’acqua è molto economica: 35 centesimi di dollaro al metro cubo.

Impossessarsi di questa enorme riserva di acqua potabile è nella mira anche delle potenze imperialiste, mandatarie delle imprese transnazionali come la ex Lyonnaise des Eaux (Gruppo Suez) e altre, che hanno il controllo delle risorse idriche mondiali.

Se il proposito di Gheddafi fosse di annientare la popolazione di Bengasi, avrebbe a disposizione il semplice mezzo di tagliare la somministrazione di acqua alla città.

Dal 1990 il Programma delle Nazione Unite per lo Sviluppo (UNDP) pubblica un Indice di sviluppo umano, dove stabilisce una classifica dei paesi del mondo in base a vari parametri che rappresentano la qualità della vita delle persone, tra i quali l’istruzione, la speranza di vita, la salute e il reddito, e li differenzia per genere. Non tiene in conto i cosiddetti indici di libertà umana. L’indice 2010 include 169 paesi e la Libia occupa il posto 53 con un indice 75 (in ascesa rispetto agli anni precedenti), di una scala che ha un massimo teorico di 100. La Norvegia occupa il primo posto con indice 93. La Libia ha l’indice più alto dell’Africa, seguita a breve distanza da Algeria, Marocco e Tunisia, e in America Latina la superano solo Il Cile (78,3), l’Argentina (77,5) e l’Uruguay (76,5), che occupano rispettivamente i posti 45, 46 e 52. Messico e Cuba sono più o meno allo stesso posto della Libia.

Quindi la Libia è considerata un paese di medio sviluppo, raggiunto grazie a un buon utilizzo della sua rendita petrolifera, ma con un grave deficit in materia di diritti civili e politici, stimati in modo oggettivo, e soprattutto secondo i criteri di valutazione dei paesi occidentali “civili”.

III. Dopo la riconciliazione di Gheddafi con l’Occidente, le gravi carenze della Libia in materia di diritti civili e politici non hanno disturbato le grandi potenze, che hanno ricevuto in pompa magna il leader libico, ansiose di realizzare buoni affari, soprattutto l’ottenimento di concessioni petrolifere, la vendita di armi e da parte della Francia perfino l’offerta di costruire una centrale nucleare.

Si sono in questo modo concretizzate varie concessioni petrolifere e importanti vendite di armamenti.

Solo nel 2009 Gran Bretagna, Francia e Italia hanno venduto armi alla Libia per 25, 30 e 111 milioni di euro rispettivamente. Quello stesso anno, anche Malta figura nella lista dei venditori, per 80 milioni di euro. Malta non ha nessuna industria di armi ed è evidentemente solo un paese di transito. Da parte sua, la Francia ha tentato di vendere alla Libia gli aerei Rafale che fabbrica Dassault. Gli stessi che ora utilizzano per bombardarla.

Però Gheddafi è un individuo imprevedibile, che a quanto sembra cominciò a ideare la revisione delle concessioni petrolifere e a promuovere l’idea di autonomia finanziaria dell’Africa di fronte alle valute delle grandi potenze.

Inoltre, le riserve petrolifere e acquifere della Libia sono un bottino che stimola l’appetito degli aggressori. A questo bisogna sommare i depositi dello stato libico nelle banche straniere e le 144 tonnellate d’oro (circa quattromilaseicento milioni di euro), che sarebbero depositate nelle banche libiche.

Si capisce perché la “primavera” libica (preparata- sostengono alcuni- dai servizi segreti francesi, e probabilmente in parte spontanea) fosse una buona occasione per stabilire in Libia un governo “democratico”, cioè totalmente sottomesso alla voracità occidentale.

La ribellione non si è estesa a macchia d’olio, come speravano i portabandiera dei diritti umani, e si è dovuta utilizzare la foglia di fico di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza per intervenire militarmente a favore dei ribelli.

Intervento che può culminare in un’invasione terrestre, se non si fa sentire di più l’impopolarità nei paesi aggressori, non si accentua il dissenso in seno alla NATO e gli aggressori riescono a riunire le forze sufficienti. Questo darà per risultato instaurare il caos in Libia per molti anni, come in Iraq e Afghanistan, e convertire tutta la zona in una polveriera a causa della disseminazione degli armamenti, come ha ammonito qualche giorno fa il Presidente del Niger, Mahamadou Issoufou.

IV. Più di quattro mesi di bombardamenti aerei (e ora anche navali) ininterrotti: si tratta di una forma di terrorismo internazionale di Stato destinato a minare la morale del nemico, specialmente della popolazione civile.

L’Italia lo mise in atto in Etiopia nel 1935-36, Il Giappone in Cina nel 1937-39, la Germania e l’Italia durante la guerra civile spagnola (Madrid 1936, Guernica 1937), la Germania nazista e gli alleati durante la Seconda Guerra  Mondiale (Varsavia, Rotterdam, Londra, Dresda, Hiroshima, Nagasaki, ecc.), gli Stati Uniti abbondantemente in Vietnam, Panama, Iraq, Yugoslavia, Afghanistan, e di nuovo in Iraq.

Centinaia di migliaia di lavoratori stranieri (di altri paesi di Africa e Asia) hanno dovuto fuggire dalla Libia, rimanendo senza lavoro e senza stipendio, con il quale contribuivano al mantenimento delle loro famiglie nei loro paesi di origine. L’economia della Libia è quasi paralizzata e le vittime civili dei “bombardamenti umanitari” sono numerose da entrambe le parti.

La costruzione a Tripoli di un nuovo quartiere di 25000 abitazioni è rimasta bloccata come conseguenza dell’aggressione.

Impossibile conciliare questi fatti con il preteso derechohumanismo di quelli che vogliono liberare la Libia da Gheddafi tramite internet o dai caffè di Parigi o di qualunque altra capitale Europea. Forse rimpiangono di non avere a disposizione anche loro i droni telecomandati degli yankee, per bombardare Gheddafi dal living di casa.

L’imminente genocidio della popolazione di Bengasi con il quale si è preteso giustificare l’inizio dei bombardamenti (di fatto l’aviazione anglofrancese si è convertita nella forza aerea di una delle parti di una guerra civile) è un argomento simile a quello delle “armi di distruzione di massa” in possesso di Saddam Hussein per giustificare l’aggressione all’Iraq.

Per la Royal Air Force non è la prima volta. Nell’ottobre del 1944, quando i tedeschi si stavano ritirando dalla Grecia, i comunisti greci e i loro alleati (l’ELAS), la forza più importante della resistenza contro l’occupazione nazista, controllavano Atene e potevano formare un governo. Il primo ministro inglese Churchill ordinò allora lo sbarco delle truppe britanniche in Grecia e il bombardamento da parte della RAF dei quartieri popolari di Atene per impedire l’accesso dei comunisti al potere. Il risultato fu che in Grecia si ristabilì la monarchia e si formò un governo di centro-destra.

Nel luglio 1956 il presidente dell’Egitto Gamal Abdel Nasser nazionalizzò il Canale di Suez. Nell’ottobre dello stesso anno Gran Bretagna (governo conservatore di Anthony Eden), Francia (governo socialista di Guy Mollet) e Israele (governo di Ben Gurion) aggredirono militarmente l’Egitto con il proposito di impadronirsi del Canale di Suez, ma, senza l’appoggio degli Stati Uniti, fallirono nell’intento.

V. I fatti sono così: ostinati.

Ma i teorici di sinistra con il ruolo di sostenitori dei diritti umani delle grandi potenze sostengono senza batter ciglio che i fatti confermano il loro punto di vista. E che quelli che chiudono gli occhi davanti alla realtà sono gli altri (sinistrorsi anacronistici “incollati ad antichi cliché”): “Bisogna andare contro la realtà, in altro modo la realtà si trasforma in un incubo molesto e la cosa migliore è opporvisi” (Abel Samir, “Siamo sicuri che sia il greggio, quello che ha spinto Obama alla guerra contro Gheddafi?”, Argenpress, 23 giugno).

Samir, in un articolo pubblicato il 13 giugno, già aveva scritto quello che segue:

“E questi di sinistra si sono costituiti in una pleiade di individui, partiti, organizzazioni, giornali, pagine internet, intossicati di slogan, cliché e dichiarazioni ampollose contro l’Impero nordamericano e i suoi alleati, senza considerare che questo impero in alcuni casi lotta in difesa dei diritti umani, anche se non lo fa per credo, ma per altri interessi nascosti, come il dominio geopolitico di una zona del mondo o la difesa della sua stessa posizione predominante in una zona nella quale ha dominato per molti decenni”.

Per giungere a questa conclusione, Samir, oltre a decretare, come fa, l’invalidità dell’analisi leninista dell’imperialismo nel secolo XXI, dovrebbe dimostrare che l’impero in alcuni casi agisce in difesa dei diritti umani. Non lo può fare. Di contro è facile dimostrare che l’imperialismo, yankee o altro, agisce SEMPRE contro i diritti umani, sia complottando contro e/o rovesciando governi progressisti o appoggiando dittature quando convenga ai suoi interessi.

Loro stessi lo dichiarano: gli Stati Uniti non hanno amici, hanno interessi.

Alcuni esempi di interventi imperialisti:

Intervento della CIA nel colpo di stato del 1953 in Iran contro il governo Mossadegh, che aveva nazionalizzato il petrolio; invasione del Guatemala nel 1954 tramite una forza armata promossa e finanziata dalla CIA e dalla United Fruit; invasione di Santo Domingo nel 1965; colpo di stato in Cile nel 1973; invasione di Granada nel 1983; invasione di Panama nel 1989; espulsione di Aristide da Haiti nel 2004 mediante azione congiunta di Stati Uniti e Francia. In Africa, nel momento della decolonizzazione sorsero leader come Patrice Lumumba, Kwame Nkrumah, Amilcar Cabral e Jomo Kenyatta, che lottarono per una via indipendente per i loro popoli, contraria agli interessi delle ex colonizzatrici e delle loro grandi imprese. Tutti loro furono rovesciati o assassinati, come Lumumba e Cabral, e rimpiazzati con dirigenti dittatoriali, corrotti e fedeli alle grandi potenze neocolonialiste.

L’imperialismo aggressore e depredatore è la fase attuale che caratterizza il capitalismo nel suo insieme (quello che alcuni chiamano mondializzazione) e i suoi usufruttuari lo difendono con le unghie e i denti senza nessuna preoccupazione per i diritti umani dei loro propri popoli e meno ancora i diritti umani dei popoli altri.

Samir, nel suo articolo del 23 giugno, si dedica a “sviscerare la struttura economica e politica nella quale si sviluppano gli Usa”… “Allora, la classe dominante dell’Impero è raggruppata fondamentalmente in due partiti politici: i democratici e i repubblicani. Questi ultimi rappresentano gli interessi più reazionari di questo grande paese. Tra le sue file spiccano i proprietari delle grandi imprese petrolifere nordamericane, i rappresentanti politici di questi capitalisti o consorzi economici convertiti in imprese multinazionali o transnazionali. Specialmente le grandi imprese petrolifere. Quindi, se impadronirsi delle ricchezze petrolifere della Libia fosse stata la motivazione fondamentale per la partecipazione degli Usa nella guerra civile libica, al lato dei ribelli, questo partito repubblicano sarebbe, come è logico, il più interessato che gli USA si inserissero nella guerra e la vincessero il più tardi possibile”…

Sicuramente il ruolo del capitale industriale si è considerevolmente rinforzato durante l’amministrazione Bush, soprattutto quello delle industrie petrolifere e di armamenti. Nel governo Bush erano ampiamente rappresentate entrambe le industrie.

Con Obama il capitale finanziario ha recuperato il primato, ma ciò non autorizza a dire che ci siano interessi o strategie contradditori tra repubblicani e democratici, come non c’è contraddizione di fondo tra capitale industriale e capitale finanziario, poiché la fusione tra i due caratterizza la tappa imperialista del capitalismo e il sorgere delle imprese transnazionali, come già segnalato da Hilferding nel 1910 (Il capitale finanziario) e Lenin nel 1916 (L’imperialismo, fase suprema del capitalismo). Non bisogna dimenticare che con Obama il bilancio preventivo per le spese militari degli Stati Uniti ha continuato e continua ad aumentare.

Per cui non ha alcun senso sostenere che i repubblicani sono i falchi reazionari rappresentanti politici dei capitalisti e dei consorzi transnazionali e  i democratici le colombe che difendono i diritti umani. Vale la pena rammentare che l’invasione di Bahia de Cochinos avvenne durante il governo democratico di Kennedy e che Clinton, anch’egli democratico, governava questo “grande paese” – come lo chiama Samir – quando gli USA promossero il colpo di Stato ad Haiti nel 1991, fece scatenare la guerra contro la Yugoslavia (Madeleine Albright, rappresentante di Clinton, fu quella che mandò a monte i negoziati di Rambouillet tra la Yugoslavia e l’Unione Europea) e iniziò la Guerra del Golfo.

Con il democratico Obama è cambiata la forma ma non la sostanza di questo tipo di operazioni. Il golpe in Honduras del 2009 fu criticato dal governo statunitense, che appoggiò le decisioni degli organismi internazionali (ONU e OEA) esigendo il ritorno del presidente in carica. Ma è incontestabile che senza il lasciapassare degli Stati Uniti il golpe non avrebbe avuto luogo, visto che detto paese ha il controllo delle forze armate dell’Honduras attraverso la sua base militare di Soto Cano, essenziale per la geopolitica sottoregionale degli stati uniti: da lì forniva appoggio logistico ai contras del Nicaragua durante il governo sandinista.

Samir sostiene che nel Congresso l’opposizione a continuare la guerra contro la Libia di una maggioranza di repubblicani e democratici si deve al fatto che considerano che non ci siano interessi statunitensi in gioco (solo propositi umanitari). Samir dimentica due cose: le prima è che negli Usa sono prossime le elezioni  e i congressisti dovranno presentarsi davanti agli elettori e rendere conto anche di questa guerra, impopolare nonostante la scarsa partecipazione yankee. La seconda è che gli Usa rischiano l’insolvenza, con un debito di 15 miliardi di dollari.

È per questo che Obama, dopo aver lanciato un centinaio di missili Tomahawk sopra la Libia, a quanto pare con uranio impoverito, ha lasciato il carico principale dell’aggressione al suo alleato Cameron e al suo cagnolino Sarkozy “l’americano”, che ha fatto il calcolo sbagliato pensando che un blitzkrieg contro Gheddafi lo avrebbe fatto risalire nei sondaggi di opinione in vista delle prossime elezioni.

Samir scrive: “Quindi non sono mancati quelli che si chiedevano perché gli USA e la NATO non intervenissero anche in Arabia Saudita, Yemen, Siria e altrove. Di certo, gli USA e la NATO, sommersi fino al collo nel fango di Iraq e Afghanistan, non sono in condizione di infilarsi in altri pantani, a parte quello dell’intervento in Libia”.

Samir in parte ha ragione: gli imperialisti sono – dio sia lodato – impantanati.

Ma se non intervengono in Bahrein, Yemen e Arabia Saudita è perché si tratta di dittature amiche. In Bahrein è stanziata la Quinta Flotta della Marina yankee. L’Arabia Saudita, amica di sempre degli Stati Uniti, in marzo ha inviato truppe nel Bahrein per porre fine alle manifestazioni della maggioranza sciita.

Samir afferma: “I confronti armati tra le potenze che enunciò Lenin non avvengono più e si cerca l’integrazione degli stati in grandi entità di paesi in relazione tra loro secondo il modello della loro economia e, ovviamente, politicamente uniti, come la UE. Agli USA oggi non interessa altro che mantenere la supremazia, con l’interesse di dominare la politica mondiale e mantenere così, inoltre, sviluppo e progresso tecnologici ed economici di punta. Il confronto armato in questo modo sarebbe fuori luogo. Così oggi possiamo vedere che nel mondo ci sono quattro grandi formazioni di stati che si fanno largo nell’area politica ed economica, che non solo si rispettano le une con le altre, ma partecipano in qualche modo ai vantaggi del sistema capitalista”.

Le grandi potenze sarebbero in competizione rispettosa tra loro per mantenere supremazia e “sviluppo e progresso tecnologici ed economici di punta”, partecipando tutte “nei vantaggi del sistema capitalista”. Indubbiamente il capitalismo ha i suoi vantaggi… per quelli che si trovano sulla cuspide della piramide sociale.

Samir non si è reso conto che dalla fine della Seconda Guerra Mondiale sono morte 30 milioni di persone nei conflitti armati, o in guerre colonialiste intraprese direttamente dalle grandi potenze o in conflitti interimperialisti per il controllo delle risorse naturali dei paesi poveri, sotto forma di guerre locali. Secondo la rivista medica inglese The Lancet di gennaio 2006, solo nella Repubblica Democratica del Congo dieci anni di guerra civile sono costati la vita a milioni di persone (tra 3,5 e 4,5). Il Congo ha la disgrazia di possedere un sottosuolo enormemente ricco di materiali strategici. In Rwanda i genocidi di 800.000 persone furono consentiti dall’esercito francese in ritirata (Operazione Turquoise). Un gruppo di ricercatori dell’Università Brown ha appena pubblicato una valutazione del costo finanziario e umano delle guerre intraprese dagli Stati Uniti dal 2001 in Iraq, Afghanistan e Pakistan. Calcolano il numero di morti in azioni militari in 225.000, i dispersi in 8 milioni e il costo finanziario in qualcosa di più di due miliardi di dollari (vedere http://costsofwar.org/).

Samir aggiunge: “Quelli che considerano che la guerra oggi è il modo per fare buoni affari non sanno di cosa stanno parlando”.

Contrariamente a quello che afferma Samir, la guerra è un’opzione ricorrente del capitale monopolistico nei momenti di crisi economica, perché è un modo di riattivare la produzione industriale senza necessità di riattivare la domanda (lo Stato compra la produzione degli armamenti con i soldi dei contribuenti senza consultarli e la popolazione del nemico scelto “consuma”, certo involontariamente, le bombe che riceve sulla testa).  Dopo la guerra, i grandi monopoli dell’industria civile si accaparrano l’affare della ricostruzione e degli “aiuti umanitari”.

Nel suo libro Capitalismo, Socialismo e Democrazia (1942) [1], l’economista Joseph Schumpeter affermava che “il capitalismo per sua natura è una forma o metodo di cambio economico”, di sostituzione del vecchio per il nuovo, che denominava “distruzione creativa” (nuovi consumatori, nuovi beni, nuovi metodi di produzione o trasporto, nuovi mercati, nuove forme di organizzazione industriale, ecc.). La guerra sarebbe la forma più drastica di “distruzione creativa” in seno al capitalismo.

Inoltre, l’industria degli armamenti è sempre interessata a collocare la sua produzione, a provare i suoi prodotti in condizioni reali (Guerra del Golfo, Yugoslavia, Afghanistan, aggressione all’Iraq, a Gaza, alla Libia…) e ad ampliare il suo mercato, per esempio tramite l’incorporazione di nuovi paesi alla NATO: il presidente del “comitato americano per l’ampliamento della NATO” è il vicepresidente della Lockeed Martin, impresa che occupa il secondo posto tra i più grandi fabbricanti e venditori di armamenti mondiali.

Secondo la relazione annuale dell’anno 2010 dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), nel 2009 le spese militari nel mondo sono salite a un miliardo e 531 mila milioni di dollari, il 6% in più del 2008 e il 49 per cento in più del 2000. La spesa militare del 2009 ha rappresentato il 2,7% del PIL mondiale dello stesso anno.

Sempre secondo il SIPRI nel 2008 si sono vendute armi nel mondo per 384 mila milioni di dollari, di cui 352 mila milioni, cioè il 90%, furono vendite effettuate da imprese degli Stati Uniti (230 mila milioni) e dall’Europa Occidentale (122 mila milioni).

VI. Samir sottoscrive la teoria – contraria alla realtà dei fatti – della denazionalizzazione del potere economico transnazionale e dell’emergenza di una sola classe dirigente mondializzata: “È molto difficile oggi sapere con esattezza a chi appartengano le grandi imprese multinazionali, essendo tante volte, come indica la loro stessa denominazione, capitali di molti paesi o di capitalisti di differenti nazioni e non sempre di un solo paese. Imprese che sembrano inglesi hanno capitali tedeschi, italiani, turchi, cinesi, giapponesi ecc… E così succede nella maggior parte delle imprese transnazionali. Il capitale oggi è più internazionale che mai. Perciò si dividono interessi di tutti i tipi, perché l’unica cosa che muove questi capitalisti è fare buoni affari e guadagnare il massimo possibile”.

Le classi dirigenti su scala mondiale convergono con l’obiettivo strategico principale di preservare il sistema, e allo stesso tempo competono ferocemente tra loro.

Le relazioni tra le società transnazionali sono una combinazione di guerra implacabile per il controllo dei mercati o di zone di influenza, di assorbimenti o acquisizioni forzate o consentite, di fusioni o accordi e dell’intento perenne ma mai conseguito di stabilire regole private e volontarie di gioco leale tra loro. Perché la vera legge suprema delle relazioni tra le società transnazionali è “divorare o essere divorate”.

Le società transnazionali sono versatili e poliedriche e cambiano nome frequentemente. Questo succede sia come risultato di fusioni o, anche se continuano a essere le stesse società, come un modo di tentare di farsi dimenticare dal pubblico dopo aver acquisito una cattiva reputazione a causa dell’intervento in crimini finanziari o economici o in gravi violazioni ai diritti umani.

Ma le fusioni, le delocalizzazioni e i cambi di nome non significano che le società transnazionali si siano convertite in enti virtuali e irreprensibili. Di sicuro la loro immagine si è via via depersonalizzata dal momento in cui si sono costituite come società anonime, rispetto all’epoca in cui un monopolio si identificava con un nome proprio (Rockfeller, Mellon, ecc.). Ma non c’è dubbio che anche oggi abbiano componenti reali e tangibili: capitale, sede legale, dirigenti responsabili, ecc.

Prova aggiuntiva alla loro esistenza, determinabile in coordinate spazio-temporali, è la loro presente influenza in organismi e meeting internazionali, con il ruolo determinante che esercitano negli orientamenti degli organismi finanziari internazionali e nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, attraverso i rappresentanti delle grandi potenze e delle loro equipe di giuristi ed economisti, e nell’influenza che esercitano negli orientamenti economico-finanziari e nella politica generale di quasi tutti gli stati del pianeta. La loro esistenza reale e tangibile si manifesta anche nel monopolio quasi totale che detengono sui mezzi di comunicazione di massa.

Possono avere sede in uno o più paesi: nella sede reale dell’entità madre, in quello degli impianti principali delle attività e/o nel paese dove la società è stata registrata, ma si può sempre identificare una nazionalità della società transnazionale, nel senso che c’è uno stato che la sostiene e difende i suoi interessi di fronte ad altri stati con mezzi politici, militari o altri.

E difende anche i suoi interessi negli organismi intergovernativi come l’Organizzazione Mondiale del Commercio, Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale.

Il dato complementare che conferma la BASE NAZIONALE DELLE IMPRESE TRANSNAZIONALI: la crisi finanziaria ha mostrato come i governi delle grandi potenze abbiano destinato centinaia di migliaia di milioni di dollari per SALVARE LE PROPRIE BANCHE E NON QUELLE DEI VICINI.

Lenin continua ad avere, nei suoi punti essenziali, attualità assoluta.

Scriveva nel 1916: “Il capitalismo si è trasformato in un sistema universale di oppressione coloniale e di strangolamento finanziario della stragrande maggioranza della popolazione del pianeta da parte di un pugno di paesi “avanzati”. Questo “bottino” viene ripartito tra due o tre potenze rapaci di potere mondiale, armate fino ai denti (Stati Uniti, Inghilterra, Giappone) che, per dividerlo, trascinano tutto il mondo alla guerra”. (L’imperialismo, fase suprema del capitalismo. Prologo all’edizione francese e tedesca del luglio 1920, par. II).

VII. Conclusione

La violazione dei diritti umani delle persone e dei popoli è inerente al capitalismo nella sua fase imperialista. Come regola generale, le dittature sono sostenute e persino promosse dalle potenze imperialiste. E quando i popoli vogliono intraprendere il cammino della loro liberazione nazionale e sociale, le grandi potenze, che vedono minacciati i loro interessi e quelli dei capitali monopolistici che rappresentano, li aggrediscono con tutti i mezzi. Sono i fatti a provarlo. Di modo che l’asse fondamentale della solidarietà internazionale con i popoli che lottano per i loro diritti e libertà deve essere la lotta contro il capitalismo imperialista, nemico comune di tutta l’umanità. Rifiutando la trappola ideologica dell’imperialismo “umanitario”.

(Traduzione di Sara Ceratto)

[1] Etas, 2001

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Gian Pio Mattogno, La non-umanità dei gojim nel Talmud e nella letteratura rabbinica

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Gian Pio Mattogno

La non-umanità dei gojim nel Talmud e nella letteratura rabbinica

Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2011, pp. 152, € 20,00

ISBN 978-88-904736-8-5

 

Eventi geopolitici quali l’emigrazione sionista nel territorio palestinese e la proclamazione dello Judenstaat preconizzato da Theodor Herzl sono stati sorretti, sul piano ideologico, da dottrine di diversa matrice. È noto che nel progetto sionista confluirono sia un nazionalismo ebraico contiguo alla dottrina colonialista del „fardello dell’uomo bianco“, sia quell’orientamento „socialista“ che suscitò inizialmente il sostegno politico, diplomatico e militare delle „democrazie popolari“ e non ha mai cessato di attirare le simpatie di molti marxisti europei.

Tuttavia la natura più profonda del sionismo affonda le sue radici nella cultura religiosa del giudaismo, quella cultura che per secoli è stata custodita dalla letteratura rabbinica (Talmud, Tosefta, Midrash, Zohar). Tale letteratura contiene una quantità di prescrizioni ostili ai gojim (i non ebrei), descritti come idolatri spregevoli, dissoluti, empi ed impuri, che è lecito e doveroso discriminare, ingannare, derubare e perfino asservire e annientare.

La ricerca di Gian Pio Mattogno, che prende in esame tutti i passi contenenti prescrizioni di questo genere, è suddivisa in tre capitoli (I. La non umanità dei gojim nel Talmud e nel Midrash; II. La non umanità dei gojim nello Zohar e nei commentari rabbinici; III. La donna non ebrea nella letteratura rabbinica) e tre Excursus (I. I fondamenti teologici del giudaismo e il non ebreo; II. Il significato di “uomo” (adam) nella Bibbia e nella letteratura rabbinica; III. La dottrina ebraica dell’anima e il non ebreo).

Di Gian Pio Mattogno le Edizioni all’insegna del Veltro hanno pubblicato anche L’imperialismo ebraico nelle fonti della tradizione rabbinica.

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Finale di partita

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Fonte: “CPE

 

E’ ormai palese a chiunque che il ciclo storico che si era iniziato con la liquidazione della classe dirigente che aveva retto le sorti del Paese negli anni del bipolarismo si sta per compiere definitivamente. Svenduta gran parte del patrimonio pubblico, consegnato il Paese a banche e ad istituti finanziari italiani e stranieri (se negli anni Novanta il debito pubblico italiano era ancora nelle mani delle famiglie italiane, nel 2010 queste ultime ne possedevano solo il 9,58%, contro il 44,27% allocato all’estero) (1), americanizzato il sistema educativo, penalizzato in ogni modo lo Stato sociale a vantaggio dello Stato assistenziale (cioè a vantaggio di lobbies e gruppi d’interesse vari), integrati del tutto, una volta abolita la leva, i vertici delle Forze armate nella Nato, persa la sovranità monetaria con la creazione di Eurolandia, senza alcuna reale contropartita, se non quella di contribuire al fallimento politico dell’Unione europea, non rimane che privatizzare le ultime imprese strategiche della Nazione: Eni, Enel e Finmeccanica, in particolare. Il “sonnifero” Berlusconi, sotto questo profilo, ha funzionato benissimo: gli italiani dopo essersi divisi tra sudditi di destra e sudditi di sinistra, potranno finalmente essere “unicamente” sudditi del mercato, mettendo da parte vecchi e nuovi rancori, ed essere tutti debitori, tranne i “soliti noti”, ossia quelli – per capirsi – che sono soliti trarre profitto dall’Italia dell’otto settembre permanente. 

Tuttavia, è innegabile che la cosiddetta “casta” offra la corda a chi la vuole impiccare, così come la offriva il ceto politico di tangentopoli: vere erano le tangenti, veri sono i privilegi ignominiosi della “casta”; ma è vero pure che la terapia proposta dai “soliti noti” è peggio del male (reale) che si dovrebbe curare. Vent’anni di privatizzazioni hanno portato il Paese sull’orlo del baratro e chi avesse tempo potrebbe leggere l’incredibile quantità di sciocchezze pubblicate, negli anni Ottanta e Novanta, dalla grande stampa italiana (in specie dal Corsera e da Repubblica) sui “vizi pubblici” e le “virtù private”, nonché sulle magnifiche e progressive sorti del “libero mercato” angloamericano, per rendersi conto a che cosa in realtà mirano coloro che pretendono di voler risanare il Paese. Allora però a complicare le cose scese in campo il Cavaliere, naturalmente allo scopo di difendere i propri interessi, ma ostacolando così il completo smantellamento del nostro apparato strategico, non fosse altro perché troppo impegnato a prendersi cura del proprio patrimonio e della propria persona, dentro e fuori le aule dei tribunali, tanto che non sembrava infondata l’ipotesi che certi “ambienti” sia cattolici sia del “vecchio” ceto politico, democristiano e socialista, potessero usare il Cavaliere come uno scudo, ovvero (anche) allo scopo di impedire la totale subordinazione dell’Italia ad interessi stranieri. Una ipotesi confermata, secondo alcuni, dagli accordi con Putin e con Gheddafi, in quanto segno di una politica estera tale da poter implementare programmi strategici di medio-lungo periodo, smarcando (benché, per così dire, soltanto “in potenza”) l’Italia da una “alleanza” che, dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica, si è ridotta, inevitabilmente, ad essere mero rapporto tra Paese dominante e Paese dominato. Nel giro però di pochissimo tempo tutto è finito: con la ignobile partecipazione all’intervento militare della Nato contro la Libia, è evidente che il Cavaliere ormai pensa soltanto a salvarsi tirando i remi in barca (di lusso), dopo aver letteralmente “sputtanato” il Bel Paese, avendo un comportamento con il “gentil sesso” che si addice più ad un fenomeno da baraccone che non ad un Presidente del Consiglio. Danno gravissimo però non tanto questo, al di là di facili battute, quanto piuttosto la perdita “secca” di peso sulla scena internazionale, che, sommata alla politica antinazionale dell’oligarchia atlantista (gli Amato, i Prodi, i Ciampi, i Draghi, i Montezemolo, i De Benedetti, i D’Alema, i Fini, i Casini e tutti gli altri “nostri bravi ragazzi” in doppiopetto a stelle e strisce) ed alla incapacità dei governi del Cavaliere di porre un argine all’indebitamento del Paese, dopo l’entrata in Eurolandia, fa sì che la Penisola sia alla mercé di potenze e potentati economici stranieri e delle loro quinte colonne. Nessuna manovra, come anche gli italiani più sprovveduti o meno attenti hanno intuito, potrà infatti evitare che la speculazione e le agenzie di rating facciano lievitare i tassi d’interesse sul debito, costringendo il Paese a fare ciò che i “mercati” hanno deciso che il Paese debba fare (”perfetta logica” della democrazia di mercato). E il fatto che vi possano essere anche più “soggetti” in competizione tra di loro per spartirsi la torta, o meglio quel che rimane (ma non è poco) della torta tricolore, non solo non smentisce che il “libero mercato” pare una libera volpe (quasi sempre “English speaking”) in un libero pollaio, ma rende ancora più difficile trovare una soluzione, ammesso che vi sia qualcuno che la voglia trovare.

 

D’altra parte, non è solo questione di finanza ed economia, ma di lacune strutturali che, da un lato, non hanno permesso di fare le riforme necessarie (a partire da quella della pubblica amministrazione, vera e propria vacca da mungere per alcuni gruppi sociali, assai ben organizzati, che, come si era già compreso negli anni Settanta, contribuiscono in modo determinante allo “sfascio” del Welfare) per rendere “produttiva” la spesa pubblica e migliorare la qualità dei servizi fondamentali (sanità, scuola etc.), onde rafforzare la coesione sociale e l’etica pubblica, notoriamente quasi del tutto assente nel nostro Paese. Dall’altro, hanno reso pressoché impossibile promuovere un sapere strategico per superare la incapacitante dicotomia sapere umanistico versus sapere tecnico-scientifico, di modo che si è rinunciato a formare le nuove generazioni secondo un punto di vista “nazionalpopolare”, ovvero tenendo conto sia della esigenza di modernizzare il sistema sociale, sia di quella di tutelare e valorizzare il più possibile la propria identità culturale e la propria storia, anche per non perdere l’effettiva capacità di “orientarsi” in un mondo in rapida e continua trasformazione, e non essere costretti a mutare direzione ogni volta che muta il vento della storia, con l’ingrato compito di fare i rappresentanti degli interessi dei padroni d’oltreoceano e/o dei loro “bravi”, come se fossero anche i propri (sotto questo aspetto, le recenti vicende della Libia sono più che istruttive). Ne è derivato un impoverimento politico e culturale, che si vorrebbe compensare con massicce iniezioni di “razionalità tecnomorfa”, quasi che oggettività fosse sinonimo di adeguatezza. Non stupisce allora che perfino il sociologo Luciano Gallino, dopo avere affermato che “se l’industria italiana ebbe negli anni Sessanta e Ottanta un notevole sviluppo e una importante affermazione, lo si deve al fatto che la scuola pubblica, attraverso gli istituti specifici, formava decine di migliaia di tecnici, di periti, di capi”, abbia precisato che oggi però “di sapere tecnologico e tecnico ce n’è già molto nella scuola [mentre ci sarebbe] bisogno di persone che, accanto a una ragionevole dose di specializzazione, [avessero] ampie competenze generali e strategiche per comprendere i grandi fenomeni del mondo in movimento. Ci sarebbe molto più bisogno di quanto non si creda di pensiero critico in tutti campi”. (2) Ma ai disastri combinati negli ultimi due decenni non si può porre rimedio in breve tempo, mentre il tempo del Paese pare essere veramente scaduto.

D’altronde, se si dovesse ritenere che queste considerazioni, in definitiva, non siano pertinenti, giacché i problemi da risolvere sono essenzialmente di natura economica, ci si lasciarebbe sfugggire che è proprio la debolezza strategica del nostro sistema che rende possibile un attacco contro l’Italia, senza correre eccessivi rischi, dacché, nonostante tutto, vi sarebbero ancora molte “carte” da giocare, se alla guida del Paese vi fosse una classe dirigente degna di questo nome ed una opinione pubblica ben informata e capace di valutare con cognizione di causa qual è l’interesse nazionale, senza pregiudizi ideologici, ma anche senza rinunciare a (ri)definire il Politico e l’Economico alla luce di una idea di bene comune intersoggettivamente condivisa. (Al riguardo, non si può non criticare il pregiudizio, tipico del nominalismo, secondo cui esistono solo gli individui. Basta aprire un qualsiasi libro di storia per comprendere, come insegna il filosofo francese Paul Ricoeur, che i singoli Paesi, ma anche entità come il Mediterraneo – si pensi, ad esempio, alle opere di Fernand Braudel – agiscono come “personaggi” di un racconto, sono cioè “entità seconde” – nel senso che non sono “riducibili” agli individui, pur se esistono solo in quanto esistono gli individui. Ed è naturale che per definire, su basi storiche e razionali, l’interesse nazionale si debba tener conto di questo “secondo” o, se si vuole, “emergente” livello di realtà).

Pertanto, occorre riconoscere che sono le condizioni generali del sistema italiano che impediscono a priori quel rinnovamento sociale e politico senza il quale è del tutto illusorio pensare di evitare il declino del Paese, anche se si riuscisse non a risolvere ma perlomeno a “gestire”, in qualche modo, la crisi economica. Di fatto, in politica vale, mutatis mutandis, quel che vale per le istituzioni militari; ossia sono tre i fattori che contano: preparazione tecnica e materiale, azione di comando e preparazione morale. E poiché in Italia difettano tutt’e tre, occorre prendere atto che non v’è alcun punto, se così è lecito esprimersi, su cui poter far leva per una autentica rifondazione della società e dello Stato. Del resto, i primi ad opporre resistenza ad un autentico e radicale rinnovamento sociale e politico sarebbero, con ogni probabilità, proprio i ceti medi (sebbene, paradossalmente, siano i ceti più “tartassati” e più bisognosi di riforme di struttura) dacché – oltre alla tradizionale idiosincrasia per la cultura (solo il 46,8% degli italiani “si accosta” ad un libro almeno una volta l’anno rispetto al 70% dei Paesi dell’Unione europea), alla propensione a premiare i furbi e punire i meritevoli, al pressappochismo ed a scambiare la (vuota) forma per la sostanza (non è il nostro Paese quello dei “dottori” e dell’ordine dei giornalisti?) – nell’arco di qualche decennio si è pure diffuso un modello di consumismo tra i più grossolani e volgari dell’Occidente, che ha ulteroriormente indebolito la coscienza civica, la memoria storica e la maturità intellettuale dei ceti medi italiani (né ciò è forse senza relazione con l’ondata pseudorivoluzionaria del ’68 italiano, dato che non è affatto un caso che gran parte dei sessantottini siano diventati i – peggiori o migliori, a seconda di chi giudica – consiglieri di Mammona). Sicché, è lecito ritenere che anche la parola d’ordine “sovranità” (politica, militare, culturale), per quanto condivisibile, rischi di essere nulla più di un “wishful thinking”, a meno che la storia di questi ultimi anni non generi essa stessa quel “contraccolpo” necessario per un radicale mutamento di paradigma, che non dovrebbe concernere solo l’Italia, bensì la stessa Europa. Non solo perché la questione della sovranità nazionale, volenti o nolenti, passa attraverso le istituzioni della Unione europea, ma perché il sistema italiano, per le ragioni sopraccitate, non può essere (o è assai poco probabile che possa essere) “ri-formato” dall’interno. Nondimeno, la crisi dell’euro – niente affatto di natura contingente ed al tempo stesso causa ed effetto di una trasformazione della Unione europea in una sorta di gigantesco supermercato, di gran lunga più utile alle banche cha non ai popoli europei – lascia pensare che la “vera crisi” sia ancora all’inizio, con quel che ne può conseguire sia per l’Europa che per l’Italia. Crisi di sistema, quindi, non intepretabile secondo un’ottica economicistica, tanto quella dell’Italia quanto quella della Unione europea. Ovviamente, si tratta di crisi indubbiamente diverse, ma non irrelate. Ciò non significa che possano essere gli europei a risolvere i problemi degli italiani – ché sarebbe ridicolo anche solo pensarlo – ma che si dovrebbe prestare attenzione soprattutto al modo in cui si può evolvere la “relazione” tra la crisi italiana e quella dell’Euro(pa), considerando questa stessa relazione in connessione con il passaggio, ancora in atto, da una fase storica tendenzialmente unipolare ad una che sembra essere multipolare, ma la cui configurazione non può non variare al variare della potenza (relativa) degli Usa. In questa prospettiva, certamente complessa, si gioca dunque un finale di partita che non potrebbe avere esito felice per il Paese, rebus sic stantibus. Questa non è una profezia, ma, lo si concederà, una semplice, anche se spiacevole, constatazione. Ciononostante, in politica le regole possono cambiare di punto in bianco – anzi, in un certo senso, sono le regole la vera posta in gioco – e non è azzardato ritenere che tanto più si ridurrà la potenza (relativa) degli Usa, ovverosia quanto minori saranno le possibilità degli Stati Uniti di realizzare il loro disegno di egemonia globale, tanto maggiori saranno le possibilità strategiche e operative di quei giocatori, non tutti di poca importanza, che, nell’attuale fase storica, potrebbero avere interesse a non rispettare più le regole del gioco. Non che si debba essere ottimisti, ché l’ottimismo, si sa, è l’oppio degli imbecilli; ma si dovrebbe evitare di farsi gabbare da chi, in buonafede o in malafede, pretende di vincere una partita che è irrimediabilmente persa. Ed essere invece consapevoli che la condizione necessaria per una soluzione, se non la soluzione, della crisi che attanaglia l’Italia (e non solo l’Italia) consiste, appunto, nel cambiare le regole del gioco, posto che anche l’attuale sistema sociale non è piovuto dal cielo, ma è l’effetto (benché non necessariamente quello voluto) di precise scelte strategiche.

 

Note

1)http://www.bancaditalia.it/statistiche/finpub/pimefp/2011/sb23_11/suppl_23_11.pdf

2)http://diversamentestrutturati.noblogs.org/post/2011/05/02/i-precari-e-linganno-della-flessibilita-luciano-gallino/

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Politica economica post-Mubarak: quale interpretazione?

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L’economia è da sempre il metro di giudizio per eccellenza nelle decisioni politiche e militari egiziane. Come sta reagendo l’economia egiziana alla fase post-Mubarak? Perché proprio in questa delicata fase sembra rinunciare agli aiuti del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale? Quali sono i possibili risvolti nel gioco degli equilibri tra la sponda atlantica e il Medio Oriente e Africa del Nord?

L’Egitto sta attraversando un momento di forte crisi economica: l’inflazione è salita al 12.1 % nel mese di aprile contro gli 11.5 % del mese di marzo, una recessione che era iniziata ben prima della crisi finanziaria mondiale e che è stata certamente il primo fattore a scatenare le note proteste di piazza Tahrir al Cairo: oltre 80 milioni di egiziani infatti vivono al di sotto della soglia di povertà dei 2$ giornalieri stabilita dalla Banca Mondiale. Dagli anni ’70 a oggi gli egiziani hanno visto calare drasticamente il proprio potere d’acquisto e il proprio standard di vita il che, sommato al crescente tasso di disoccupazione giovanile, ha creato una miscela esplosiva che ha costituito terreno fertile anche per il recente cambiamento politico del paese. Dalla spesa pubblica troppo onerosa dell’epoca socialista del rais Nasser si è passati ad un piano di privatizzazioni sproporzionato rispetto al minimo tasso di crescita economica e di sviluppo industriale a cui l’Egitto stava andando incontro. Alle privatizzazioni imposte dal Washington Consensus attraverso i piani di sviluppo economico della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale non seguirono piani per l’implementazione dei posti di lavoro, ma solo tagli e licenziamenti nel neo settore privato. Attraverso operazioni poco trasparenti, gli stessi che prima controllavano il settore economico pubblico egiziano hanno rilevato negli anni ’70 e ’80 le industrie pubbliche con cifre nettamente inferiori ai loro effettivi valori di mercato. In questo modo, se il fine iniziale del piano di privatizzazione era quello di creare concorrenza per far fermentare l’economia, il settore economico egiziano rimase invece nelle mani della medesima classe politica che prima gestiva quelle stesse industrie per conto dello stato. Una casta che da una parte si guardò bene dal diversificare l’economia e incentivare lo sviluppo attraverso una reale e leale concorrenza industriale, e dall’altra non si sentì in obbligo a garantire ai lavoratori le stesse condizioni contrattuali precedenti.

Il reale potere d’acquisto degli egiziani calava, ma il PIL saliva: una serie di scelte politico-strategiche favorevoli agli USA attuate nella regione dai governi Sadat e Mubarak furono “ripagate” con finanziamenti, accordi economici, riduzioni del debito pubblico, ecc. e perfino “rimborsi” (come quello per l’alleanza egiziana agli USA nella Guerra del Golfo del 2003). Il risultato apparente era quello di un’economia in crescita, ma più che mai dipendente dagli aiuti esteri e condizionata dalle imposizioni che accompagnano tali aiuti.

I costi della rivoluzione

Dalla fine di Gennaio le perdite per l’economia egiziana toccano i 113 miliardi di sterline egiziane (circa 19 miliardi di dollari). Il crollo avanzava con un ritmo in negativo di 40 milioni al giorno. Il turismo, gli scambi commerciali, così come le attività finanziarie e bancarie sono rimaste ferme per circa due mesi, a cui si sono aggiunti i numerosi scioperi dei lavoratori appartenenti ai settori danneggiati. I mercati hanno riaperto solo a fine marzo, ma i continui scioperi hanno fatto calare le esportazioni del 40% allontanando così gli investimenti esteri.
Tuttavia, a dispetto delle perdite, le infrastrutture e il settore agrario non sono state danneggiate seriamente e questo, secondo il ministro dell’economia egiziano Samir Radwan, potrebbe costituire la base per una ricrescita economica del paese.

Secondo i rapporti della Banca Mondiale il rischio maggiore per la ripresa economica rimane sempre l’instabilità politica e la mancanza di certezze per il futuro che allontanano ancora oggi gli investimenti stranieri nel mercato locale e bloccano la ripresa del settore turistico. La BM guarda dunque ad un nuovo governo democratico e trasparente come la condizione necessaria per una risalita e per il ritorno di investimenti privati nel paese.

I recenti sviluppi della politica economica egiziana

Proprio alla luce dello storico rapporto economico e politico tra Egitto e USA, sembrerebbe una scelta in contro tendenza quella dell’attuale ministro dell’economia egiziano Samir Radwan che ha recentemente rifiutato gli aiuti del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale. Trattative tra il Ministero dell’Economia egiziano e la BM risalivano già a maggio, quando Radwan aveva fatto richiesta di 2,2 miliardi di dollari per far fronte alle perdite economiche dei mesi precedenti, specie del settore terziario. Un primo ripensamento però si è creato a seguito dell’ultima tavola rotonda dell’Organizzazione Araba per il Lavoro, in occasione del quale il ministro egiziano ha sottolineato il necessario cambiamento di qualità nel criterio di distribuzione dei fondi, non più finalizzato ad ottenere una mera percentuale di crescita (così come era avvenuto fin’ora con i piani del FMI e della BM), ma diretto ad una reale partecipazione degli egiziani allo sviluppo economico.

Il nuovo governo transitorio sembrerebbe quindi voler avviare una certa autonomia economica rispetto ad eventuali condizionamenti esteri, abbandonando la politica degli aiuti. Il Direttore Generale del Fondo Monetario Arabo, Jassem al-Manee, ha poi fatto appello per un nuovo modello di sviluppo economico, focalizzato nei settori industriale ed agricolo attraverso il sostegno alle piccole e medie imprese, seguendo un modello che avrebbe già portato dei risultati positivi in Turchia e Malesia. In questa direzione sembrerebbero andare diverse recenti iniziative, tra le quali il sostegno alla creazione di 150 aziende che porterebbero ad un totale di 2.834 nuovi posti di lavoro.

Secondo stime della Camera del Commercio egiziana basterebbe un tasso annuale di crescita economica del 4,6% nel periodo 2011-2020 ad incoraggiare gli investimenti esteri diretti. Il ministro intende infatti ridurre il disavanzo del budget per il prossimo anno finanziario 2011/2012 da 170 miliardi di lire egiziane a ben 134,3 miliardi attraverso una maggiore apertura del mercato locale agli investimenti sia locali che stranieri, ma anche attraverso lo sviluppo del settore energetico, non più petrolifero, ma del gas. La crisi economica e la guerra in Libia hanno mostrato quanto mai la debolezza egiziana proprio rispetto al settore energetico, l’Egitto avrebbe un grande potenziale di gas e certamente l’attuale situazione geopolitica della regione giocherebbe a suo vantaggio qualora decidesse di investire massicciamente nel gas.

Il controllo USA nel MENA (Middle East and North Africa)

Tuttavia, a confutare ogni eventuale speranza di indipendenza è l’impegno USA nel cancellare entro i prossimi tre anni il 33% del debito egiziano (circa 3 miliardi di dollari) attraverso una serie di progetti di sviluppo e di investimenti ad alta intensità. L’amministrazione Obama ha diverse volte dichiarato di voler appoggiare la fase di transizione politica egiziana garantendo la continuità dei rapporti bilaterali Egitto-USA e ribadendo il ruolo dell’Egitto come partner arabo di eccellenza nelle relazioni USA in Medio Oriente e Nord Africa.

Il futuro panorama politico egiziano non è ancora molto chiaro, la cosiddetta primavera araba non ha ancora portato ad una vera rivoluzione, ma per il momento solo ad un regime change che ancora non ha portato ad un reale mutamento di struttura. Il protagonismo dei movimenti islamisti, primo fra tutti quello della Fratellanza Musulmana, preoccupa seriamente gli Stati Uniti che ancora non si sbilanciano circa eventuali rapporti con il movimento. Anzi, pur di mantenere lo status quo, il Segretario di Stato USA Hilary Clinton nella sua ultima visita al Cairo avvenuta a seguito della caduta di Hosni Mubarak, si rifiutò di incontrare il papa copto Shenuda III, preferendo una grave rottura diplomatica con il patriarca di Alessandria piuttosto che rischiare di attrarre le antipatie politiche delle forze islamiste. Non è possibile analizzare le relazioni internazionali del MENA singolarmente secondo un approccio realista o liberista. Il ruolo egiziano di partner USA nel MENA è insieme politico, militare ed economico, i delicati rapporti con Israele intrecciano sia le ambizioni militari che quelle economiche e la questione del gas ne è una conferma: l’impegno governativo nell’investire nel gas rafforzerebbe i rapporti commerciali tra Egitto, Israele e USA, Israele è infatti, insieme alla Giordania, uno dei principali clienti per il gas naturale egiziano, che costituisce circa il 40% del suo totale consumo di gas, ed ogni accordo tra i due stati avviene sotto il bene augurio della potenza statunitense che a sua volta concede altre agevolazioni e accordi all’alleato egiziano.

I continui sabotaggi ai gasdotti nel Sinai tuttavia, potrebbero mettere in seria difficoltà il governo di transizione così come un qualsiasi prossimo governo in carica: quello di luglio avvenuto ad est di al-Arish, a 50 km dal confine israeliano, è il quarto sabotaggio avvenuto dopo la deposizione dell’ex presidente Mubarak, i beduini (e non solo) che rivendicano gli attentati e i sabotaggi ai gasdotti condannano gli accordi di pace con Israele firmati dal presidente Sadat nel 1979 e premono affinché il governo prenda una posizione netta nei confronti dei rapporti con Israele. Una delle accuse formulate contro Mubarak era stata proprio quella di aver “servito” gli interessi USA e Israeliani piuttosto che quelli nazionali e arabi, con particolare riferimento alle posizioni governative circa l’ultima intifada a Gaza del 2008-2009. Continuare sulla stessa linea politica incondizionata di fedeltà all’alleato USA e quindi ad Israele potrebbe delegittimare qualsiasi futura forza politica al governo, ma allora fino a quando sarà possibile mantenere lo status quo? Questo è un azzardo che coinvolge in misure e modi differenti gli attori in questione: il governo di transizione non sembra voler modificare la linea economico-politica del precedente regime se non nella politica degli aiuti, e non sappiamo ancora se un futuro governo, guidato con molta probabilità da forze islamiste, vorrà seriamente prendere una posizione a riguardo.

Kawkab Tawfik è laureata in Lingue e Civiltà Orientali presso la Facoltà di Studi Orientali dell’Università La Sapienza di Roma. I suoi studi e le sue ricerche vertono soprattutto sul diritto musulmano e sulla politica egiziana.

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Statistiche Militari del Sudamerica e dell’Argentina

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Fonte: Geopolitica Argentina

La società argentina necessita inserirsi in un serio dibattito sulla difesa del proprio territorio, della popolazione e del suo patrimonio. La preponderanza di questa riflessione nazionale troverà nel presente lavoro gli strumenti d’analisi per fare i primi passi. Per tale ragione, questo studio contiene una base di dati per realizzare accuratamente confronti tra paesi, all’interno di un paese attraverso gli anni e tra di essi attraverso gli anni in ciò che viene definito Spesa Pubblica Militare, con l’inclusione di nozioni geografiche ed altre economiche di tipo comparativo.

In particolare cercheremo di dare una corretta presentazione (e messa a disposizione) dei dati più rilevanti, i quali accompagneremo con commenti che faciliteranno la loro interpretazione e lettura.

Presenteremo delle variabili per tutti i casi di questi dieci paesi sudamericani: Argentina, Brasile, Bolivia, Cile, Colombia, Ecuador, Paraguay, Perù, Uruguay e Venezuela; abbiamo anche compiuto dei calcoli per il blocco geografico e ora anche politico denominato UNASUR.

(traduzione di Vincenzo Paglione)

Scarica il testo integrale del Rapporto in formato pdf:

Estadísticas Militares Suramericanas

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Attentato ad Oslo: le riflessioni del Washington’s Blog

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Fonte:  Attilio Folliero/DM, Caracas 22/07/2011

Oggi, per la prima volta nella sua storia, la Norvegia è stata oggetto di attentati terroristici: nel centro di Oslo, a poca distanza dalla sede del governo, l’esplosione di un’auto imbottita di esplosivi ha provocato morti e feriti ed al momento si parla di sette morti; un altro attentato è avvenuto nell’isola di Utoya, a una cinquantina di km dalla capitale norvegese; in questa località c’è stata una sparatoria durante un raduno di giovani laburisti, partito del premier Jens Stoltenberg, che tra l’altro doveva partecipare a questa manifestazione; anche questo secondo attentato ha lasciato una scia di morti e feriti ed al momento si parla di una ventina di morti.

Ovviamente si sa ancora poco su questi attentati, anche se sembra certo l’arresto di un uomo bianco, di aspetto scandinavo, legato alla sparatoria sull’isola.

Il governo norvegese si è prontamente riunito in un luogo segreto ed ha deciso di sospendere, immaginiamo momentaneamente, gli accordi di Schengen e di ripristinare i controlli alle frontiere. Questi i fatti occorsi di cui si ha notizia, al momento in cui scriviamo.

Intanto, arriva la prima rivendicazione, da parte di un gruppo terroristico denominato “Ansar al-Jihad al-Alami”, che si attribuisce la paternità degli attentati in forum jihadista. In questa rivendicazione, tutta da verificare, l’attacco è posto in relazione alla presenza norvegese in Afghanistan ed alle vignette satiriche contro il profeta Maometto, pubblicate da una rivista danese e rilanciate in tutti i paesi scandinavi, Norvegia compresa. Dunque la paterinità di questi attentati sarebbe ancora una volta araba ed il web dei media ufficiali ha subito rilanciato, a livello mondiale, la matrice araba di questi attentati.

Ma si impone subito una riflessione, indipendetemente dall’arresto di uno dei presunti attentatori, un uomo bianco dalla fattezze scandinave. La nostra riflessione coincide più o meno con quella che riporta il Washington’s blog:

La Norvegia è tra i paesi che ha riconosciuto lo stato palestinese ed ha annunciato che nella prevista votazione all’ONU, a settembre si schiererà a favore della creazione di uno stato palestinese;

La Norvegia ha annunciato il suo ritiro dalla guerra di Libia;

La Norvegia, secondo fonte di Haaretz, lo scorso anno ha escluso, per ragioni etiche, due imprese isaeliane dalla partecipazione allo sfruttamento dei pozzi petroliferi del mar del nord;

Circa due anni fa, il senatore statunitense-ebreo Lieberman aveva accusato la Norvegia di promuovere l’antisemitismo

Tutto può essere, ma come fa notare il Washington’s Blos, la Norvegia non sembra proprio un paese che possa entrare nel mirino degli Arabi. Mentre i media ufficiali del mondo, ed ovviamnete anche quelli italiani, hanno subito rilanciato l’idea di una possibile matrice araba degli attentati, noi preferiamo riflettere sugli eventi e sulla storia.

Caracas 22/07/2011

Fonte:
http://dosmundos2026.blogspot.com/2011/07/attentato-ad-oslo-le-riflessioni-del.html

http://attiliofolliero.blogspot.com/2011/07/attentato-ad-oslo-le-riflessioni-del.html

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La prima intervista rilasciata da Seif El Islam Gheddafi a un giornale arabo

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Fonte : http://www.france-irak-actualite.com/article-interview-de-seif-el-islam-kadhafi-79546453.html

Rassegna stampa: El Khabar (Algéria – 10/7/11)*

La prima intervista rilasciata da Seif El Islam Gheddafi a un giornale arabo

RAMDANE BELAMRI

RAMDANE BELAMRI: Seif El Islam, iniziamo con l’argomento che sta maggiormente a cuore all’opinione pubblica internazionale: a che punto sono i negoziati con l’opposizione di Bengasi?

SEIF EL ISLAM GHEDDAFI: «In realtà, i veri negoziati sono con la Francia, non con i ribelli. Tramite un mediatore speciale che ha incontrato il presidente francese, abbiamo ricevuto un chiaro messaggio da Parigi. Il presidente francese ha detto molto schiettamente al nostro inviato che “siamo noi ad avere creato questo Consiglio e senza il sostegno, i capitali e le armi francesi, esso non esisterebbe neppure”. I gruppi ribelli ci hanno contattato attraverso canali egiziani. Li abbiamo incontrati al Cairo, dove si è tenuto un round di negoziati, ma non appena i francesi hanno avuto notizia di questo incontro hanno detto al gruppo di Bengasi: “Noi vi appoggiamo, ma se vi saranno altri contatti con Tripoli senza che ce ne informiate o alle nostre spalle interromperemo immediatamente ogni sostegno…”. Tutti i negoziati devono dunque svolgersi passando attraverso la Francia. Hanno anche aggiunto: “Noi non facciamo questa guerra per disinteresse e senza contropartita alcuna. In Libia abbiamo interessi commerciali precisi e il governo di transizione dovrà approvare vari contratti”. Si riferiscono ai contratti relativi agli aerei Rafale, ma anche ai contratti della Total».

 

Perché non avete divulgato all’opinione pubblica i documenti che dimostrano i finanziamenti alla campagna di Sarkozy?

«Beh, non utilizziamo tutte le carte a nostro favore in un colpo solo! Abbiamo più di un asso nella manica e lo utilizzeremo al momento opportuno».

A che punto sono le mediazioni internazionali? Qual è la situazione al momento, soprattutto dopo la visita del mediatore russo che ha preso atto della realtà dei fatti e dopo l’incontro tra il presidente della Nato e il presidente russo Medvedev, e ancora l’incontro di quest’ultimo con il presidente sudafricano Jacob Zuma, il mediatore della controparte?

«Prima di tutto vorrei fare alcune precisazioni: tutto la comunità internazionale si è fatta beffe di loro sulla stampa. Hanno mentito al mondo intero dichiarando che lo stato libico aveva ucciso migliaia di manifestanti e bombardato la popolazione civile. Il mondo oggi sa che si trattava soltanto di menzogne. L’organizzazione Human Rights Watch ha confermato che si trattava di informazioni fasulle. Anche Amnesty International ha dichiarato che si trattava di menzogne, e dal canto suo il Pentagono ha condotto un’inchiesta interna, giungendo anch’esso alla conclusione che si trattava  soltanto di menzogne».

Ritorniamo alle mediazioni internazionali: a che punto sono?

C’è una road map africana sulla quale concordano tutti. Noi vogliamo organizzare le elezioni e arrivare a un governo di unità nazionale. Siamo disposti a svolgere le elezioni sotto il controllo delle organizzazioni internazionali, e a varare una nuova Costituzione, ma i ribelli si rifiutano di accettare tutto ciò. Perché? Perché noi non abbiamo ancora trovato un accordo con Parigi».

A Sebha il colonnello Gheddafi venerdì ha parlato ai suoi sostenitori e ha minacciato di vendicarsi e di inviare kamikaze in Europa. Non temete di essere assimilati ai terroristi?

«Prima di tutto è nostro diritto attaccare gli stati che ci attaccano e che uccidono i nostri bambini. Hanno ammazzato il figlio di Muammar Gheddafi, ne hanno distrutto la casa e ucciso i famigliari. Non c’è una sola famiglia in Libia che non sia stata vittima degli attacchi della Nato. É per questo motivo che siamo in guerra: è stata la Nato a iniziare. Che ora se ne assuma le conseguenze».

Seif El Islam, si candiderà alle elezioni della futura Libia?

«Nel 2008 sono ufficialmente uscito dalla politica libica. Da allora e fino all’inizio della crisi ho vissuto lontano dal paese, in Cambogia… Sono tornato in Libia all’inizio di questi avvenimenti. Ero fuori dalla politica, ma dopo quanto è accaduto in Libia, ormai,  è tutto cambiato. Ora le cose stanno diversamente: abbiamo assistito a tradimenti, giochi di interesse e tentativi di colonizzazione. Non vedo perché non dovrei candidarmi. A questo punto ogni opzione è aperta».

Alcuni ipotizzano una spartizione della Libia. Il primo ministro inglese David Cameron ha già dichiarato che è necessario dividere il Sahara libico. Che cosa ne pensa?

«Sì, esiste un piano inglese per procedere alla spartizione della Libia. Tale piano prevede che l’ovest e il sud vadano alla Francia, l’est alla Gran Bretagna, e infine che a Tobruk sorga una base militare britannica. Tutto ciò non è certo un segreto, ma si tratta soltanto di velleità colonizzatrici che non si concretizzeranno».

Che cosa rappresenta per lei l’Algeria?

«In tutta sincerità, se lo chiede a un libico qualsiasi le risponderà che gli algerini sono molto simili ai libici. Purtroppo, come avrà sicuramente avuto modo di constatare, l’unico paese arabo preso di mira dai fuorilegge è proprio l’Algeria. Con gli algerini abbiamo qualcosa di preciso in comune:  loro hanno lottato contro la Francia in passato; noi lo stiamo facendo adesso… La mediazione dell’Algeria è ben accetta, in quanto essa ha sempre rivestito un ruolo unificante. Vorrei precisare che le posizioni dei paesi arabi sono vergognose, mentre l’Algeria è tra i pochi paesi arabi ad avere assunto una posizione completamente diversa. Il popolo libico non lo dimenticherà, mai, ed è per questo che la mediazione algerina è gradita ai fini della riconciliazione tra i fratelli libici».

Vuole aggiungere ancora qualcosa? Esprimere un’ultima idea?

«Vorrei che la comunità internazionale prestasse molta attenzione a quello che sta accadendo in Libia, dove è in corso una delle più grandi campagne di disinformazione e distorsione dei fatti. Gli europei e gli stessi americani hanno riconosciuto questa verità. I media hanno creato molti scandali, mai esistiti. Vogliamo rivolgerci alla comunità internazionale e metterla in guardia dalle immagini trasmesse dai canali satellitari e da Internet: sono fotomontaggi, sono montature. Uno di questi giorni la verità salterà fuori!».

Traduzione di Anna Bissanti

* http://fr.elkhabar.com/?L-Algerie-n-est-pas-un-peuple-de

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La contesa geopolitica sino – statunitense

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Che la prorompente ascesa di svariati paesi abbia assestato un duro colpo all’assetto mondiale incardinato sull’unipolarismo statunitense è un fatto che pochi oseranno contestare.

La resurrezione della Russia sotto l’autoritaria egida di Putin affiancata all’affermazione della Cina al rango di grande potenza costituiscono i due principali fattori destabilizzanti in grado di ridisegnare i rapporti di forza a livello internazionale.

Se la Russia, tuttavia, ha potuto contare sulla monumentale eredità sovietica, la Cina ha fatto registrare un progresso politico ed economico assolutamente straordinario.

Il lungimirante progetto di ristrutturazione messo a punto in passato da Deng Xiao Ping ha inoppugnabilmente svolto un ruolo cruciale nell’odierno riscatto cinese e tracciato un solco profondo entro il quale sono andati a collocarsi tutti i suoi successori, da Jang Zemin a Hu Jintao, passando per Jang Shangkun.

Come tutti i paesi soggetti a forte sviluppo economico, la Cina si trova a dover soddisfare una crescente seppur già esorbitante domanda di idrocarburi.

Per farlo, è costretta ad estendere la propria capacità di influenza ai paesi produttori Medio Oriente e a quelli dell’Africa orientale attraverso i territori dell’Asia centrale e le vie marittime che collegano il Golfo Persico al Mar Cinese Meridionale.

In vista di tale scopo, la diplomazia cinese ha escogitato una efficace strategia diplomatica imperniata sul principio della sussidiarietà internazionale e profuso enormi sforzi per dotarsi di un esercito capace di sostenere gli ambiziosi progetti egemonici ideati dal governo di Pechino.

L’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai – che raggruppa Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tajikistan, e Uzbekistan e che annovera Iran, Pakistan, India e Mongolia in qualità di osservatori – patrocinata dalla Cina ha promosso una partnership strategica tra i paesi aderenti ad essa atta a favorire un’integrazione continentale in grado di far ricadere cospicui vantaggi su tutto l’insieme.

In aggiunta, va sottolineato il fatto che è in fase di consolidamento l’asse Mosca – Pechino nello scambio tra armamenti e petrolio.

La Cina acquista gran parte delle proprie forze militari dalla Russia dietro congrui conguagli e costituisce il primo cliente per il mercato bellico russo.

Caldeggia la realizzazione di una pipeline che attinga dai giacimenti russi e faccia approdare petrolio ai terminali cinesi, trovando però l’opposizione della Russia, incapace di far fronte tanto alla domanda cinese quanto a quella europea.

In compenso, Mosca sostiene la realizzazione del cosiddetto “gasdotto della pace”, un corridoio energetico finalizzato a far affluire il gas iraniano in territorio cinese attraverso Pakistan ed India, in grado di orientare gli idrocarburi iraniani verso est e consentendo in tal modo alla Russia di assestarsi su una posizione assolutamente dominante ed incontrastata sul solo mercato europeo.

Ruggini vecchie e nuove hanno impedito la rapida realizzazione dei progetti in questione portando il governo di Pechino ad individuare soluzioni alternative.

Non a caso, uno dei grandi scenari in cui si gioca attualmente la partita tra gli Stati Uniti in declino ma decisi a vender cara la pelle e la rampante Cina in piena ascesa economica è l’Africa, che grazie alle sue immense risorse di idrocarburi (e materie prime) costituisce l’oggetto del desiderio tanto dell’una quanto dell’altra potenza.

La Storia insegna sia che la scoperta di giacimenti di idrocarburi nelle regioni povere costituisce il reale movente dei conflitti che vedono regolarmente fazioni opposte combattere aspramente, quasi sempre a danno della popolazione, per garantirsene il controllo sia che dietro di esse si celano direttamente o indirettamente quelle grandi potenze interessate ad estendere la propria egemonia geopolitica.

Sudan, Nigeria, Congo, Angola, Yemen, Myanmar (l’elenco è sterminato).

La penetrazione di Pechino in Africa è proceduta gradualmente, ma il consolidamento di essa è stato reso possibile solo grazie ai passi da gigante fatti registrare dalla marina cinese.

Dietro suggerimento dell’influente ammiraglio Liu Huaqing, il governo di Pechino aveva infatti sostenuto il progetto riguardante l’adozione di sottomarini classe Kilo e di incrociatori classe Sovremenniy, oltre al potenziamento dei sistemi di intelligence e delle tecnologie militari necessarie a supportare una flotta efficiente ed attrezzata di tutto punto per fronteggiare qualsiasi tipo di minaccia.

Il Primo Ministro Hu Jintao e suoi assistenti di governo hanno inoltre potuto approfittare della risoluzione ONU di fine 2008 finalizzata alla repressione della pirateria del Corno d’Africa per insinuare la propria flotta fino al Golfo Persico e al largo del litorale di Aden, don licenza di sconfinare in aperto Mediterraneo attraverso il Canale di Suez.

La pirateria, ben supportata dal caos politico che governa la Somalia, in questi ultimi anni ha esteso consistentemente il proprio raggio d’azione arrivando a lambire le coste dell’Indonesia e di Taiwan ad est e del Madagascar a sud.

Ciò ha effettivamente sortito forti ripercussioni sui traffici marittimi internazionali, portando circa un terzo delle cinquemila imbarcazioni commerciali che transitavano annualmente per quella via a propendere per il doppiaggio del Capo di Buona Speranza pur di evitare di imboccare il Canale di Suez.

Ciò ha comportato un dispendio maggiore di denaro dovuto alla dilatazione dei tempi di trasporto e rafforzato le ragioni della permanenza della flotta cinese lungo le rotte fondamentali.

Tuttavia l’opera di contrasto alla pirateria – sui cui manovratori e membri effettivi ben poca luce è stata fatta – si colloca in un piano del tutto secondario nell’agenda cinese, interessata prioritariamente ad assumere il controllo delle rotte marittime fondamentali e dei paesi che si su di esse si affacciano.

Di fondamentale importanza a tale riguardo risultano gli stretti di Malacca e Singapore, specialmente in forza della quantità di petrolio che vi transita, ben tre volte superiore a quella che transita attraverso il Canale di Suez.

Circa quattro quinti dei cargo petroliferi provenienti dal Golfo Persico destinati alla Cina passa per lo Stretto di Malacca, mentre gran parte di quelli diretti al Giappone passano per quello di Singapore.

E’ interessante notare come, di converso, gli Stati Uniti e i loro alleati abbiano agito pesantemente per destabilizzare i paesi che costituiscono l’asse portante della strategia cinese.

La secessione del Sudan del Sud dal governo centrale di Khartoum ha minato l’integrità della Repubblica del Sudan privandola dell’area ricca di petrolio e compromettendone gran parte degli introiti legati alle esportazioni.

Nel fomentamento dei dissidi si è intravista la mano pesante di Israele, che per ammissione dello stesso ex direttore dello Shin Bet Avi Dichter aveva sostenuto attivamente le forze indipendentiste del sud.

Un’operazione atta a privilegiare le etnie e le tribù meridionali invise alla preponderanza araba del resto del paese, che segna una logica soluzione di continuità rispetto alla classica strategia antiaraba propugnata da Tel Aviv, interessata costantemente a stringere legami con i paesi regionali non arabi.

Gli Stati Uniti, dal canto loro, avevano rifornito di aiuti i paesi limitrofi al Sudan affinché sovesciassero il governo centrale di Khartoum fin dall’era Clinton, mentre attualmente si sono “limitati” a stanziare corpose iniezioni di denaro a contractors privati incaricati di addestrare le frange secessioniste.

La Cina era il principale sponsor del presidente sudanese Omar Hassan El Bashir, con il quale erano stati regolarmente barattati tecnologie, armamenti e infrastrutture in cambio di petrolio.

Un altro paese fortemente destabilizzato in relazione alla sua posizione strategicamente cruciale è lo Yemen, cui gli Stati Uniti hanno richiesto con insistenza la concessione dell’isola di Socotra per installarvi una base militare che, se unita alla Quinta Flotta stanziata nel vicino Bahrein, formerebbe la principale forza militare dell’intero Golfo Persico.

L’isola si situa a metà strada tra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano ed occupa una posizione che coincide con il crocevia delle rotte commerciali che collegano il Mediterraneo, mediante il Canale di Suez, al Golfo di Aden e al Mar Cinese Meridionale.

Myanmar è stato invece oggetto di una vera e propria rivoluzione colorata, quella “color zafferano” che deve il suo nome al colore delle vesti indossate dai monaci buddhisti protagonisti delle rivolte antigovernative.

Non è un segreto che la giunta militare guidata dall’enigmatico generale Than Shwe si sia resa responsabile di efferatezze che la rendono difficilmente difendibile, ma siccome gli stati non hanno mai conformato il proprio operato alle tavole della legge morale non stupisce che il sostegno statunitense accordato alle frange rivoltose non abbia nulla a che vedere con la tutela dei diritti umani, ma risponda a ben precisi obiettivi geopolitici.

Il dominio degli stretti di Malacca e Singapore consente infatti di esercitare un controllo diretto sugli approvvigionamenti energetici destinati alla Cina.

La Cina ha però effettuato le proprie contromosse, fornendo il proprio appoggio politico all’isolato governo di Rangoon e raggiungendo con esso accordi commerciali e diplomatici di capitale importanza strategica.

Pechino ha rifornito la giunta militare al potere di armamenti e tecnologie militari, ha stanziato fondi sostanziosi per la costruzione di numerose infrastrutture come strade, ferrovie e ponti.

In cambio, ha ottenuto il diritto di sfruttare i ricchi giacimenti gasiferi presenti sui fondali delle acque territoriali ex birmane oltre a quello di dislocare le proprie truppe e di installare basi militari nel territorio del Myanmar.

Alla luce dei fatti, risulta che il Myanmar corrisponda a un segmento fondamentale del “filo di perle” concepito da Pechino, l’obiettivo strategico che prevede l’installazione di basi militari in tutti i paesi del sud – est asiatico che si affacciano sull’oceano indiano.

Tale obiettivo è oggettivamente favorito dall’evoluzione dei rapporti tra Pakistan e Stati Uniti, in evidente rotta di collisione.

Islamabad ha mal digerito tanto le accuse di connivenza con il terrorismo rivolte ai propri servizi segreti (ISI) quanto le sortite unilaterali compiute dai droni statunitensi in territorio pakistano e ha giocato sulla centralità mediatica di cui è stato oggetto il poco credibile blitz che avrebbe portato all’uccisione di Osama Bin Laden per esternare pubblicamente la propria ferma protesta nei confronti dell’atteggiamento di Washington, che ha a sua volta replicato aspramente per bocca del Segretario alla Difesa Robert Gates e poi  per il suo successore Leon Panetta.

Ciò ha spinto Pechino a scendere in campo al fianco del Pakistan, suscitando il plauso del Presidente Ali Zardari.

Tuttavia le relazioni tra Cina e Pakistan erano in fase di consolidamento da svariati mesi e hanno prodotto risultati letteralmente allettanti.

La realizzazione del porto sia civile che militare di Gwadar, dal quale è possibile dominare l’accesso al Golfo Persico,  è indubbiamente il più importante di essi.

Il progetto in questione comprende inoltre la costruzione di una raffineria e di una via di trasporto in grado di collegare lo Xinjiang al territorio pakistano.

Un valore aggiunto al porto di Gwadar  è già stato inoltre conferito dall’intesa raggiunta con Islamabad e il governo di Teheran relativa alla realizzazione di un corridoio energetico destinato a far approdare il gas iraniano ai terminali cinesi.

In tal modo  lo sbocco portuale di Gwadar promette di divenire una dei principali snodi commerciali per l’energia iraniana, attirando Teheran verso l’orbita cinese e consentendo quindi al governo di Pechino di inanellare un’ulteriore gemma alla propria “collana di perle”.

La chiara vocazione eurasiatica del progetto cinese ha ovviamente suscitato forti preoccupazioni presso Washington, che non mancherà di lastricare di mine la nuova “via della seta” finalizzata a compattare il Vicino e Medio Oriente all’Asia orientale e suscettibile di sortire forti contraccolpi sulla politica energetica europea, destinata a legarsi indissolubilmente alla Russia.

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UE: sfide e opportunità della Presidenza polacca

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Per la prima volta la Polonia ha assunto, a partire da luglio e per i prossimi sei mesi, la guida dell’Unione Europea: un momento storico che rappresenta l’opportunità per Varsavia di costruire le basi per un ruolo più influente a livello internazionale e per Bruxelles di trarre nuova linfa vitale da un Paese giovane, stabile e in rapido sviluppo. Il tempo a disposizione e l’effettivo peso della Polonia in ambito comunitario rischiano però di rendere questa sfida più difficile del previsto.

Coesione e crescita

L’ambizione della Presidenza polacca, così come esposto dal premier Tusk nelle scorse settimane, è quella di riuscire a ristabilire la fiducia nell’Unione Europea e nella necessità della sua esistenza, rafforzando il senso di appartenenza degli Stati membri e riscoprendo i valori fondanti l’integrazione. Il programma elaborato da Varsavia per il semestre in corso si apre, infatti, con la previsione di azioni volte a consolidare la coesione tra i Paesi membri, tramite l’elaborazione di strategie concordate in nome di un interesse comune europeo. In questo senso, è centrale per Varsavia diffondere una concezione dell’integrazione europea intesa come “fonte di crescita” e perseguire tale fine sia a livello di crescita economica, sia nel senso di un approfondimento della cooperazione tra gli Stati. La mancanza di una volontà politica condivisa, che operi in direzione di una crescita così duplicemente intesa, equivale, infatti, a un fattore di debolezza, capace di mettere a rischio non solo l’immagine dell’Unione Europea come entità appunto “unita”, ma anche e soprattutto il suo stesso futuro. La determinazione, il realismo e le idee chiare che la Polonia dimostra di avere su questi punti, unite all’entusiasmo europeista manifestato da Varsavia, fanno ben sperare in un cambio di rotta che dia un nuovo slancio all’Unione.

Un esempio di ciò è il fatto che, in base al programma presentato, Varsavia è decisa a far sentire la sua voce anche sul tema della libera circolazione delle persone, pilastro fondante l’Unione Europea, messo recentemente in discussione dalla decisione della Danimarca di sospendere il Trattato di Schengen, ripristinando i controlli doganali ai confini. A testimonianza dell’impegno polacco in favore di una maggior coesione all’interno dell’Unione Europea, il premier Tusk, commentando la notizia, ha ribadito la determinazione della Polonia, in quanto Presidente di turno, a opporsi a iniziative che, come quella di Copenaghen, consistano di fatto in passi indietro per Bruxelles.

 
La sicurezza come priorità

Una simile visione si basa sulla convinzione che l’Unione Europea abbia bisogno, per non retrocedere sulla via dell’integrazione, di ampliare i suoi campi di competenza e, dunque, di rilanciare quelle politiche sulle quali manca un consenso unanime. In questo contesto, la sfida che la Polonia si appresta ad affrontare è connessa, in particolare, alla necessità, espressa dalla stessa Varsavia, di creare una convergenza negli ambiti della politica estera e della difesa, nei quali, in effetti, la varietà di posizioni a cui si è assistito in occasione dei recenti eventi in Nord Africa, dimostra come, nonostante le previsioni del Trattato di Lisbona, in questi campi gli Stati membri preferiscano ancora decidere autonomamente. La priorità assegnata a queste questioni si spiega ricordando la storia, la collocazione geografica e il valore geopolitico di questo Paese: situata tra la Germania e la Russia, la Polonia ha vissuto tre spartizioni, sottomessa per gran parte della sua storia alla dominazione straniera, costretta a seguire modelli culturali e di sviluppo imposti dall’esterno, per poi, infine, ricostituire l’agognata unità nazionale. I segni di questo passato sono indelebili: i timori mai sopiti della Polonia in merito a eventuali ingerenze da parte di Mosca, ad esempio, sono tuttora all’origine degli sforzi di Varsavia finalizzati alla fondazione di una politica di difesa europea, che rappresenterebbe per questo Paese la garanzia di una maggiore sicurezza. Del resto, che questo sia un argomento che sta a cuore alla Polonia, è confermato dal fatto che Varsavia si sta muovendo, al fine di assicurare la difesa del Paese, in più di una direzione, segnatamente verso gli Stati Uniti, e allo stesso tempo verso l’Europa. Risalgono a poche settimane fa, infatti, gli accordi sottoscritti con Washington, inerenti la presenza militare statunitense sul territorio polacco, a testimonianza di un avvicinamento tra i due Paesi, in funzione di un contenimento preventivo di Mosca e dunque del potenziamento dell’area che corrisponde al confine orientale della Polonia e della Nato. Varsavia punta, però, anche alla realizzazione di un comando tattico-militare con i Paesi del gruppo di Visegrad, l’alleanza tra Polonia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca e Ungheria, stipulata nel 1991 in vista di un’adesione congiunta di tali Paesi all’Unione Europea. I progetti che, come questo, promuovono una maggiore cooperazione tra gli Stati membri, sebbene geograficamente circoscritta, consistono in passi in direzione della fondazione di una sicurezza di stampo europeo, che Bruxelles potrebbe valorizzare, anche in considerazione dell’influenza che, per sua stessa natura, la Polonia potrebbe esercitare in questo ambito. Il sostegno a queste iniziative lascerebbe, inoltre, meno spazio ad accordi che coinvolgano Paesi extra-comunitari e che quindi capaci di deviare gli interessi degli Stati membri verso una dimensione della sicurezza che non sia quella europea.

Le preoccupazioni della Polonia attengono inoltre alla sicurezza energetica, legata anch’essa alla volontà di svincolarsi da Mosca e di rendere l’Unione Europea energeticamente indipendente dalla Russia, attraverso scelte comuni finalizzate a diversificare la provenienza degli approvvigionamenti e a garantirne l’affidabilità sui mercati internazionali. A questo proposito, vale solo la pena di accennare al progetto di sfruttamento del gas Shale, un tipo di gas naturale che per alcuni esperti costituisce la nuova frontiera nel campo dell’energia e che è presente in grande quantità sul territorio polacco. Se riuscirà a superare le resistenze delle correnti ambientaliste, allarmate per il rischio di inquinamento delle falde acquifere e dell’aria conseguenti alle operazioni di estrazione, la Polonia potrà davvero sperare in un’indipendenza energetica che avrà un significativo impatto sull’economia nazionale ed europea.

L’obiettivo di un’Europa solidale

La Presidenza polacca può apportare un significativo contributo in seno all’Unione Europea anche per quanto concerne la gestione delle difficoltà legate alla crisi economica. Non solo, infatti, può fungere da esempio per gli altri Paesi, in quanto le sue strutture economiche stanno affrontando la congiuntura negativa mondiale in maniera eccellente, ma soprattutto perché, anche in questo ambito, Varsavia sostiene la necessità di una maggiore coesione tra i vari partner. Infatti, di fronte alla riluttanza di chi si pronuncia in favore del ritorno alle economie nazionali, la Polonia difende la via di un sostegno congiunto agli Stati membri a rischio di bancarotta e si fa promotrice di un approccio improntato alla solidarietà. E del resto, non poteva essere altrimenti, dal momento che la parola “solidarietà” è legata a doppio filo a un Paese nel quale il sindacato “Solidarnosc” ha giocato un ruolo centrale nella rinascita dell’unità nazionale e nella storia dell’Europa. La Polonia sembra dunque dimostrare uno spiccato sentimento europeista, che non mette in discussione i vantaggi dell’integrazione economica e monetaria (di quest’ultima però Varsavia non fa ancora parte), come fanno invece coloro che vedono nell’abolizione dell’Euro la soluzione a tutti i problemi. Uno spirito solidale dunque, ma che certamente non è estraneo a valutazioni circa l’importanza che per il Paese rappresenta il mercato unico europeo e l’esigenza che il sistema economico dell’Unione Europea nel suo complesso non conosca recessioni. La Polonia è, infatti, uno Stato giovane in rapida crescita, potenzialmente influente sia in ragione della sua dimensione demografica, sia sul piano economico, e che, grazie all’integrazione con Bruxelles, ha potuto meglio valorizzare le proprie risorse, modernizzare il sistema e guadagnare in competitività. Ciò è evidente soprattutto all’interno del mondo agricolo, settore trainante in Polonia, dove i sussidi di Bruxelles e il mercato comunitario hanno consentito un rapido sviluppo. Se però, in ragione delle circostanze esposte, la Presidenza polacca può contribuire a consolidare il senso di appartenenza dei Paesi membri alla “famiglia” europea, testimoniando l’utilità dell’integrazione, è tuttavia altrettanto vero che su questi temi Varsavia non può ancora avere un peso determinante. È difficile, infatti, che uno Stato che rappresenta il 5% del PIL dell’Unione Europea e soprattutto che non fa parte della zona Euro, possa trattare le questioni economiche comunitarie alla pari con le nazioni più influenti.

 
Un esempio di stabilità

L’importanza che riveste la Polonia per l’Unione Europea è poi soprattutto quella di essere un ottimo esempio della buona riuscita dell’allargamento: un Paese nel quale, i vantaggi che l’adesione ha comportato hanno avuto l’effetto di smorzare l’euroscetticismo e portato stabilità sia sul piano economico sia su quello politico. Sotto questo primo punto di vista, la crescita dell’economia, stabile intorno al 4%, costituisce un dato significativo in tempo di crisi, che rende conto della solidità del sistema, in parte da ricondurre alle sempre più strette relazioni commerciali intrattenute con la Germania. Oltretutto, il boom degli ultimi anni ha aumentato nei polacchi la fiducia nelle loro stesse risorse, portandoli a superare quella sorta di complesso di inferiorità causato da una prolungata separazione interna e dall’Europa, di cui la Polonia si sente parte integrante. Permangono, tuttavia, alcuni problemi che impediscono uno sviluppo più rapido; tra questi, la struttura stessa del sistema, tecnologicamente poco avanzato e dominato da piccole imprese a conduzione familiare, che non riesce a garantire un’occupazione a un sempre maggior numero di giovani laureati, costretti così ad emigrare. Sul piano politico, il governo liberal-conservatore di Tusk, che guida il Paese dal 2007, e il Presidente della Repubblica Komorowski, eletto nel 2010, sono espressione della medesima forza politica, la Piattaforma Civica: una situazione che favorisce il dialogo inter-istituzionale, a tutto vantaggio della governabilità del Paese.

Verso Est

Dal punto di vista geopolitico, la Polonia è prima di tutto un Paese fortemente strategico, ed è sulla base di questa consapevolezza che il ruolo prevede di svolgere in questi sei mesi è anche quello di ponte tra l’ente che è chiamata a presiedere e i Paesi a Est dell’Unione Europea, in particolare gli Stati che sono associati a Bruxelles per mezzo dell’accordo di Partenariato Orientale, concordato a Praga nel maggio 2009. D’altra parte, proprio all’iniziativa polacca si dovette la sottoscrizione di tale accordo, che costituisce una diramazione della Politica Europea di Vicinato e coinvolge Paesi con i quali Varsavia condivide l’eredità del passato sovietico: Armenia, Azerbaigian, Georgia, Moldavia, Ucraina e Bielorussia. In questo suo compito la Polonia può essere particolarmente efficace, anche perché di quel mondo essa è ora come ora il miglior esempio di sviluppo realizzato. Il rilancio del Partenariato Orientale, la cui riuscita è però vincolata ad un imprescindibile aumento dei finanziamenti destinati a tale progetto, si compone, così come prospettato dalla Polonia, di alcune azioni essenziali: prime fra tutte, la previsione di agevolazioni nella concessione dei visti e la realizzazione di interventi di modernizzazione nei Paesi interessati, al fine di stimolare l’accettazione del modello europeo. Nel tempo limitato di un semestre, è realistico pensare che un passo avanti in questo senso potrà essere raggiunto con la conclusione di un accordo di libero scambio tra l’Unione Europea e l’Ucraina, un primo segnale di avvicinamento che aprirebbe la strada a trattati simili con gli altri Paesi dell’area, in vista di una loro futura adesione, e al contempo un risultato di cui la Polonia potrebbe fregiarsi a livello internazionale.

Ostacoli e aspirazioni

La Polonia dà avvio a un nuovo ciclo di Presidenze, che proseguirà poi con la Danimarca e con Cipro, Paesi con i quali Varsavia ha concordato già da tempo le linee fondamentali per condurre l’Unione Europea nei prossimi 18 mesi. La cosiddetta Presidenza a trio, introdotta con il Trattato di Lisbona, concilia, infatti, il principio della rotazione paritaria con l’esigenza di una maggiore continuità delle strategie e, in effetti, la limitatezza del tempo a disposizione della Polonia è compensata proprio dal fatto che i passi che verranno intrapresi in questo semestre, costituiranno solo l’inizio di un processo che poi la Presidenza danese e cipriota porteranno a compimento. Sulle spalle della Polonia grava, dunque, il peso di una grande responsabilità, non solo perché è chiamata a gestire emergenze di ampia portata, ma anche perché con la sua capacità di impostare il programma in maniera incisiva, influirà anche sull’operato delle Presidenza a venire.

La posizione di Presidente del Consiglio dell’Unione, che pone la Polonia al centro della scena europea per i prossimi sei mesi, costituisce però allo stesso tempo una possibilità dal valore inestimabile, soprattutto per quanto riguarda ciò a cui probabilmente Varsavia aspira di più: un ruolo attivo e di rilievo sulla scena internazionale. Una simile posizione, infatti, non solo consente a Varsavia di avere i mezzi per portare alla ribalta e per far valere le proprie istanze, ma le conferisce anche la visibilità di cui ha bisogno per dare prova di credibilità e per farsi conoscere, per mostrare al mondo i progressi compiuti a soli vent’anni dall’indipendenza: la democrazia compiuta e la stabilità politica ed economica. L’impatto che potrà avere un Paese in crescita come la Polonia sul modus operandi dell’Unione Europea e sulle sue priorità, è certamente limitato dal fatto che l’“ente” in questione sembra ancora essere diviso tra una stretta cerchia di Stati che influenzano le politiche comunitarie e Stati, di fatto, periferici rispetto alle decisioni prese a Bruxelles. Varsavia rientra ancora nelle fila di questi ultimi, ma ha le potenzialità non tanto per entrare a far parte del gruppo dei primi, quanto piuttosto, e ciò è un aspetto fondamentale per il futuro dell’Unione Europea, per aprire la strada ad una distribuzione più equa del potere, ad una maggiore unitarietà e ad un’integrazione europea di più ampio respiro.

 

* Martina Franco è Dottoressa in Scienze Internazionali e Diplomatiche (Università di Trieste)

 

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Eric Walberg, Post modern Imperialism. Geopolitics and the Great Games

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Eric Walberg
Postmodern Imperialism. Geopolitics and the Grat Games
Clarity Press Inc.
Atlanta, GA 3035, USA 2011
$17.95
ISBN:  9780-9833539-3-5     300 pp.

Postmodern Imperialism. Geopolitics and the Great Games, un’analisi affascinante e radicalmente nuova dell’offensiva imperialista che ha prima travolto il mondo, in ondate successive fra il XIX e XX secolo, e che sta oggi volgendo precipitosamente al termine.

L’espressione “Grande Gioco” è stata coniata nel XIX secolo e riflette il cinismo di statisti (e storici) non coinvolti personalmente nel caos da essi stessi creato. Essa indicava la rivalità fra Russia e Inghilterra, avente ad oggetto gli interessi in India. In realtà l’Inghilterra era impegnata a spiegare il suo gioco mortale su tutta l’Eurasia, dai Balcani e dalla Palestina sino alla Cina e al Sud-Est asiatico, indebolendo e dividendo stati “premoderni”, distruggendo le vite di centinaia di milioni di persone, con effetti che perdurano ancora oggi.

Radicata nell’illuminismo europeo, plasmata dalla cultura ebraica e da quella cristiana, economicamente fondata sul capitalismo industriale, la competizione intra-imperialistica ha reso l’intero globo zona di conflitto, non lasciando alcun territorio neutrale.

Il cataclisma della I Guerra Mondiale interruppe la prima parte del “gioco”, ma non segnò la definitiva conclusione dello stesso. Walberg riesuma la parola proibita “imperialismo” per analizzare attentamente tale fenomeno del quale – pur se formalmente ripudiato – si continua attualmente a seguire la logica e a causare gli stessi terribili costi umani. Ciò che l’autore definisce il II Grande Gioco comincia successivamente, con l’America che riunisce i suoi precedenti rivali imperiali in un gioco ancora più implacabile, finalizzato a distruggere il comune nemico rivoluzionario e potenziale nemesi: il comunismo. Avendo “vinto” questo gioco, l’America assieme al nuovo attore Israele – un prodotto dei primi giochi – ha cercato di fare un’unica trincea di quello che Walberg definisce “un impero e mezzo” nel campo di gioco ormai globale, avvalendosi di un’agenda neoliberale sostenuta dal dominio rapido (shock and awe).Con tratti agili e decisi, Walberg dipinge lo scontro fra dominazione e resistenza nel quadro globale, dove l’imperialismo combatte i suoi grandi sfidanti, comunismo ed islam, i quali ne costituiscono l’antidoto secolare e religioso.

Paul Atwood (War and Empire: The American Way of Life) ha definito l’opera una “epica correttiva”. Secondo Pepe Escobar (giornalista di Asia Times) si tratta di una “road map attentamente argomentata e, soprattutto, ‘cliché-distruttiva’ ”. A detta di John Bell (Capitalism and the Dialectic) essa è rigorosamente documentata e costituisce una “preziosa risorsa per capire come funziona l’imperialismo ed animare il dibattito sulla stessa teoria dell’imperialismo”.

Specializzato in Economia presso l’Università di Toronto, e successivamente a Cambridge, Walberg ha anche studiato e lavorato nell’allora Unione Sovietica, vivendone il collasso, e successivamente in Uzbekistan; attualmente scrive per il principale quotidiano del Cairo: Al Ahram.
Noto a livello internazionale come giornalista specializzato in Medio Oriente, Centro Asia e Russia, il suo proposito è quello di decostruire le tradizionali analisi occidentali con la loro pregiudiziale eurocentrica e di mostrare il XX secolo per come è stato vissuto dalle vittime dei giochi imperiali, più che non dai presunti vincitori, e di fornire al lettore gli strumenti necessari ad analizzare il gioco attuale nella sua evoluzione.

Walberg contribuisce regolarmente a Counterpunch, Dissident Voice, Global Research, Al-Jazeerah and Turkish Weekly ed è commentatore per l’emittente televisiva RT e quella radiofonica Voice of the Cape. I suoi articoli sono scritti generalmente in lingua russa e tradotti in spagnolo, italiano, tedesco e arabo e sono reperibili presso il suo sito web ericwalberg.com. Walberg ha fatto da moderatore e relatore al Leaders of Change Summit (http://www.istanbulwpf.org/) presso Istanbul nel 2011.

(Traduzione a cura di Giacomo Guarini)

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La Libia e la fine delle illusioni occidentali

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Cinque mesi dopo l’inizio dei bombardamenti, non è più possibile credere alla versione ufficiale sull’inizio degli eventi in Libia e sui massacri attribuiti al “regime di Gheddafi”. Allo stesso tempo, dobbiamo ora tener conto della risposta giuridica e diplomatica libica che mette in evidenza i crimini contro la pace commessi dalla propaganda TV, i crimini di guerra perpetrati dai militari della NATO e i crimini contro l’umanità commessi dai leader politici dell’Alleanza Atlantica.  

 

Poco meno della metà degli europei continua a sostenere la guerra contro la Libia. La loro posizione si basa su informazioni inesatte. Credono, infatti, ancora che il “regime di Gheddafi” abbia soppresso nel sangue le manifestazioni di Bengasi di febbraio e che avrebbe bombardato i quartieri di Tripoli, mentre lo stesso colonnello avrebbe promesso di versare “fiumi di sangue” se i suoi connazionali continuavano a sfidare la sua autorità.

In due mesi di lavoro sul campo, ho potuto vedere di persona che queste accuse sono pura propaganda, ideate dalle potenze della NATO per creare le condizioni di una guerra, e diffuse in tutto il mondo dalle loro reti televisive al-Jazeera, Cnn, Bbc e France24.

Il lettore che non sa dove situarsi in questo dibattito e che, nonostante il lavaggio del cervello dell’11 settembre e delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, è riluttante a pensare che Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Qatar abbiano potuto fabbricare tali menzogne, tuttavia, può formarsi un’opinione nel corso del tempo. La NATO, la più grande coalizione militare della storia, non è riuscita in cinque mesi di attacchi a rovesciare colui che ha descritto come un “tiranno”. Ogni Venerdì, una grande manifestazione a sostegno del regime viene organizzata in una città diversa del paese, e tutti gli esperti, oggi, concordano sul fatto che il colonnello Gheddafi ha almeno il 90% del sostegno popolare in Tripolitania e il 70% in tutto il paese, incluso nelle zone “ribelli”. Queste persone sopportano ogni giorno i bombardamenti aerei, l’embargo e i combattimenti di terra. Non sosterrebbero mai, con la loro carne e il loro sangue, un individuo che avrebbe commesso crimini contro di loro, di cui viene accusato dalla “comunità internazionale”. La differenza tra coloro che in Occidente credono che Gheddafi sia un tiranno che ha fatto sparare sul suo popolo, e quelli che credono che in Libia credono sia eroe della lotta antimperialista, è che i primi vivono nell’illusione creata dalla propaganda TV, mentre gli altri hanno sul posto, l’esperienza della realtà.

Detto questo. Vi è una seconda illusione di cui sono vittime gli occidentali, e includo ormai nel campo “occidentale” non solo Israele, che ha sempre sostenuto di esserlo, ma anche le monarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo e la Turchia, anche se sono delle culture orientali, hanno scelto questo campo: ancora credono che sia ancora possibile devastare un paese e uccidere il suo popolo senza conseguenze giuridiche. E’ vero che, fino ad ora, la giustizia internazionale è stata una giustizia dei vincitori e dei potenti. Ci si ricorda dei dignitari nazisti che apostrofavano i propri giudici a Norimberga, dicendogli che se il Reich avesse vinto la guerra, sarebbero stati i nazisti a essere i giudici, e gli Alleati che avrebbero dovuto rendere conto dei loro crimini di guerra. Più recentemente, abbiamo visto l’uso da parte della NATO del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, per cercare di giustificare a posteriori la guerra in Kosovo, come “la prima guerra umanitaria della storia”, secondo l’espressione Tony Blair. O ancora, come il Tribunale speciale per il Libano sia stato utilizzato per cercare di rovesciare il governo siriano e decapitare Hezbollah libanese, e probabilmente subito dopo accusare la Guardia rivoluzionaria iraniana. Per non parlare della Corte penale internazionale, braccio secolare delle potenze coloniali europee in Africa.

Tuttavia, lo sviluppo di strumenti e organi di giustizia internazionale nel ventesimo secolo si ha progressivamente istituito un ordine internazionale a cui le superpotenze si dovranno conformare, o che dovranno sabotare per sfuggire alle proprie responsabilità. Nel caso della Libia, ci sono innumerevoli violazioni del diritto internazionale. Eccone le principali, come sono state stabilita dal Comitato Tecnico Provvisorio, organo di coordinamento interministeriale libico, e descritte dall’avvocato della Jamahiriya araba libica, il francesi Marcel Ceccaldi [1], in varie conferenze stampa.

Le reti televisive che, sotto la spinta dei loro rispettivi governi, hanno prodotto false informazioni per spingere alla guerra, sono colpevoli di “crimini contro la pace”, come definito dalle pertinenti risoluzioni dell’Assemblea generale delle delle Nazioni Unite, adottate dopo la seconda guerra mondiale [2]. I giornalisti-propagandisti dovrebbero essere considerati ancor più colpevoli dei militari che hanno compiuto crimini di guerra o crimini contro l’umanità, nella misura in cui nessuno di questi crimini sarebbe stato possibile senza quello che l’ha preceduto, il “crimine contro la pace”.

I leader politici dell’Alleanza Atlantica che hanno dirottato la Risoluzione 1973 dai suoi scopi, per impegnarsi in una guerra di aggressione contro uno stato sovrano, sono personalmente responsabili davanti la giustizia internazionale. Secondo la giurisprudenza creata all’indomani della seconda guerra mondiale dal Tribunale di Tokyo, i crimini non sono il prodotto di Stati o organizzazioni, ma di singoli individui. Saccheggiare i beni di uno Stato, istituire un blocco navale e il bombardamento delle infrastrutture per far soffrire la popolazione, attaccare un esercito nelle sue caserme, ordinare di assassinare dei leader nemici e, in mancanza, terrorizzarli uccidendo le loro famiglie, sono anche dei crimini di guerra. Commetterli in modo sistematico, come nel caso di oggi, è un crimine contro l’umanità. Questo crimine è imprescrittibile, il che significa che Obama, Sarkozy, Cameron et Al-Thani saranno perseguiti dalla giustizia per il resto della loro vita.

La NATO, come organizzazione, è legalmente responsabile dei danni materiali e umani di questa guerra. Non c’è alcun dubbio giuridico che deve pagare, anche se sicuramente cercherà di invocare un privilegio di giurisdizione per sfuggire alle proprie responsabilità. Spetterà quindi all’Alleanza vedere come dividere il conto di questa guerra, tra i suoi Stati membri, anche se alcuni di essi sono sull’orlo della bancarotta. Seguiranno disastrose conseguenze economiche per i loro popoli, colpevoli di aver approvato questi crimini. E in una democrazia, nessuno può pretendere di essere innocente dai crimini commessi in suo nome.

La Giustizia Internazionale dovrà affrontare più specificamente il caso dell'”amministrazione” Sarkozy – ho usato qui questo anglicismo per sottolineare che oramai il presidente francese ha guidato direttamente la politica del suo governo, scavalcando il suo primo ministro. Infatti, la Francia ha giocato un ruolo centrale nella preparazione di questa guerra, nell’ottobre 2010, organizzando un fallito tentativo di colpo di stato militare, e poi attraverso la pianificazione, assieme al Regno Unito, già nel novembre 2010, del bombardamento della Libia e di uno sbarco, che allora si credeva possibile e, infine, partecipando attivamente ai disordini mortali a Bengasi, che hanno portato alla guerra. Inoltre, la Francia, più di ogni altra potenza, ha schierato sul terreno le proprie forze speciali, certamente senza le loro uniformi, e violato l’embargo sulle armi, rifornendo i ribelli, direttamente o tramite gli aerei del Qatar. Senza contare che la Francia ha violato il congelamento dei beni libici da parte delle Nazioni Unite, deviando parte della favolosa liquidità del Fondo sovrano libico a beneficio delle marionette del CNT, e a spese del popolo libico che credeva di assicurarsi il benessere dei propri figli, una volta esaurito il petrolio.

Questi signori della NATO, che speravano di sfuggire alla giustizia internazionale schiacciando in pochi giorni la loro vittima, la Libia, in modo tal che essa non sarebbe sopravvissuta per perseguirli, saranno disillusi. La Libia è ancora lì. Ha presentato denunce dinanzi alla Corte penale internazionale, ai tribunali belgi (competenti sulla NATO), la Corte europea di giustizia, le giurisdizioni nazionali degli stati aggressori. Conduce azioni davanti al Consiglio dei Diritti Umani di Ginevra, il Consiglio di Sicurezza e l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Non sarà possibile per le grandi potenze spegnere tutti questi incendi in una sola volta. Peggio ancora, gli argomenti che useranno per sottrarsi ai tribunali, gli si rivolteranno contro uno dopo l’altro. In poche settimane, in pochi mesi, se non riescono a distruggere Tripoli, non avranno altre scappatoie per evitare umilianti condanne che negoziare a caro prezzo il ritiro delle denunce.

 

 

[1] Mettendo fine alla confusione che regnava all’inizio della guerra, quando diversi ministeri ingaggiarono avvocati diversi per dei procedimenti disordinati, la Libia ha nominato Marcel Ceccaldi a luglio, per supervisionare tutti i procedimenti in corso.

[2] «Les journalistes qui pratiquent la propagande de guerre devront rendre des comptes», Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 14 agosto 2011.

 

http://www.voltairenet.org/La-Libye-et-la-fin-des-illusions

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio

http://www.aurora03.da.ru

http://www.bollettinoaurora.da.ru

http://aurorasito.wordpress.com

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Due sfide per i politici europei

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Fonte: European Council of Foreign Relations

Traduzione a cura di Martina Franco

Le cause della grande crisi di fiducia che ha colpito l’Eurozona e iniettato veleno nell’ecosistema politico europeo sono molteplici. L’Eurozona è evidentemente priva degli strumenti, delle istituzioni, della cultura economica e della leadership politica necessaria per affrontare adeguatamente la peggior crisi bancaria e finanziaria verificatasi dagli anni Trenta. Il problema ha però radici ben più profonde rispetto all’inadeguatezza dell’edificio noto come la governance economica dell’Eurozona. La crisi, infatti, si è aggravata fino alle sue attuali dimensioni a causa di due gravi problemi strutturali, che mettono in difficoltà la politica europea e le politiche nazionali, e che richiedono entrambi di essere portati al centro del dibattito politico.

Il primo problema consiste nell’ incapacità dell’attuale sistema di governo europeo di offrire ai cittadini elezioni che generino politiche identificabili, basate su una maggioranza di voti. Se è vero, infatti, che gli elettori hanno il potere di eleggere o rimuovere i membri del Parlamento Europeo, si tratta tuttavia di una scelta che influisce a malapena sulle decisioni davvero cruciali che l’Unione Europea oggi produce. Non c’è, infatti, alcuna connessione tra le elezioni europee e le decisioni politiche del Consiglio Europeo, l’organo comunitario più visibile; è minimo, inoltre, l’impatto sulle politiche e sulle proposte che provengono dalla Commissione Europea.

La principale preoccupazione non attiene l’ostilità verso il centro del potere federale, che è normale nei sistemi che governano un territorio esteso e diversificato, come ad esempio quello degli Stati Uniti, dove il potere federale è costantemente sottoposto all’attacco di un populismo regionalista che si nutre di risentimenti contro Washington. L’Unione Europea deve essere realistica ed accettare che il grado di avversione a Bruxelles è parte del fatto che è un’Unione di 27 Stati membri. Il problema di gran lunga più destabilizzante risiede nello squilibrio sempre maggiore tra il sistema centrale dove vengono prese le decisioni, che sta accumulando ulteriore potere in conseguenza di una grave crisi, e la capacità dei cittadini di identificare le leve attraverso le quali quello stesso sistema può essere sottoposto a un controllo democratico.

Il potere esecutivo del sistema di governance europeo è ripartito tra la Commissione e il più influente Consiglio Europeo, con la sua nuova progenie: il vertice dei leader dell’Eurozona. Per quanto riguarda i partiti politici, essi sono organizzati secondo il modello svizzero, che prevede una grande coalizione permanente di tutte le principali formazioni. C’è però una differenza basilare: all’Europa manca la valvola di salvezza svizzera, rappresentata dai referendum semi-permanenti: un aspetto cruciale sia da punto di vista della democrazia, sia a livello politico. Il risultato è che gli elettori europei si sentono per lo più privi del potere necessario per poter influire sulle principali decisioni politiche prese a Bruxelles.

Tutto ciò è abbastanza grave in periodi normali, ma diventa profondamente problematico quando circostanze straordinarie, come l’attuale crisi nell’Eurozona, portano a un ulteriore trasferimento di potere verso un sistema di governo europeo in cui tutti i partiti sono rappresentati; un sistema le cui scelte hanno la prevalenza o determinano – come attualmente devono – le preferenze nazionali. Questa situazione è aggravata dal fatto che il Consiglio Europeo è essenzialmente formato dai 27 leader nazionali, il primo intento dei quali è preferire il loro mero interesse al bene comune europeo, provocando l’indebolimento del processo decisionale e dando vita a scelte politiche collettive catastroficamente prive di forza. Il sistema dunque difetta gravemente di democrazia ed efficienza.

È ovvio che affrontare queste debolezze non porrebbe fine al populismo e alla frustrazione degli elettori in Europa – e nemmeno sarebbe garanzia di politiche europee responsabili; tuttavia, una maggior partecipazione elettorale, reale e percepita, costituirebbe un importante progresso verso la piena legittimazione dell’Unione Europea come una struttura all’interno della quale le principali sfide comuni europee devono essere risolte. Tutto ciò avrebbe anche l’effetto di generare dei leader che abbiano come fine l’interesse collettivo anziché quello nazionale e la cui rafforzata legittimità faciliti decisioni più efficaci. È incoraggiante che si stiano vagliando proposte come quella della nomina, da parte dei principali partiti politici, di un candidato unico per la posizione di Presidente della Commissione: ciò dimostra che il progresso è possibile, se ci sono volontà politica e creatività.

Il secondo problema strutturale che mette in difficoltà la politica europea è più serio e allarmante: per la prima volta in ben più di un secolo, nella maggior parte delle regioni del continente, i cittadini europei non sono più certi né che la vita dei loro figli sarà materialmente migliore o per lo meno allo stesso livello della loro, né del fatto che, da pensionati, vivranno agiatamente come i loro genitori. Si tratta di un cambiamento radicale nelle dinamiche delle nostre società, che comporta enormi conseguenze politiche.

A partire dal XIX secolo, la crescita progressiva della classe media, resa possibile da un maggior benessere materiale, ha determinato, tranne che nei periodi di guerra e di crisi economica, l’evoluzione delle società, e comportato l’ascesa della politica democratica a modello europeo dominante. Ciò ha consentito ai partiti tradizionali di sostenere le campagne elettorali sulla base della promessa di un’espansione del Walfare State e di una maggiore prosperità per gran parte della popolazione.

La riallocazione della ricchezza globale, causata dalla competizione senza precedenti con i produttori e i salariati di Paesi come la Cina, significa che questo lungo capitolo della storia europea è giunto a una conclusione. Ci sono tutte le ragioni per credere che il reddito medio dei cittadini europei conoscerà una stagnazione o diminuirà, fino a che il divario con il reddito cinese e con altri redditi non si sarà considerevolmente ridotto. L’attuale successo economico della Germania è stato pagato al prezzo di un decennio caratterizzato da redditi netti in calo e da una crescente povertà.

Questa trasformazione non cambia soltanto le dinamiche sociali dell’Europa, ma influisce sulla sua politica in ambiti dei quali la maggior parte dei partiti politici non ha neanche iniziato a occuparsi. La promessa di un avvenire migliore in termini di redditi più elevati e migliori servizi sociali, suona oggi ridicola e ingannevole; la gran parte dei politici social-democratici e di centro destra in Europa non conosce però altra via per affrontare le campagne elettorali. I nostri principali partiti politici stanno scegliendo di affrontare una trasformazione storica, evidente a ciascun elettore, facendo tutto il possibile per nascondere questo fatto all’interno del dibattito politico ed elettorale. Questa negazione della realtà è quasi certamente una delle principali cause all’origine dell’ascesa del populismo, cui stiamo assistendo in molte parti d’Europa. In questo contesto, è significativo come il partito dei Verdi in Germania, ben preparato dal punto di vista ideologico, che da tempo mette in guardia contro la pianificazione del futuro come una continuazione del passato, veda aumentare considerevolmente i voti a suo favore.

Per le forze politiche europee di centro destra e centro sinistra è fondamentale smettere di considerare la globale redistribuzione della ricchezza, e che ciò che esso comporta per l’Europa, come un fenomeno talmente orribile che è meglio ignorare: è palese, infatti, come questa sia una strada che conduce al loro stesso declino, nonché all’indebolimento delle nostre democrazie.

I partiti tradizionali d’Europa devono dunque adeguarsi con urgenza alle sfide del nuovo secolo. Ciò significa che devono iniziare a competere con determinazione per avere il controllo del potere esecutivo dell’Unione Europea, in modo tale che si diffonda tra gli elettori un senso di partecipazione. Devono inoltre essere chiari circa il riequilibro della ricchezza globale e sulle conseguenze che ciò implica per l’Europa, così da riconquistare credibilità ideologica. Sembra così semplice, ma è anche altrettanto difficile

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“Turchia, ponte d’Eurasia”: una recensione

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Nonostante i numerosi passi avanti compiuti negli ultimi anni, la percezione degli europei nei confronti della Turchia è ancora imbevuta di diffidenza pregiudiziale, dettata principalmente dall’islamofobia strisciante che domina lo scenario del Vecchio Continente e dalla superficialità con cui gli organi di informazione sono soliti approcciare con la complessa realtà turca.

Il saggio di Aldo Braccio, profondo conoscitore del mondo turco, assume quindi, alla luce di quanto sottolineato, un prestigio particolare se messo in relazione con l’attuale congiuntura storica.

Il titolo stesso del saggio costituisce un omaggio (poi tributato esplicitamente dall’autore del saggio) al grande esperto di geopolitica Carlo Terracciano, che nel non lontano 2004 aveva pubblicato un articolo per la rivista Eurasia intitolato anch’esso “Turchia ponte d’Eurasia”.

Tale espressione è capace, pur nella sua estrema sinteticità, di descrivere efficacemente il ruolo di crocevia, di tramite tra Europa e Asia di cui la Turchia è destinata a vestire i panni.

Dalla lucida disamina offerta da Aldo Braccio emerge il ritratto di una nazione proiettata verso il futuro mantenendosi allo stesso tempo legata al proprio passato, capace di ereditare alcuni dei fattori fondamentali che avevano reso grande l’impero della Sublime Porta.

Alla luce di ciò risulterà maggiormente agevole comprendere come una nazione laica incardinata sulle idee del padre fondatore Mustafà Kemal Ataturk stia entrando a contatto con un processo – aspramente contrastato dalle forze armate, storiche garanti dell’atlantismo – di apertura progressiva all’Islam promossa dal partito AKP (Adalet ve Kalkınma Partisi) guidato dal Primo Ministro Recep Tayyp Erdogan.

I primi quattro capitoli del libro sono tesi ad illustrare gli aspetti di continuità e le analogie che permangono tra il defunto Impero Ottomano e l’attuale Turchia guidata da Recep Tayyp Erdogan e i tratti fondamentali della teoria geopolitica escogitata e propugnata dal Ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu, che parte dalla constatazione della “profondità strategica” legata alla posizione geografica della Turchia per sostenere la necessità di estendere la capacità d’influenza turca in tutte le direzioni.

Il passo di Davutoglu ripreso da Braccio non lascia adito a dubbi al riguardo:

“La posizioni geopolitica non dovrebbe più servire solo a proteggere i confini nazionali ma a trasformare in globale l’influenza locale e ad accrescere gradualmente l’apertura internazionale.

La condizione prioritaria per evolvere dalla mera protezione dei confini nazionali all’esercizio di un’influenza continentale e mondiale, consiste nell’investire la nostra collocazione geopolitica nella dinamica internazionale delle relazioni economiche, politiche e di sicurezza”.

L’approccio pacifico nei confronti degli altri paesi finalizzato a mantenere rapporti di buon vicinato con essi favorisce, come evidenzia Braccio, lo sviluppo prorompente dell’economia, gli ambiziosi processi di ammodernamento relativi alle infrastrutture fondamentali e soprattutto i progetti riguardanti la realizzazione dei due gasdotti Nabucco e South Stream che trovano entrambi nel territorio turco uno snodo fondamentale.

Gli ultimi tre capitoli del libro sono dedicati invece all’analisi delle dinamiche evolutive relative ai rapporti con i paesi cardine dell’attuale contesto geopolitico.

Braccio si sofferma sull’allontanamento di Ankara da Israele, dagli Stati Uniti e dai vincoli della NATO che hanno preluso all’avvicinamento ai governi di Mosca e Teheran.

L’incedere della disamina di Braccio parte dall’indagine sugli attriti passati e sui mai sopiti rancori reciproci per prosegue tappa per tappa fino alle ragioni dell’attuale superamento delle barriere ideologiche che avevano contrapposto la Turchia alla Russia e all’Iran khomeinista.

Non mancano, tuttavia, cenni alle divisioni interne che minano ancora oggi lo scenario politico turco.

Mentre la società civile turca – di cui le forze politiche attualmente al potere si stanno facendo interpreti – sta progressivamente abbandonando l’oltranzismo kemalista e facendo registrare un progressivo raffreddamento riguardo l’adesione di Ankara all’Unione Europea, esercito e magistratura rimangono fedeli ai vincoli del Patto Atlantico.

Braccio si mostra realista in relazione ai prossimi sviluppi politici alla luce di tutto ciò e non esclude che detti poteri atlantisti tornino gradualmente a fare la voce grossa influenzando pesantemente la vita politica del “ponte d’Eurasia”.

Scrive Braccio: “Lo scontro/confronto fra mondo politico e apparato giudiziario riassume il senso del fenomeno turco: qui sta anche il terreno dello scontro/confronto fra sovranità nazionale e sudditanza occidentale, ma anche fra concordia nazionale e divisione, frammentazione dello Stato”.

Dall’attrito tra questi due potenti schieramenti è quindi comprensibile che scaturiscano quindi le mosse politiche spesso incomprensibili e indecifrabili, dettate dai continui mutamenti dei rapporti di forza interni al paese.

L’ondivaga linea politica seguita da Erdogan è l’esempio più lampante di tutto ciò; egli è riuscito a ridimensionare il ruolo dell’esercito e dei poteri ad esso connessi ma si trova costretto a lasciare numerose concessioni ai militari per evitare che la tensione si acuisca ulteriormente, gettando le basi per un ennesimo colpo di stato che vanificherebbe le scelte compiute sovranamente dalla politica.

La Turchia, in sintesi, rappresenta una società complessa composta numerosi fattori che interagiscono in felice e armonica compenetrazione, con cui i logori paesi europei dovranno decidersi a fare i conti.

Se nell’approccio con essa prevarrà l’obsoleto occidentalismo propugnato da taluni prestigiosi analisti e osservatori,le possibilità di comprendere la diversità complementare si avvicineranno inesorabilmente allo zero.

Se invece lo spirito improntato alla solidarietà continentale riuscirà infine a far breccia nell’intricato groviglio di diffidenze di cui gli europei sono impregnati, avrà luogo un avvicinamento tra le due distinte realtà da cui scaturirà una sinergia positiva in grado di favorire, nel lungo periodo, la realizzazione di quella prospettiva eurasiatica auspicata da molti.

Il libro di Aldo Braccio rappresenta un manifesto di quest’ultima tendenza.

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L’asse russo-germanico contro l’Occidente bancario

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Diceva Oswald Spengler che il pericolo che già ai suoi tempi incombeva sulla civiltà bianca era doppio: da una parte c’era l’imminente “rivolta dei popoli di colore” contro il dominio colonialista degli Stati occidentali; dall’altra parte esisteva un pericolo interno, la rivolta dei ceti proletari, guidata dalla casta sobillatrice dei sindacalisti. Il panorama che il filosofo della storia dipingeva quasi cent’anni fa è noto: l’Occidente avrebbe arrestato il suo inevitabile declino solo affidandosi a figure di Cesari dittatoriali, che attraverso regimi autoritari avrebbero potuto liquidare sia la minaccia esterna sia quella interna. Indubbiamente, l’occhio di Spengler era quello del profeta. Non era facile, al culmine del potere mondiale degli Stati nazionali euro-occidentali, dar forma a simili prognosi. Per certi versi, soltanto oggi, sotto la pressione degli eventi quotidiani, anche i più tardi si rendono conto che l’Occidente (il mondo “bianco”) vive il suo epocale arretramento dinanzi alla crescita dei popoli emergenti del Terzo Mondo. Anche se, nel frattempo, il proletariato euro-occidentale, una volta uscito di scena il socialcomunismo e affermatasi la società consumista di massa, è stato sostituito dal nuovo proletariato degli immigrati di colore, insediatosi all’interno degli Stati attraverso la massiccia infiltrazione immigratoria e andando grosso modo a ricoprire il medesimo ruolo destabilizzatore della vecchia classe lavoratrice sindacalizzata.

Spengler ragionava nei termini di un conservatore imperialista prussiano. Vedeva le cose in chiave planetaria, secondo i principi di un “nazionalismo razziale” aristocratico e fortemente gerarchizzato. Non percepì il ruolo che le masse moderne avrebbero potuto recitare nel ridisegnare scenari rivoluzionari, secondo nuovi assetti di potere. Non vide l’asse dei “popoli giovani”, come li chiamava Moeller van den Bruck (essenzialmente Italiani, Tedeschi, Russi), da lanciare alla conquista dell’eredità dei popoli in declino, quelli atlantico-occidentali a guida liberista. Spengler dopotutto era l’uomo della grande industria tedesca e del tradizionale padronato agrario, un sistema che mirava a controllare i circuiti economici mondiali: una concezione “all’inglese”, diciamo, cioè schiettamente imperialista, figlia diretta della politica di competizione mercantile già seguita dal Secondo Reich, con esiti catastrofici. Il suo “socialismo prussiano” non era in fondo che un potente e affascinante argomento a favore della dominazione globale, per la cui gestione le antiche caste nobiliari tedesche avrebbero dovuto rilanciarsi saldandosi alle classi dirigenti franco-anglosassoni. La sconfitta del 1918 gli suggerì la possibilità che la Germania solo attraverso il “cesarismo” avrebbe potuto tornare a dire la sua parola nel gioco del potere mondiale, inserendosi nel “cartello” delle potenze bianche.

Tali argomenti – centrali in quella che è stata chiamata la “Rivoluzione Conservatrice”, spesso più conservatrice che rivoluzionaria – non potevano piacere a chi, dalla sconfitta tedesca e dai rivolgimenti post-bellici (crollo di imperi, rivoluzioni, protagonismo delle masse, vertiginosa ascesa del macchinismo industrialista, etc.), aveva tratto un altro tipo di lezione. Il Fascismo, ad esempio. Il quale, lungi dal voler rinnovare i ceti liberali con un più aggressivo imperialismo economico e politico, si proponeva proprio di abbattere quel potere per sostituirlo con nuove aristocrazie popolari, avendo di mira la costruzione di una civiltà di nuovo tipo, innestata su forme di socialità avanzata e di espansionismo su base non di sfruttamento economico, ma popolazionista e insediativa. Il Nazionalsocialismo, che ebbe una sua robusta ala “sinistra”, era largamente attestato su queste stesse posizioni. C’è racchiusa, in questa dinamica politica fra le diverse interpretazioni sui futuri assetti mondiali, un’intera stagione di ideologia politica europea, che ha avuto ed ancora ha un suo peso sulla percezione degli eventi, anche quelli attuali. E che quindi ci è maestra circa la possibilità di leggere correttamente quanto anche oggi accade intorno a noi. La presente situazione planetaria, infatti, è erede dell’errata presa di posizione che una parte consistente dell’Europa prese nei decisivi anni Trenta-Quaranta, volendosi saldare all’Occidente atlantico anziché agli spazi euro-asiatici.

Un piccolo libro da poco pubblicato dalle Edizioni All’insegna del Veltro ci immerge in queste inquadrature: si tratta di Contro Spengler, scritto nel 1934 da Johann von Leers in polemica con il libro spengleriano Anni decisivi, uscito in quel medesimo anno e divenuto testo famoso di ideologia politica del Novecento. Parliamo dunque di un momento importante di lotta ideologica contemporanea, niente affatto un dettaglio, ma un elemento centrale, che ci parla ad un tempo di quegli anni ma, con uguale profondità, anche delle ricadute che quelle antiche polemiche hanno drammaticamente avuto sul destino dell’Europa, fino agli attuali esiti di inabissamento della capacità europea di avere una politica propria.

Von Leers è certamente una personalità tanto poco nota al grande pubblico, quanto interessante. Claudio Mutti, nelle pagine introduttive al testo, ne ricorda l’appartenenza ai Freikorps, l’impiego per un periodo nel corpo diplomatico, l’iscrizione alla NSDAP nel 1929, la collaborazione alla rivista “Der Angriff” di Goebbels e la fondazione, nel 1932, del periodico “Nordische Welt”, espressione della Società per gli studi della preistoria germanica diretta da Herman Wirth. La vicinanza con le posizioni del nordicismo razzialista, la sua collaborazione al periodico “Nationalsozialistische Monatshefte”, una delle principali tribune ideologiche della NSDAP, facevano di Leers uno dei maggiori animatori ideologici völkisch, con addentellati nella “sinistra” del partito, a favore della quale aveva finanche intrattenuto fugaci rapporti col Fronte Nero di Otto Strasser. Lo stesso Leers, nel dopoguerra, lo vedremo accanto a Nasser in qualità di consigliere politico, inteso a costruire un fronte dei popoli arabi raccolti dai partiti socialnazionalisti baathisti, in lotta contro l’egemonia atlantista. Tale personaggio si presenta come ideale per dar conto, dal punto di vista storiografico, delle differenze di approccio ideologico fra il comparto socialista della NSDAP, e quel vasto ambiente di fiancheggiatori nazionalpopolari – di solito riferito alla Rivoluzione Conservatrice – che nel 1933 si affiancò al nuovo regime spesso identificandovisi, ma altrettanto spesso operando distinguo e precisazioni nel senso di una franca ostilità per gli aspetti popolari, ovvero “populisti”, manifestati dalla dirigenza nazionalsocialista. E in specie da quella SA, che proprio nel 1934 (anno di uscita del pamphlet di Leers e del libro di Spengler) fu al centro di una cruenta quanto conosciuta crisi politica.

Uomini di sentimento nazionalpatriottico come Spengler erano favorevoli a concezioni di competizione economica mondiale sulla falsariga della vecchia politica imperiale del Kaiser. Ed avevano in dispregio le concessioni a politiche economiche di tipo socialista. Tali posizioni Leers tacciò di reazionarismo e liberismo scatenato. Spengler ai suoi occhi diventava espressione del potere liberale, il cui razzialismo bianco “panariano” finiva per agevolare il grande capitalismo anglo-francese, a detrimento di nuovi posizionamenti geo-strategici. Che invece – secondo Leers – dovevano andare nel senso di un’alleanza con la Russia e coi popoli assoggettati dall’internazionale economica. «Oswald Spengler – scriveva Leers – è assolutamente l’uomo degli strati sociali che vivono dell’esportazione ad ogni costo, della penetrazione imperialistica del mondo. Anche qui egli è, come nella sua opposizione al lavoratore, un imperialista antebellico dell’Europa occidentale che arriva fino alle estreme conseguenze, ma non è un nazionalista, tanto meno un nazionalsocialista». La biforcazione tra le due posizioni era semplice: da una parte uno Stato organico popolare; dall’altra un dirigismo mondialista e grande-capitalista. Nel nome della “razza bianca” Spengler di fatto spianava la strada al liberismo cosmopolita. Al suo opposto, stava la politica mondiale del Terzo Reich, che avrebbe dovuto affiancare i popoli del Terzo Mondo nemici del capitalismo occidentale, ed unirsi con gli spazi russi per creare un blocco euro-asiatico. La storia, come sappiamo, nel momento in cui Hitler imboccò la strada fatale del Drang nach Osten, andò diversamente. Ma quelle idee di antagonismo anti-mondialista ed eurasista, nate tanti decenni fa, rimangono drammaticamente attuali: un’Eurasia dei popoli contro un Occidente atlantista delle banche.

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