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La primavera araba e il balance of power in Medio Oriente

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La Primavera Araba ha profondamente segnato il panorama politico del Medio Oriente. Spentosi rapidamente l’entusiasmo per l’ondata democratica, è opportuno domandarsi se e come i cambiamenti occorsi fino ad oggi abbiano influenzato il delicato equilibrio geopolitico della regione. La configurazione pre-rivolta vedeva in Israele, Egitto ed Arabia Saudita i principali alleati della superpotenza americana, con l’asse Iran-Siria a capo dello schieramento “anti-egemonico”. Poco più di sei mesi dopo la “Rivoluzione dei Gelsomini” in Tunisia quest’articolo traccerà un bilancio (parziale) degli effetti delle rivolte nel mondo arabo sugli equilibri geopolitici del Medio Oriente.

 

La storia delle rivolte in Medio Oriente (o Primavera Araba, se preferite) è nota. Il 14 gennaio 2011, a seguito di proteste a Tunisi e in altre città del paese, l’esercito tunisino sancisce la fine politica di Zine El-Abidine Ben Ali, presidente in carica fin dal lontano 1987. Il collega egiziano di Ben Ali, Hosni Mubarak (in carica dall’ottobre 1981) è costretto a dimettersi e ritirarsi a Sharm el-Sheikh circa un mese dopo. Se la caduta di due dei regimi di più lungo corso nella regione non fosse una sorpresa sufficiente, le proteste “contagiano” rapidamente diversi paesi nella regione, portando ad una guerra civile ed a un intervento militare NATO in Libia, a scontri e brutali repressioni in Siria, Bahrain e Yemen (dove il presidente viene ferito da una bomba e deve rifugiarsi per cure mediche nella vicina Arabia Saudita) ed a instabilità diffusa nella regione. Gli esperti sono divisi sulle cause delle rivolte (socio-economiche o politiche?) e sulla natura delle opposizioni ai regimi (“democratiche” o “islamiche?”); tuttavia l’instabilità dei paesi colpiti dalle rivolte-sia quelli dove gli insorti riescono ad ottenere un cambio di regime, sia quelli dove i governanti riescono (al momento) a resistere alla pressione- hanno finora impedito di considerare gli effetti della rivolta per l’equilibrio geopolitico della regione. Quest’articolo si propone di analizzare i cambiamenti conseguenti ai recenti sviluppi-tenendo sempre a mente come la situazione attuale sia soggetta a repentini mutamenti. Per tracciare un bilancio critico occorre partire dallo scacchiere geopolitico della regione prima dei recenti sconvolgimenti.

 

L’equilibrio pre-rivolte

Quest’analisi si occuperà principalmente del Medio Oriente tradizionale (dall’Egitto ad Ovest all’Iran ad Est) e non del “Grande Medio Oriente” ed in particolare del Maghreb. Quest’ultima è infatti la sub-regione del MENA (Middle East and North Africa) che gode di dinamiche politiche proprie1 e di una certa autonomia rispetto ai temi regionali che caratterizzano il “Medio Oriente”. Un rapido sguardo all’equilibrio geopolitico pre-rivolte mostra la presenza di un blocco dominante costituito dagli Stati Uniti ed Israele dagli alleati arabi della superpotenza, l’Arabia Saudita e l’Egitto. Attorno all’asse Damasco – Teheran si raggruppano invece le principali forze anti-status quo, cui fanno riferimento Hamas ed Hezbollah. Questo equilibrio è figlio del cruciale biennio 78-79, caratterizzato dalla defezione dell’Egitto dal campo arabo e filo-sovietico con gli accordi di Camp David e dalla rivoluzione in Iran. La rete di alleanze costruita nella regione dagli statunitensi durante la guerra fredda sembrava uscire rafforzata dal passaggio dall’epoca bipolare a quella unipolare. La variabile geopolitica più rilevante sembra essere il progressivo re-inserimento della Turchia nell’arena mediorientale- accentuata dall’avvento di Erdogan dell’Akp nel 2002 ma già individuabile negli anni 90- ed al progressivo distacco di Ankara da Israele fino allo stato di aperta ostilità che caratterizza le relazioni dal 2009 in poi2.

 

La prima fase:l’inizio della rivolta

Le proteste in Tunisia e la caduta di Ben Ali furono accolte con stupore e crescente preoccupazione in molte capitali mediorientali: il rischio di “contagio” nella regione appare immediato, con la Giordania di Re Abdallah e l’Egitto di Mubarak travolti da un’ondata di proteste. Cairo e Amman rappresentano due degli alleati più fedeli degli Stati Uniti nella regione, nonché due paesi confinanti con Israele e ambedue in buoni rapporti con Gerusalemme (la Giordania firmò la pace con Israele nel 1994, e da quel momento i rapporti videro un progressivo e costante miglioramento). L’11 Febbraio Hosni Mubarak, “il Faraone” al potere dall’uccisione di Sadat nel 1981 è costretto a lasciare la presidenza al generale Tantawi a seguito di oltre due settimane di proteste. In questa fase l’equilibrio geopolitico sembra spostarsi chiaramente a favore dell’asse anti-americano: la rivolta d’Egitto minaccia di “spostare” il gigante arabo, considerato saldamente nel campo filo-occidentale, verso una posizione pre-79. Il 14 Febbraio, tre giorni dopo la caduta di Mubarak, la protesta monta in Bahrain. Questo piccolo arcipelago d’isole ha una discreta importanza da un punto di vista geopolitico ma una rilevanza immensa dal punto di vista simbolico. Ambedue gli aspetti sono da inquadrare nell’ambito della rivalità tra le due potenze del Golfo, la monarchia wahabita Saudita e la repubblica Islamica d’Iran. La popolazione del Bahrain è in maggioranza (70% circa) sciita, mentre la famiglia reale è sunnita e storicamente supportata dall’Arabia Saudita. Le proteste in Bahrain vengono immediatamente inquadrate nell’ambito della rivalità tra le due potenze del Golfo – un tentativo della Repubblica Islamica di far leva sulla maggioranza sciita della popolazione per sottrarre il Bahrain alla sfera d’influenza saudita. Ad aggravare la minaccia per Riyad, la minoranza sciita presente nella regione orientale dell’Arabia Saudita sembra venire coinvolta nelle proteste. Tra fine febbraio ed inizio marzo, con Mubarak disarcionato in Egitto e l’Arabia Saudita in evidente difficoltà, le rivolte arabe sembrano poter spostare l’equilibrio geopolitico a favore di Iran e Siria. La rete di alleanze costruita dagli americani sembra vacillare dalle fondamenta- Cairo e Riyad sono i due più preziosi alleati dell’occidente nel mondo arabo.

Seconda fase: tra Golfo ed Egitto

 

La metà di Marzo segna uno spartiacque importante per ciò che riguarda le conseguenze delle rivolte arabe sull’equilibrio geopolitico della regione. Tre sono i cambiamenti principali:

Tra l’8 e l’11 marzo un efficace dispiegamento di forze nelle provincie orientali ed a Riyad permette alle autorità saudite di fermare le crescenti proteste nel regno. Il 14 marzo l’Arabia Saudita, dopo aver schiacciato la rivolta interna, invia un contingente di truppe in Bahrain a supporto della famiglia reale. Con l’appoggio dei sauditi le autorità del regno riescono a reprimere le proteste dell’opposizione sciita-lo sgombero di Piazza della Perla il 18 marzo sancisce una vittoria decisiva per il governo. Lo stesso giorno re Abdullah vara un piano multi-milionario allo scopo di placare lo scontento tra i suoi sudditi. Washington e le altre capitali occidentali possono tirare un primo sospiro di sollievo: re Abdullah è riuscito (almeno per il momento) a riguadagnare controllo nella regione del Golfo (con l’eccezione del periferico Yemen). Uno degli assi fondamentali della politica americana nella regione è-almeno per il momento-salvo.

Buone notizie giungono per Israele e gli Stati Uniti dall’altro fronte caldo della prima fase, quello egiziano. Il filo-occidentale generale Tantawi ed il Consiglio supremo delle forze armate, organo dell’esercito che sta gestendo questa fase di opposizione sono adesso saldamente in controllo della situazione e sembrano in grado di pilotare il paese verso una transizione se non tranquilla quanto meno guidata. Il rinnovato ruolo dell’esercito sembra anche una garanzia verso una certa continuità politica ed un argine verso il crescente ruolo degli islamisti-in particolare la Fratellanza Musulmana- colti inizialmente di sorpresa dalle rivolte ma capaci in un secondo momento di riorganizzarsi ed aspirare a giocare un ruolo importante nel paese. Il 21 marzo la stragrande maggioranza degli egiziani che si recano alle urne conferma le modifiche costituzionali che permetteranno al paese di votare nei successivi sei mesi. La partita in Egitto è dunque ancora in bilico.

Marzo vede l’inizio delle proteste in Siria. La scintilla scocca nella città meridionale di Deraa, dove le forze di sicurezza del regime aprono fuoco durante il funerale di un manifestante ucciso pochi giorni prima in una delle prime proteste nel paese3. Nelle settimane seguenti la rivolta “contagia” Latakia, Homs ed altre città del paese. Le ripercussioni della rivolta in Siria sul piano geopolitico sono evidenti: il regime degli Al-Asad rappresenta lo strenuo difensore della causa araba che ha retto-in alcune fasi anche da solo- il peso dell’opposizione all’egemonia americana ed israeliana. Se un indebolimento di Damasco potrebbe essere visto in chiave positiva da americani e israeliani, il caos in cui il paese rischia di precipitare in caso i manifestanti riescano a liberarsi del presidente Al-Asad preoccupa le capitali occidentali e ancor di più Gerusalemme4.

 

Questa seconda fase dimostra come i regimi pro-occidentali non siano gli unici ad essere interessati dalle proteste. Le crescenti difficoltà del regime di Bashar Al-Asad rappresentano una minaccia per gli oppositori di Stati Uniti e Israele nella regione, in particolare per l’Iran. Contemporaneamente gli accadimenti nel Golfo confermano come il potere economico dell’Arabia Saudita rappresenti un argine contro le proteste nella regione e gli eventuali tentativi iraniani di espandere la propria influenza nella regione. Nell’Egitto rivoluzionario i “Generali” sembrano avere assunto il controllo della situazione garantendo così una certa continuità alla politica estera del paese. La “seconda ondata” di rivolte segna un moderato miglioramento dell’equilibrio geopolitico a favore delle forze filo-occidentali, impegnate dal 19 marzo in una complicata campagna aerea in Libia.

Terza fase: la lunga impasse.

La fase che va da Aprile a Luglio è caratterizzata dal progressivo deterioramento della situazione in Siria, dove una spirale di proteste e feroce repressione governativa costa la vita ad oltre 1500 persone. Il presidente Bashar Al-Asad prova a più riprese a lanciare un “dialogo nazionale”, tentativo vano di fronte alla brutalità con cui ogni forma di dissenso viene affrontata. Nella seconda metà di Maggio è oramai divenuto evidente come il regime stia lottando per la sua sopravvivenza. Il dato fondamentale di questa fase è tuttavia il repentino peggioramento delle relazioni con la Turchia, dovuto alla condanna del governo di Ankara verso quello siriano e dalla crisi dei profughi siriani a cavallo tra giugno e luglio. L’abbandono dell’alleato siriano da parte dell’ambizioso governo di Ankara5 rappresenta una significativa svolta per gli equilibri della regione.

Nel Golfo, le forze conservatrici e filo-occidentali sembrano avere riguadagnato saldamente il controllo mentre l’Iran sperimenta una certa instabilità interna dovuta ai turbolenti rapporti tra “i radicali” vicini al presidente Ahmadinejad e l’Ayatollah Khamenei6. In Egitto la transizione verso elezioni presidenziali e parlamentari sembra procedere senza grossi intoppi. Il governo provvisorio tiene sotto controllo le proteste che ciclicamente interessano soprattutto Il Cairo.

 

Il bilancio geopolitico

Un bilancio delle conseguenze delle rivolte sull’equilibrio geopolitico della regione sarà necessariamente provvisorio ed impreciso. La situazione è incerta in evoluzione in alcuni paesi chiave (Egitto e Siria). E’ tuttavia possibile già trarre delle conclusioni.

– Qualunque sia l’esito della transizione democratica in Egitto, è lecito aspettarsi dei cambiamenti nella politica estera del paese dei Faraoni. E’ infatti plausibile che un governo democraticamente eletto, anche se“sorvegliato” dall’esercito, non possa mantenere lo stesso allineamento filo-occidentale e filo-israeliano tenuto dall’Egitto dal 1978 in poi. L’opinione pubblica in buona parte contraria a questa scelta mal digerirebbe una politica estera à-la-Mubarak. Se la presenza dell’esercito è garanzia di una certa continuità, è naturale aspettarsi (quanto meno nel medio termine) un Egitto capace di giocare un ruolo più autonomo e propositivo nella regione. In particolare, è possibile attendersi un graduale allontanamento dagli Usa e Israele ma non una ridiscussione della pace di Camp David – non in questa fase.

    – Le difficoltà economiche in cui Il Cairo si trova fanno presagire la necessità di coltivare e se possibile migliorare i rapporti con l’Arabia Saudita ed i paesi del Golfo. L’Arabia Saudita potrebbe dunque fungere da tramite tra la superpotenza americana ed il “gigante arabo” risvegliatosi. Riyad appare come uno dei vincitori delle rivolte arabe fino a questo momento- in ragione del fatto che i Sauditi siano riusciti a contenere i danni in una situazione oggettivamente complicata grazie soprattutto alle immense risorse finanziarie. L’Arabia Saudita vede con la Primavera Araba il suo ruolo crescere ulteriormente-a patto che i sauditi siano effettivamente riusciti a spegnere i focolai di protesta interna. La maggiore solidità delle monarchie conservatrici e filo-occidentali di fronte alle rivolte potrebbe rappresentare un vantaggio per Riyad e i suoi alleati nel confronto con il rivale del Golfo- l’Iran.

      – L’indebolimento del regime di Bashar Al-Asad in Siria, che lotta in questi giorni per la sua sopravvivenza, rappresenta di per se uno sconvolgimento degli equilibri geopolitici della regione. Fin dal ‘79 Damasco e Teheran hanno rappresentato l’opposizione all’egemonia israelo-americana nella regione, la Siria grazie alla sua centralità nella regione ed alla “coerenza” della sua politica di opposizione ad Israele rappresenta il fulcro di un’alleanza che comprende Hamas ed Hezbollah. Il supporto incondizionato offerto da Teheran all’alleato siriano dimostra l’importanza di Damasco nell’equilibrio geopolitico della regione ed in particolare il suo valore come alleato dell’Iran.

        – A seguito della repressione in Siria, le relazioni tra Damasco ed Ankara sono rapidamente peggiorate fino al punto di far considerare ad alcuni analisti la possibilità di un intervento militare turco nella regione di confine. Se questa eventualità sembra (al momento) assai improbabile, l’allontanamento di Ankara da Damasco dopo un decennio di sorprendenti miglioramenti nelle relazioni tra i due paesi rappresenta un accadimento fondamentale- capace in prospettiva di mutare sostanzialmente gli equilibri nella regione.

           

          In conclusione, la primavera araba ha creato un Medio Oriente “a geometria variabile”, una regione del Golfo che ha visto un inasprimento della rivalità tra Iran e Arabia Saudita con Riyad capace di respingere “l’attacco” di Teheran in Bahrain. Nel Levante l’instabilità della Siria rischia di coinvolgere l’intera regione, mentre una soluzione della crisi a Damasco appare al momento lontana. Nel frattempo due dei giganti della regione, Turchia e Egitto, sono in una fase di ridefinizione dei propri interessi strategici e della propria politica di alleanze (seppure per ragioni profondamente differenti) e possono ambedue ambire, nonostante i rispettivi problemi domestici, ad un ruolo di leadership nella regione.

           

           

           

          * Francesco Belcastro è dottorando in Relazioni internazionali presso la University of St. Andrews (Scozia).

           


          1 Buzan and Waever, Regions and powers: the structure of international security “, Cambridge University Press, 2003

           

          2 Hasan Kosebalaban “The crisis in Israeli Turkish relations. What is its strategic significance?” Middle East policy, Vol. XVII no.3

           

          3 http://www.guardian.co.uk/world/2011/mar/19/syria-police-seal-off-daraa-after-five-protesters-killed

           

          4 L’iniziale riluttanza delle autorità Israeliane ad esprimersi sulla rivolta in Siria può essere spiegata anche con una certa preoccupazione verso la prospettiva di una caduta di Al-Asad.

           

          5 Sulla “nuova politica turca” vedi Tiberio Graziani, “Mediterraneo ed Asia Centrale:le cerniere dell’ Eurasia”, Eurasia, 1/2011

           

          6 http://www.guardian.co.uk/world/2011/jun/23/iran-ahmadinejad-ally-corruption-arrest

           

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          Propedeutica alla teoria politica

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          L’Autore si pone l’obiettivo di delineare, brevemente ma in modo esaustivo, i contenuti e le finalità della teoria politica. Secondo l’autore tale disciplina deve occuparsi, innanzittutto, dei problemi prepolitici o metapolitici, vale a dire di tutte le questioni che riguardano le origini dell’insediamento dell’uomo nel mondo. Dopodichè si presenta la necessità di prendere in considerazione la politica con le sue tre importanti finalità, vale a dire il bene comune, la sicurezza esterna e la concordia interna e la prosperità. Infine, l’Autore sostiene che si devono analizzare le questioni relative alla cosa pubblica, quali il concetto di Popolo, Nazione, Stato, partiti politici, sistemi partitici, regimi politici e di governo, comunità internazionale, rapporti internazionali, diplomazia e organismi internazionali.

           

           

          Cominciamo dalla terminologia. Teoria, termine che proviene dal greco theorein = considerare, indica un insieme d’idee che sono sistematicamente rapportate tra loro e che appartengono tanto alla filosofia quanto alla scienza.

          Il filosofo si domanda sul perché delle cose, invece lo scienziato s’interroga sul come.

          Ogni teoria politica si fondamenta sulla base di una concezione specifica dell’uomo, del mondo e dei suoi problemi. Per avallare quest’affermazione, bisogna tener presente che per i greci l’uomo è antthropos, che etimologicamente significa “colui che indaga su ciò che ha visto”, “colui che prende in esame”. Laddove per i romani l’uomo è homo che proviene da humus con il significato di “colui che è fermo sulla terra”, “il terracqueo”. Se proseguiamo avanti con quest’approssimazione etimologica possiamo spiegare il perché la filosofia era dei greci e il diritto dei romani, che sono le conquiste più genuine e specifiche da loro raggiunte.

          Allo stesso modo abbiamo avuto durante il secolo XX teorie politiche marxiste, liberali, fasciste, socialdemocratiche e, nel nostro ambito, peronisti, radicali e conservatrici.

          Innanzitutto, questa disciplina deve prendersi cura dei problemi prepolitici o meta politici come quelli che concernono le origini dell’insediamento dell’uomo nel mondo e che svilupperemo in due punti: a) il nomos della terra e b) sul potere.

          Subito dopo viene l’obiettivo specifico della politica con le sue tre finalità: il bene comune, la sicurezza esterna e la concordia interna e, per ultimo, la prosperità. Infine, si conclude con l’analisi dei temi e dei problemi della cosa pubblica, che sono quelli che preoccupano alla comunità nel suo insieme, come: Popolo, Nazione, Stato, partiti politici, sistemi partitici, regimi politici e di governo, la comunità internazionale, i rapporti internazionali, diplomazia e organismi internazionali.

           

           

          Il nomos della terra

           

          L’idea che abbiamo della norma deriva dal termine nomos che proviene dal verbo greco nemein che ha tre significati: 1) raccogliere, prendere, cogliere o appropriare, 2) spartire, dividere, limitare o distribuire e 3) approfittare, sfruttare, utilizzare o dare possesso.

          Questo concetto di nomos della terra, è fondatore e non scaturisce da un principio d’ordine precedente. Esso stabilisce il rapporto fondante dell’uomo con la natura e con gli altri uomini, c’indica l’originario e primigenio rapporto dell’uomo con la terra. In tal modo, l’uomo in quanto raccoglitore e cacciatore osserva come la terra ha in se stessa una misura interna di giustizia: a chi si sforza essa offre il raccolto e la caccia.

          In un secondo momento l’uomo, in quanto agricoltore, ara la terra e fissa i confini tra ciò che è fecondo e ciò che è incolto. La terra concede una seconda misura di giustizia: il raccolto per chi lo lavora.

          In un terzo momento, l’uomo smette il suo peregrinare e s’insedia, si stanzia sulla terra distribuita e delimitata con il fine di sfruttare e approfittare con regolarità i suoi frutti. Da questo momento sorge la politica, la quale altro non è che l’azione che consente di organizzare ciò che è politico. Tutti i nomos implicano un rapporto di potere.

          Stando a Platone – ormai già vecchio nel suo ultimo e breve dialogo Epinomis o sulle leggi -, i tratti tipici che rendevano i greci superiori ai barbari erano: 1) l’educazione o paideia, 2) possedevano l’aiuto dell’oracolo di Delfi e 3) la loro fedeltà nell’osservanza delle leggi. Questi tre tratti hanno fatto in modo che i greci perfezionassero tutto quello che hanno ricevuto dai barbari. Questi tre elementi hanno consentito ai greci d’inventare e di avere politica.

           

           

          Il politico e la politica

           

          Molto opportunamente il celebre intellettuale greco contemporaneo, Cornelius Castoriadis, asserisce che: i greci non furono gli inventori del politico, nel senso della dimensione di potere esplicito da sempre presente in ogni società, inventarono, o detto in altre parole, crearono la politica come scienza che organizza detto potere1.

          Questa distinzione essenziale ci mette sull’avviso a proposito della confusione che ancora oggi persiste tra il politico – dimensione del potere esplicito – e la politica – istituzione congiunta della società -.

          Noi vogliamo richiamare l’attenzione sul fatto che anche quando dalla decade degli anni ’70 cominciò ad imporsi nelle diverse lingue europee una distinzione che buona parte del secolo XX aveva ignorato tra: il politico (politisch, le politique, political) e la politica (politik, la politique, politics)2, nel nostro ambiente universitario, accademico e politico qualche volta è ignorato del tutto. Fondamentalmente è l’effetto di una concezione funzionalista e sociologista dei nostri scientisti politici.

          In tal modo il politico è ciò che è durevole, s’indirizza verso l’essenza, poiché la comprensione del problema corrisponde all’essere della politica. Come categoria speciale dell’essere politico appartiene alla sfera della natura umana. Invece, la politica è ciò che è perituro, l’attività dell’uomo per organizzare il politico appartiene al dominio del fare.

          La cosa propria e specifica della politica è il politico il cui dominio è determinato da ciò che è pubblico, il quale si caratterizza dalla distinzione che esiste tra amico e nemico ma questo nemico non è il nemico privato (inimicus) bensì il nemico pubblico (hostis) colui che m’importuna o mi contrasta. Quando nel 1965 si portò a termine nella Sorbona la difesa di una tesi su questo tema, il professor Jean Hyppolite, traduttore di Hegel, e importante cattedratico contestò quella tesi asserendo: Ho commesso un errore, pensavo che lei non avrebbe mai finito la sua tesi. Ma se lei avesse ragione e la nozione di nemico costituisce il punto centrale del politico, allora non mi resta altro che seminare il mio giardino. Al che il candidato rispose: Lei non ha commesso un errore, bensì due. Per quanto concerne il primo l’ha riconosciuto e non insisterò più, il secondo, invece, è credere che sia sufficiente coltivare il suo giardino per eliminare il nemico. J. Hyppolite rispose: Se lei persiste non mi resta altro che suicidarmi.

          – Allora sarà il suo terzo errore professore, rispose il candidato, giacché se lei si toglie la vita il suo giardino rimarrà senza protezione, sua moglie e i suoi figli anche e il suo nemico avrà vinto.

          Ribadiamo che il nemico non può essere altro che il nemico pubblico (hostis), poiché tutto ciò che concerne la comunità diventa, per solo questo fatto, questione pubblica. Il noto brano evangelico si riferisce al perdono del nemico privato, quando afferma: diligite inimicos vestros = Amate i vostri nemici (Mt. 5,44) e non diligite hostis vestros.

          Il pensiero light, il pensiero debole, il pensiero politicamente corretto ha visto in questa distinzione essenziale un appello alla guerra più che alla convivenza e ha tentato diluire, persino cancellare, questa distinzione per rimpiazzarla con quella di avversari o amici con una visione opposta, senza avvertire che la faccenda non si limita ad una questione di nomi più o meno gradevoli all’udito, bensì di essenze.

          L’idea di raggiungere la pace tra gli amici è assurda, poiché di natura l’amicizia è uno stato di pace. In realtà, la nozione di nemico politico (hostis) è quella fondamentale per capire nella sua completezza l’idea di pace. In questa forma possiamo affermare la nozione che sostiene che chi rifiuta l’idea di nemico è un nemico della pace (anche malgrado lui) perché fare la pace vuol dire farla con un nemico.

           

           

          Sul potere: Legalità e Legittimità

           

          Alla distinzione che esiste tra pubblico e privato e a quella che esiste tra amico e nemico, adesso dobbiamo aggiungere quella che intercorre tra il comando e l’obbedienza o detto in termini politologici, tra governanti e governati.

          La natura del potere richiede due condizioni indispensabili: che non sia sporadico ma stabile, permanente e continuo, caratteristiche che in politica definiscono la sua maggiore o minore istituzionalizzazione, e che sia collettivo, il che obbliga al potere politico di essere obbligatoriamente pubblico.

          È legittimo tutto ciò che si fonda nel diritto, nella ragione e nel valore. Nel diritto la legittimità si vincola alla legalità, in ordine alla ragione e al vero e in ordine al valore e a ciò che è buono. Attualmente, la teoria politica non può essere intesa come quella di un tempo, in altre parole solo una teoria del potere, bensì deve essere intesa come una teoria dell’autorità legittima.

          Si distinguono tre forme di legittimità che accompagnano l’esercizio del dominio o del governo: a) quella tradizionale, che poggia nella validità perenne delle tradizioni, b) quella di tipo carismatico, che si basa nella sottomissione nei confronti del valore esemplare di una persona, c) quella razionale o legale, fondata nella fiducia verso la legalità dei regolamenti e del diritto. Le prime due sono conosciute anche come legittimità di esercizio e la terza come legittimità di origine.

          Dunque, queste legittimità sono semplicemente formali, poiché solo caratterizzano alcuni tratti della legittimità, ma i principi reali o meta politici della legittimità sono i fini verso i quali si consacrano i diversi regimi politici.

          Esaminati dal punto di vista della teoria politica, disciplina della quale stiamo parlando, questi fini teorici sono tre: il bene comune, la sicurezza esterna e la concordia interna e la prosperità.

           

           

          L’oggetto specifico della politica

           

          La politica la possiamo definire non come l’arte di ciò che è possibile, secondo quanto affermato da Leibniz e ripetuto in seguito fino alla nausea, ma come l’arte di rendere possibile ciò che è necessario, come la definì Maurras, intendendo per necessario quelle carenze che l’uomo possiede per attuare la sua essenza. L’oggetto specifico della politica è costituito dalla riuscita dei tre fini appena menzionati: il bene comune, la sicurezza esterna e la concordia interna e la prosperità.

          In genere, tutto ciò che opera e, nello specifico l’uomo, lo fa per raggiungere un interesse o un bene, ecco perché il bene abbia l’effetto di causa finale. In questo modo, il bene o fine ultimo della politica è il raggiungimento del bene comune, che può essere inteso sotto le sue molteplici accezioni: eudaimonia o felicità in Aristotele, salus populi in Hobbes, interesse comune in Rousseau, bene dello Stato in Hegel, bene del paese in Tocqueville o bene comune in Freund. Di sicuro quel bene comune o bene del popolo consiste nella sicurezza, intesa come la protezione contro i nemici esterni, nella pace interna e nello sviluppo della ricchezza e del benessere dei suoi abitanti.

          In questo modo vediamo come in un primo momento – quello della sicurezza esterna – il presupposto del bene comune è condizionato dal rapporto amico – nemico e, in questo senso, il compito della politica consiste nel superare quest’avversione e stabilire la pace.

          Il raggiungimento della vita buona, il famoso eu zen greco o la bona vita romana, dal punto di vista della politica interna si denomina concordia = cum cordis che significa condividere il cuore, sentire allo stesso modo. Così come compagno proviene da cum panis, che vuol dire compartire il pane. La concordia presuppone il superamento dell’inimicizia interna. Questa concordia interna si fondamenta sulla partecipazione in un progetto comune, con dei valori da raggiungere, e che in politica s’intendono come obiettivi o fini.

          Osserviamo come la sicurezza e la concordia costituiscono i due aspetti di uno stesso bene, il fine della prassi politica, intesa come raggiungimento del bene comune o bene del popolo. Questi due aspetti assicurano la pace. Siccome la felicità presuppone un minimo di prosperità, non può esserci pace interna senza prosperità (lavoro, salute, educazione, giustizia).

          Osserviamo, pertanto, come la politica in quanto arte della realizzazione che cerca di rendere possibile ciò che è necessario ha, inoltre, l’esigenza d’essere efficace. Questa comunità di vedute e d’identità di sentimenti espressi mediante la concordia si concretizza nelle idee di Patria e di Popolo, di Nazione e di Stato, il che ci fa pensare al terzo e ultimo dei punti di questa propedeutica alla teoria politica.

           

           

          Patria e Popolo

           

          La patria come pater = terra dei padri, c’indica non solo il luogo di nascita, che non abbiamo scelto, ma anche il patrimonio e la tradizione comune, culturale, etnica, linguistica, religiosa che ci segna sin da quando esistiamo e che ci differenzia dal resto dei mortali. Alla patria è vincolato il paese e questo è legato con il paesaggio, ossia, quello spazio geografico e storico che ci comprende. Da ciò trae origine il nostro carattere di paesani.

          In questo modo i paesani, i figli del paese, conformiamo un popolo, vale a dire, una comunità di uomini e di donne uniti dalla comune coscienza di appartenere ad un mondo di valori (culturali, religiosi, linguistici, ecc.), ma non necessariamente con una coscienza politica comune. I popoli non decidono come devono essere, semplicemente sono, esistono. Quando posseggono una coscienza politica di ciò che vogliono essere, si passa all’idea di Nazione o a quella di appartenere al popolo di tale o quale Nazione.

           

           

          Nazione e Stato

           

          Possiamo definire brevemente la Nazione come progetto di vita storico che si dà un popolo quando si trasforma in una comunità politica. È il popolo quando possiede un proposito politico definito.

          L’idea di progetto (pro-iectum) significa, come il suo nome lo indica, qualcosa da realizzare, ma allo stesso tempo un progetto politico genuino esige un ancoraggio verso il passato, estasi temporale che il pensiero progressista rifiuta completamente, poiché quando esso si rivolge verso il passato lo fa sempre come vittima. L’idea dell’antico lo spaventa, perché l’avanguardia è il suo metodo.

          Nella politica odierna non solo esiste un’incomprensione storica, bensì, per quanto abbiamo appena detto, esiste un’incomprensione funzionale dell’idea di progetto.

          Dunque, ogni progetto si pensa genuinamente da una tradizione di pensiero nazionale, altrimenti sarebbe un prodotto della ragione illuminista, quindi si trasformerebbe in un nulla di progetto o in un progetto inverosimile.

          Il fine della politica nazionale come architettonica della nostra società, deve scaturire da un fondamento metafisico che mi suggerisce che la realtà (l’ente) è ciò che può essere di più. È da quel poter essere dove deve agire la politica se è tale e non sola apparenza. E se agisce su ciò che può arrivare ad essere, lo deve fare con pro-getti, di modo che la politica potrà essere il principale agente del cambio della realtà economica, sociale e culturale. Altrimenti continuerà a convalidare e a consolidare lo statu quo vigente.

          Per quanto concerne lo Stato inteso come la nazione giuridicamente organizzata, non possiede un essere in sé (Stato fine come pensò il fascismo) bensì esiste negli e attraverso i suoi apparati. Non è neanche la macchina per mantenere il dominio di una classe sull’altra (come pensò il marxismo-leninismo), bensì è lo strumento del governo che serve per la gestione e il raggiungimento del bene comune, inteso questo come felicità del popolo e grandezza della nazione.

           

          (traduzione di Vincenzo Paglione)

           

           

          * Alberto Buela, filosofo, è membro del Centro de Estudios Estratégicos Suramericanos e del Comitato Scientifico di “Eurasia”.

           

           

          Note:

           

          1 Cornelius Castoriadis, Le monde morcelé, Paris, seuil, 1990, p. 125. Quest’autore riprende la distinzione che esiste tra la politica e il politico, formulata dall’eminente politologo e giurista Carl Schmitt e sviluppata successivamente, nei nostri giorni, nella scuola del realismo politico da autori come Julien Freund, Gianfranco Miglio o Michel Maffesoli.

          2 Jerónimo Molina, Julien Freund: lo político y la política, Madrid, Sequitur, 2000, p. 34

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          Kim Jong-Il rafforza i rapporti con la Russia e apre al Sud

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          Il 24 agosto il leader coreano Kim Jong-Il ha incontrato il presidente della Federazione russa Dimitri Medvedev in una base militare nei pressi di Oulan-Oude, in Siberia.

          Durante l’incontro bilaterale, Kim Jong-Il ha confermato la possibilità di costruire un oleodotto che, attraversando il territorio della RDPC collegherebbe l’estremo oriente russo con la Corea del Sud (un’infrastruttura da 1.100 km). L’accettazione della proposta da parte del massimo esponente della politica nordcoreana ha colto di sorpresa i responsabili del governo di Seul.

          Il recente scontro a fuoco tra i due eserciti (15 agosto) ha inasprito i rapporti già tesi tra i due governi: da Seul, a differenza di quanto traspare dai giornali occidentali, non giungono proposte di riappacificazione e le provocazioni militari sono all’ordine del giorno. Ovviamente un’apertura di questo livello non è vista di buon occhio, poiché rischia di far “cadere il palco” della propaganda che vuole il nord come governo fomentatore dell’odio. Inoltre il Sud teme di diventare troppo dipendente da Pyongyang.

          Nonostante le paure di Seul, l’oleodotto è fondamentale per soddisfare il fabbisogno energetico dello stato sudcoreano, uno dei più grandi acquirenti di energia al mondo.

          La Corea Popolare si è detta già decisamente favorevole alla costruzione del oleodotto, come confermato già a luglio ai responsabili della Gazprom, anche perché la gestione porterebbe nelle casse di Pyongyang oltre 100 milioni di dollari all’anno, oltre a garantire la copertura della necessità energetica del paese socialista.

          Tra Russia e RDP Corea è già in fase di sviluppo un progetto per la costruzione di una ferrovia tra Khasan e Radgin, che appare come il primo passo per una rete ferroviaria trans-coreana. Inoltre Mosca ha già annunciato l’avvio di un programma di aiuto alimentare in RDPC.

          Durante l’incontro russo-coreano, Kim Jong-Il ha anche confermato l’intenzione di riprendere i colloqui a sei sul dossier nucleare, senza condizioni preliminari. Intenzione ripetuta anche nel colloquio con il Presidente cinese Hu Jintao, come confermato dall’agenzia di stampa cinese Xinhua.

          Anche su questo piano le reazioni americane e sudcoreane sono fredde.

          Il leadere coreano ha anche confermato di essere disposto ad intraprendere un cammino comune con la Corea del Sud per la denuclearizzazione completa della penisola coreana.

          Con questo incontro la Russia si pone come mediatrice nell’annosa questione che attraversa il 38° parallelo e come garante di un’apertura della Corea popolare.

          Nello stesso tempo, Pyongyang conferma che la sua strategia politica, pur energica e determinata, non è indirizzata a perseguire una politica aggressiva nei confronti del Sud.

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          Le relazioni russo-statunitensi, tra reset e nuovi screzi

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          Con il seguente articolo cercheremo di analizzare gli effetti dell’incontro Lavrov – Clinton e del caso Magnitsky sulle relazioni tra Mosca e Washington. Dopo un sintetico background dei principali problemi che i due Paesi dovevano discutere, analizzeremo successi e fallimenti dell’incontro citato per poi concentrarci sul’importanza della presa di posizione statunitense riguardo a Magnitsky e su quanto questo atto sembri conflittuale con la politica perseguita da Washington. Chiuderemo con alcune considerazioni sui possibili sviluppi futuri.

           

          Il recente viaggio della delegazione russa guidata dal Ministro degli Esteri Sergei Lavrov a Washington e l’incidente diplomatico scaturito dal caso Magnitsky fanno riaprire il dibattito sull’efficacia del c.d. reset delle relazioni russo-statunitensi voluto dal Presidente Obama. Nel seguente articolo cercheremo di fare il punto della situazione seguendo questo schema:

           

          – inizieremo con una breve presentazione della situazione diplomatica e dell’incontro Lavrov – Clinton;

          – in seguito, parleremo del peso del caso Magnitsky sullo stato delle relazioni tra i due Paesi;

          – concluderemo infine con delle valutazioni sugli eventi citati ed i potenziali sviluppi futuri;

           

          Apriamo la trattazione con alcune sintetiche note di background.

          Dal 2009, i Presidenti Obama e Medvedev hanno deciso di concerto di “ripartire da zero” in tema di relazioni internazionali tra i loro rispettivi Paesi, cercando di lasciarsi alle spalle le tensioni del periodo Bush jr. Il c.d. tentativo di reset ha visto le due controparti concentrarsi su di una rinnovata cooperazione, le cui principali tappe sono individuabili nei seguenti eventi: consenso di transito sul territorio russo per le truppe NATO operative in Afghanistan; lancio dell’accordo New START in tema di disarmo nucleare; operazioni antiterrorismo congiunte tra militari USA/NATO e russi.

           

          A fronte di questi successi, questo nuovo appeasement non è riuscito ancora a sciogliere alcuni nodi critici, si pensi ad esempio alle tensioni georgiane e le discussioni sulla difesa missilistica europea, senza dimenticare la “lotta per procura” in tema di approvvigionamento energetico dell’Europa, i nuovi screzi scaturiti dalla gestione della crisi libica e sulla gestione dei diritti umani sul territorio russo – con rinnovata attenzione al caso Magnitsky, di cui riparleremo infra.

          Su queste contrastanti basi è stato presentato, con grande spinta mediatica da ambo le parti, il viaggio di una delegazione del Cremlino a Washington, culminato con l’incontro tra il Ministro degli Esteri russo Lavrov e Hilary Clinton per il 13-14 luglio: scopo del meeting era quello di “fare il punto” sulla rinnovata cooperazione tra le due potenze, gettando le basi per lavorare sui futuri sviluppi delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi.

           

          Ambo le parti hanno lasciato trapelare un notevole ottimismo sulle potenzialità dell’incontro. Anche sui media governativi del Cremlino si parlava di un meeting dai possibili grandi risultati, pur senza fornire le basi adeguate sulle quali costruire queste assunzioni. In una lunghissima intervista rilasciata al magazine online RT (ex Russia Today) una settimana prima della partenza per Washington, Lavrov ha sottolineato gli ottimi risultati raggiunti dal reset per poi sottolineare i punti caldi del meeting, in particolare in tema di cooperazione militare e diplomatica.

           

          Una volta concluso l’incontro, ambo le parti confermavano lo stesso entusiasmo ostentato in precedenza: limitiamoci per ora ad elencare i temi principali e gli accordi di massima.

          In tema di difesa missilistica europea si è parlato dell’intenzione di cooperare onde evitare screzi e di “impegno di Obama e Medvedev per intavolare una futura possibile cooperazione”, senza però dare né dettagli né calendari.

          Riguardo allo START, se ne è parlato solo per citarne “l’ottimo funzionamento”, senza ulteriori approfondimenti.

          E’ stato ovviamente citato il caso Libia, alquanto scottante viste le numerose critiche fatte dal Cremlino all’azione della NATO, senza contare il mancato appoggio di Mosca a qualsivoglia operazione militare sin dall’inizio della crisi. Ebbene, in questo frangente la Russia si è definita, nonostante alcune “leggere differenze”, “più vicina agli USA che all’Europa”, pur senza fornire basi pratiche a tale affermazione; la Clinton ha poi parlato dell’impegno ad accelerare il processo politico in Libia e la cacciata di Gheddafi.

          Si è parlato del caso del nucleare iraniano, riguardo al quale le due potenze hanno affermato l’impegno congiunto, nel quadro IAEA, per controllare l’azione del governo di Teheran.

          In tema commerciale, Lavrov ha riferito di un incontro positivo tra il Ministro russo per lo Sviluppo Economico Nabiullina ed Obama, per poi sottolineare come gli USA si siano definiti “ben disposti” a patrocinare l’ingresso della Russia nel WTO. Infine si è parlato di impegno a perseguire la semplificazione del regime di visti per viaggi d’affari e la cooperazione in tema di adozioni a distanza.

           

          Nonostante questo clima positivo – al quale hanno contribuito anche alcuni media – le relazioni tra i due Paesi hanno incontrato un nuovo punto di minimo a causa del ritorno in auge dell’impegno USA sul caso Magnitsky. Riassumiamo brevemente i fatti: Sergei Magnitsky era un legale della Hermitage Capital, coinvolto come testimone in un caso di corruzione di ufficiali governativi. In seguito, visto il suo interesse per faccende “scomode”, lo stesso Magnitisky è stato prima accusato e poi incarcerato per corruzione, per poi perdere la vita in carcere nel 2009, in circostanze poco chiare.

          Il Senato statunitense già dallo scorso maggio era al lavoro su di una proposta di legge – il Sergei Magnitsky Act – per creare una lista nera in tema concessione visti ai danni di soggetti coinvolti in atti lesivi verso attivisti russi per i diritti umani – progetto questo ampiamente mal visto dal Cremlino. Con l’entrata in vigore dell’atto, numerosi ufficiali governativi russi sono stati impossibilitati ad entrare in territorio USA, per lo scontento generale del governo di Mosca che ha immediatamente chiesto una revoca del decreto pena rappresaglie.

          La Casa Bianca ha risposto negativamente, in nome dell’impegno degli Stati Uniti nella promozione dei diritti umani in Russia come nel resto del mondo.

          La reazione di Mosca non si è fatta attendere: il Cremlino ha risposto con una blacklist uguale e contraria, che mette al bando ufficiali statunitensi coinvolti nei casi che vedono cittadini russi sottoposti a giudizio negli USA. Ma la rappresaglia non finisce qui: la Russia ha comunicato che, se la lista nera non sarà revocata, il supporto alle truppe NATO (in Afghanistan in particolare) potrà essere immediatamente interrotto, aprendo la porta ad una nuova crisi strategica tra le due potenze.

           

          Arricchiamo i fatti con un’ultima nota: il supporto militare russo alla Siria, altro topic ignorato durante il detto meeting, è stato denunciato pubblicamente il 12 agosto dalla Clinton stessa, che ne ha chiesto l’immediata cessazione. La risposta moscovita non è stata ancora resa pubblica.

           

          Sulla base di questi fatti, è opportuno fare alcune riflessioni, iniziando dai contenuti del tanto pubblicizzato meeting di Washington.

           

          L’incontro di luglio ha vagamente la connotazione di una sorta di evento “promozionale” per le relazioni internazionali dei due Paesi, più che un vero e proprio nuovo step nel riassetto dei rapporti tra le due potenze. Il meeting ha fondamentalmente confermato i risultati raggiunti dalle due nazioni tramite il dialogo, con alcune aggiunte configurabili un po’ troppo come di intenti e di principio che realmente pratiche. La vera novità giace sul piano commerciale e sull’integrazione russa nel sistema WTO, fattore da troppo tempo pendente e che di certo necessita di una soluzione. Tenere la Russia alla berlina è sempre stata una decisione statunitense, e dunque l’idea di integrazione di Obama si configura come un importante passo avanti nei rapporti tra i due Paesi. L’obiettivo USA è quello di sfruttare l’intesa economica come base per la normalizzazione permanente delle relazioni internazionali, accanto alla costruzione di una più salda base comune per il contenimento dell’Iran: in ogni caso, visto il comportamento storico degli USA, il fatto aiuta la percezione esterna a vedere il tutto come una vittoria diplomatica russa, che vede soddisfatte le proprie richieste di integrazione dopo “appena” 18 anni – tutto questo a danno ulteriore della reputazione della politica estera obamiana in patria.

          In ambito prettamente militare e strategico si sperava di più dal punto di vista del problema dei “nuovi euromissili” e di altri temi caldi, sui quali è ricaduto un assordante silenzio. Non si è parlato della situazione dei confini georgiani né degli interessi configgenti nel Caucaso, per non parlare dell’ “abitudine” russa ad approvvigionare di armamenti Paesi “non graditi” agli USA. Infine, anche le discussioni di principio sui diritti umani, tanto cari alla Casa Bianca solo quando non è lei a violarli, sono state assenti ingiustificate: tutto questo è, da un certo punto di vista, facilmente esplicabile in nome del generale clima di appeasement creato per e dal meeting. Parlare di Georgia e di carceri russe con Mosca è sempre motivo di screzio, e pertanto si è preferito lasciare tali questioni fuori della porta per porre l’enfasi sui risultati ottenuti – ed ottenibili – in altri campi.

          Ma proprio in quest’ottica sembra ancora più una “stecca” l’idea statunitense di fare muro sul caso Magnitsky: era ovvio che legiferare in quel modo sul tema si concretizzasse come una fortissima presa di posizione nei confronti dell’azione del governo russo sul proprio territorio, e che Mosca prendesse il tutto come una “invasione di campo” del proprio spazio giuridico e politico – attenendoci ai fatti, gli USA hanno oggettivamente legiferato per colpire cittadini di un altro Paese sospettati di crimini in un altro Paese.

          Washington ha fatto una tipica mossa da Guerra Fredda, atta a delegittimare internazionalmente il proprio avversario sul piano politico-internazionale senza badare troppo alle conseguenze di rappresaglia: e se davvero Mosca metterà in pratica quanto minacciato, l’intero lavoro del tanto decantato reset subirà una battuta d’arresto di proporzioni storiche.

           

          La politica di Obama oscilla tra tentativi di riconciliazione e azioni aggressive gestite in maniera opinabile e poco lungimirante, specchio dell’epoca di tensioni che si cerca forzosamente di superare, apparentemente senza averne la vera volontà politica: per ogni passo avanti se ne fanno due indietro.

          I rigurgiti di durezza nella politica della Casa Bianca potrebbero anche essere visti come un tentativo del governo di non alienarsi troppe simpatie sia nelle due Camere che nell’elettorato: la politica di Obama viene percepita come molto debole in maniera trasversale, e pertanto occasionali esibizioni di “muscoli” potrebbero aiutare il Presidente a mantenere la propria posizione alle prossime elezioni, o almeno dargli una mano in ambiti differenti dell’attività governo. Non dimentichiamo inoltre il ruolo della frangia libertaria, ancora più aggressiva nei confronti del Presidente rispetto ai repubblicani “ortodossi”: i vari supporters del Tea Party, nell’ambito della già attivata maratona elettorale di Ron Paul, si configurano come i principali demolitori della politica obamiana tramite campagne stampa capillari.

           

          Le anomalie politiche del Cremlino, invece, mettono Mosca in una posizione particolare. Il ruolo del “poliziotto buono” viene interpretato con perizia dal Presidente Medvedev, reduce da numerosi successi politici internazionali, mentre l’altra faccia del governo russo, Vladimir Putin, preferisce rappresentare ancora l’ideale di dura “politica di potenza” di una Russia vecchio stampo. Già poco dopo il ritorno di Lavrov in patria, Putin ha colto l’occasione per esprimere il suo dissenso vero la politica estera di Washington, con alcune affermazioni riconducibili più a delle minacce un po’ vuote che a delle vere e proprie dichiarazioni di peso – “minacce” che si sono intensificate dopo la pubblicazione della blacklist.

          La duplicità dell’esecutivo russo si può inquadrare come il tentativo di soddisfare al contempo delle esigenze di politica interna ed estera. Il Medvedev dai toni meno aggressivi, ufficialmente slegato dalle logiche della “vecchia Russia”, serve a presentare al mondo un Paese incline al dialogo e all’abbandono di vecchie rivalità. Putin invece rappresenta l’opposto, quello che piace alla maggior parte dell’elettorato di Russia Unita, e cioè un “duro” che è in grado di tener testa agli Stati Uniti e che può riportare la Russia agli antichi splendori. L’anomalia sulla quale si basa il sistema politico di Mosca si tramuta in un interessante punto di forza: il Cremlino ha sia un leader “per la nazione” che un leader “per l’estero”, potendo così mantenere una linea duplice senza perdere né consenso in patria né credibilità internazionale – cosa che gli USA non possono fare. Sarà comunque interessante vedere come si scuoterà questo equilibrio interno russo dopo le prossime elezioni, con un possibile “scambio di posto” tra i due politici.

           

          In conclusione, non resta che parlare del potenziale futuro delle relazioni russo-statunitensi.

          Allo stato attuale dei fatti, tiene banco il braccio di ferro innescato dagli USA sul caso Magnitsky: bisognerà vedere se l’escalation di rappresaglie partirà o meno. La Russia potrebbe certo giustificare l’interruzione dei buoni rapporti con gli USA sulla base del Magnitsky Act, ma un simile modus operandi potrebbe comunque rivelarsi un’arma a doppio taglio: si darebbe a Washington – e di conseguenza al resto del mondo – la dimostrazione di essere un Paese chiuso e un partner poco affidabile. Mosca potrebbe comunque disinnescare il problema allentando di poco la presa sui dissidenti (cosa che sta tentando di fare in questi giorni), quanto basta per recuperare punti all’estero e poter “controbattere” meglio gli USA, togliendo loro l’arma morale. Accanto a questo rimane il caso Siria – al momento solo embrionale – che comunque potrebbe essere un’ulteriore variabile di irrigidimento delle relazioni, tenendo in mente le pessime basi gettate con l’affare Magnitsky. Sperando che le prospettive di integrazione economica contribuiscano a mantenere savi i governi delle due potenze, non resta che attendere le prossime mosse del Cremlino per poter effettuare nuove valutazioni.

          *Giuliano Luongo collabora come analista per il progetto “Un Monde Libre” della Atlas Economic Research Foundation

           

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          Tripoli: capo di un gruppo islamista alla guida dei “ribelli” libici

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          Fonte: http://www.voltairenet.org/Tripoli-ex-lider-de-un-grupo

          La ribellione armata di Tripoli, secondo quanto riportato giovedì scorso dal giornale argentino El Khabar, sarebbe stata guidata da un ex emiro del Gruppo islamico dei combattenti libici ( (LIFG), Abdelhakim Belhadj. Secondo la stessa fonte, Abdelhakim Belhadj sarebbe stato detenuto, in passato, nel 2004, per fatti di terrorismo dagli statunitensi in Asia e in seguito inviato in Libia.

          Nel marzo del 2010, Saif Al Islam Gheddafi, figlio del leader libico, avrebbe liberato Belhadj in seguito ad una amnistia nazionale fatta per centinaia di islamismi (fondamentalisti) detenuti in Libia. Il gruppo di Belhadj, legato, secondo le autorità libiche, ad Al Qaeda, aveva dichiarato di rinunciare alla lotta armata.

          Secondo il quotidiano El Khabar, il fatto che proprio questo ex emiro –  fondamentalista, legato ad un gruppo islamico – sia stato nominato a capo della “liberazione” di Tripoli dai “gheddafiani”, dimostra che il salafismo (movimento sunnita che auspica un ritorno all’Islam originario basato sul Corano e la Sunna, ndr.) è predominante nell’opposizione armata libica, nota con l’etichetta di “ribelli”.

          Inoltre, la frequente apparizione di Belhadj sugli schermi di Al-Jazeera (TV che appartiene al Qatar, un paese coinvolto nell’attacco alla Libia con gli Stati Uniti, la Francia e  l’Inghilterra) fa prevedere un suo “ruolo chiave” nella Libia di domani.

          Si ricorda anche che Abdelhakim Belhadj, attualmente potente governatore militare di Tripoli del fronte dei “ribelli”, è  stato ospite nelle prigioni della CIA ed è noto alle autorità statunitensi.

          Meglio conosciuto in passato con il nome di Abdallah Abu al-Sadek, Abdelhakim Belhadj vanta un eccellente curriculum islamista. Coinvolto nello “jihad” in Afghanistan nel 1988, la sua organizzazione contava, prima degli attacchi dell’11 settembre a New York, due campi di addestramento in Afghanistan, dove sono stati accolti ed addestrati volontari stranieri di Al Qaeda. La sua collaborazione con i servizi segreti occidentali proverebbe che Al Qaida è stata sempre pilotata dalla CIA.

          Manifestazioni contro Muammar Gheddafi, al potere da oltre 40 anni, sono scoppiate in Libia a metà febbraio 2011, prima di tramutarsi in una ribellione, sostenuta militarmente dai paesi della NATO.

          Il 22 agosto i ribelli hanno – grazie all’aiuto militare delle potenze occidentali – finalmente preso la capitale, ed ora controllano più del 90% del territorio. Tuttavia, finora, ci sono ancora molte sacche di resistenza pro-Gheddafi in città.

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          Iraq: una rivoluzione araba occultata

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          Fin dal 30 gennaio 2011, da Soulinanya a Bassora (Kurdistan iracheno), passando per Mosul e piazza Tahrir di Baghdad, decine di migliaia di civili iracheni hanno marciato tutti venerdì al grido di : “Via Maliki!”, “Barzani fuori!”, “No all’occupazione!”.

          La stampa internazionale in un primo momento diede conto delle manifestazioni e della loro sanguinosa repressione salvo poi calare una spessa coltre di silenzio sugli ulteriori sviluppi della situazione.

          Ciò ha permesso al Primo Ministro Nouri Al Maliki, trincerato dietro le mura fortificate della Zona Verde, di celebrare l’Iraq come “La regione più sicura del mondo arabo”.

          Un altro modo per intimare giornalisti curiosi di “Circolare, non c’è niente da vedere…”.

          Paesi del tanto peggio tanto meglio

          Il Pew Research Center (PRC) si occupa di verificare e catalogare gli argomenti trattati dai mezzi di comunicazione.

          Dalle analisi effettuate da tale istituto emerge che il 56% dei temi trattati negli Stati Uniti nell’arco temporale compreso tra il 31 gennaio e il 6 febbraio scorso riguardava i problemi dei paesi arabi tra cui l’Iraq, mentre alla fine di aprile la percentuale relativa al medesimo argomento non superava il 12%.

          Gli articoli concernenti l’Iraq non riguardavano altro che gli attentati, nonostante le manifestazioni si svolgessero regolarmente.

          “Ciò delinea una visione molto distorta del paese”, ha concluso il think tank in questione.

          A causa dell’occultamento degli eventi, i ricercatori ripiegano quindi su alcune agenzie indipendenti irachene come Awsat Al Iraq oppure, per quanto riguarda il Kurdistan, sui siti Rudaw.net o KurdishMedia.com.

          Una delle principali fonti di informazione sugli sviluppi della contestazione in Iraq corrisponde alla pagina di Facebook della Grande Rivoluzione irachena, ma non per molto tempo ancora.

          In effetti, il governo si appresta ad assimilare a un “crimine cybernetico” la diffusione su internet di messaggi che incitano a manifestare o che si occupano di diffondere notizie relative a incontri antigovernativi, argomentando che tali iniziative turberebbero l’ordine pubblico e potrebbero ipoteticamente degenerare dando luogo a “ribellioni armate”.

          Coloro che contravvengano a tali imposizioni rischiano il carcere a vita e da 25 a 50 milioni di dinari d’ammenda (corrispondenti rispettivamente a 16.250 e 32.500 euro).

          Per niente impressionate dalle minacce del governo, più di 36.000 persone si sono iscritte ad alcuni social network per partecipare attivamente al prossimo raduno di contestazione, ribattezzato Alba di liberazione, che si terrà il 9 settembre in piazza Tahrir di Bagdad e all’interno dei governatorati.

          Tra i suoi organizzatori vi sono i promotori della Grande Rivoluzione irachena e i membri dell’Alleanza del 25 febbraio, del Movimento popolare per la salvaguardia di Kirkuk oltre a studenti e organizzazioni giovanili dell’Iraq libero.

          Chi ne ha sentito parlare, nel momento in cui gli organi di informazione fornivano la loro lettura tratta da dichiarazioni menzognere rilasciate dal Consiglio Nazionale di Transizione libico e da comunicati non verificabili emessi da ignote organizzazioni siriane?

          A giudicare dal suo discorso tenuto nel maggio del 2011 e dedicato alle rivoluzioni arabe, il Presidente Obama non deve esser, evidentemente, rimasto contrariato dal fatto che l’Arabia Saudita, gli Emirati del Golfo e l’odierno Iraq siano tra i paesi meno democratici al mondo.

          I “100 giorni” che, a fine febbraio, Nouri Al Maliki si era concesso per migliorare i servizi pubblici, ridurre la disoccupazione e sradicare la corruzione, non sono stati altro che polvere gettata negli occhi degli iracheni, ai quali non è rimasto che manifestare nuovamente la propria collera all’inizio di giugno.

          Human Right Watch (HRW) riferisce che a Bagdad, il 10 giugno, dei teppisti sostenitori di Maliki armati di bastoni, coltelli e tubi di ferro hanno violentato alcune donne e aggredito dei civili intenti a manifestare.

          Centocinquanta tra poliziotti e militari in borghese hanno infiltrato il corteo.

          Il 17 e il 24 giugno, le forze di sicurezza che avrebbero dovuto proteggere i manifestanti hanno contribuito attivamente ad aprire la strada ai teppisti.

          In Kurdistan, dove regnano nepotismo e corruzione, si sono verificati gli scontri più violenti.

          Swrkew Qaradaxi, un giovane di 16 anni ucciso a Soulimaniya, nello scorso febbraio, dai miliziani di Barzani è stato assurto a simbolo della contestazione.

          Suo padre, ex Peshmerga [termine che contraddistingue i guerriglieri indipendentisti curdi d’Iraq], accusa la cricca dirigente di sparare sulla propria popolazione per conservare il potere: “Saddam Hussein era un nemico esterno al Kurdistan – dice – ma ora ne abbiamo uno all’interno: il governo curdo uccide i curdi. E’ molto peggio”.

          Amnesty International chiede alle autorità regionali d’indagare sugli attacchi subiti dagli attivisti dei diritti umani: fucilazioni, rapimenti, torture.

          Il grottesco progetto governativo di parcheggiare i contestatori in tre stadi di Bagdad – in nome del diritto dei commercianti a non essere ostacolati dai manifestanti nell’esercizio delle proprie attività (!) – non era realizzabile.

          In caso di gravi pericoli – ovvero mettendo in pericolo la Zona Verde – Nouri Al Maliki, che assolve alle funzioni di Ministro della Difesa e di Presidente del Consiglio di Sicurezza Nazionale, si è assicurato nel marzo scorso il sostegno del generale curdo Babacar Zebari, Capo di Stato Maggiore dell’esercito.

          Quest’ultimo, favorevole al mantenimento delle truppe americane in Iraq, si è detto pronto ad affrontare qualsiasi minaccia… Interna.

          Traduzione di Giacomo Gabellini

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          Libia: le quattro verità dell’ex capo del DST Yves Bonnet

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          Fonte: http://algerie.senego.com/libye-les-quatre-verites-d%E2%80%99yves-bonnet-l%E2%80%99ancien-patron-de-la-dst 25/08/2011

          Yves Bonnet, Prefetto emerito, ex capo della Direzione della sorveglianza del territorio (DST) e fondatore del Centro Internazionale per la Ricerca e Studi sul Terrorismo (AVT-CIRET), si è recato in Libia per un mese con una delegazione internazionale di esperti. L’obiettivo era quello di incontrare i belligeranti e di valutare la situazione nel paese. Commenta, per France-Soir, le conclusioni della sua relazione missione.

          Lei ha incontrato, in successione, i pro-Gheddafi di Tripoli e i ribelli del Consiglio nazionale di transizione (CNT) a Bengasi. Quali sono state le sue prime impressioni?

          In Occidente, in Tripolitania, c’è ancora uno stato di diritto. Tutto funziona. Questo non è il caso della Cirenaica (Bengasi).

          La vostra dichiarazione di missione descrive l’attuale conflitto una “guerra civile”, mentre Bernard-Henri Levy dice, intanto, che tutte le tribù libiche si sono unite contro il colonnello Gheddafi e il suo regime …

          Ciò che non ha potuto verificare BHL, è la reale popolarità di Gheddafi in Tripolitania. Non possiamo ignorare la dimensione tribale in questo paese, anche se il CNT lo nega, lo rifiuta. Prendete il Presidente della CNT di Tobruk: questo è semplicemente il capo della tribù locale. Quanto a Gheddafi, che ha in passato fatto molto per i Tuareg, prendendo le loro parti contro l’autorità del Mali (il popolo Tuareg vive tra la Libia e l’Algeria e alle frontiere del Mali, Niger e Burkina Faso). Ci siamo incontrati con i Tuareg del Niger, che hanno attraversato il deserto a piedi per venire a combattere al suo fianco.

          Il popolo di Tripoli può avere altra scelta che sostenere Gheddafi?

          Ci siamo spostati liberamente a Tripoli e abbiamo potuto parlare con la gente. La popolarità di Gheddafi si spiega con la situazione sociale della popolazione, che è particolarmente avanzata. Il regime non è tenero in termini di libertà, di sicuro. Ma il tenore di vita è buono. I libici sono spesso proprietari delle loro case, possiedono una macchina e le prestazioni sociali sono assicurate. Gli ospedali sono un livello comparabile a quelli che troviamo qui. Quello che sta accadendo in Libia non è una rivoluzione sociale ed economica come in Tunisia o in Egitto. Si tratta di una rivoluzione politica. “I primi giorni della rivoluzione sono un taglia e incolla”.

          Lei parla di “operazione pianificata con cura“, riguardo i primi giorni della rivoluzione…

          Ciò che mi è apparso chiaro, visitando quattro località del CNT, tra Bengasi, Derna e Tobruk, lo scenario è che le prime ore della ribellione siano esattamente le stesse. Copia e incolla. Si comincia con una manifestazione studentesca, con 15-20 persone. La polizia reprime, ci sono uno o due morti. Che a sua volta porta all’organizzazione di una grande manifestazione che mette in fuga le autorità. Queste ultime, ogni volta, non cercano di prendere le cose in mano. Abbiamo le prove che gli ordini impartiti da Tripoli erano di non fare nulla. Infatti, il campo è stato lasciato ai ribelli, che hanno attaccato gli uffici dello Stato,: stazioni di polizia, municipi, palazzi di giustizia. Tutto ciò che poteva rappresentare l’autorità di Tripoli è stata saccheggiato e distrutto. Ho concluso che non vi erano istruzioni. Noto per inciso che in quel momento, la responsabilità per il mantenimento dell’ordine incombeva sul Generale Younis (ex ministro degli interni di Gheddafi), che è ormai diventato il capo di stato maggiore dei ribelli libici.

          Accusate i ribelli di aver “derubato” e “ucciso” centinaia di lavoratori africani.
          Questi sfortunati si sono trovati intrappolati nel fuoco incrociato. Accusati di essere mercenari al soldo del colonnello Gheddafi dai bengasini, sono stati derubati dalle forze dello stesso Gheddafi, quando hanno cercato di fuggire in Tunisia o in Egitto.

          Possiamo parlare allora, così come fa la vostra missione, della “natura razzista dell’insurrezione”? Noi dei neri, non ne vogliamo sentire parlare. Si sono schierati con Gheddafi!”. “Nicolas Sarkozy ha intrapreso questa strada troppo avventatamente”.

          Con la vostra lettura, si capisce che non stimate molto il CNT…

          Il CNT è la Torre di Babele. È gente simpatica, intelligente, aperta sul palcoscenico, per compiacere l’Occidente. Ma dietro di loro, si vedono le figure del vecchio regime, come l’ex ministro della Giustizia di Gheddafi, Mustafa Mohamed Aboud al-Jelil, coinvolto nel caso delle infermiere bulgare (come presidente della Corte di appello, aveva confermato le condanne a morte), che sono al comando carica. Questo è inquietante … E poi ci sono gli islamisti, anche se fanno molta attenzione a non mostrarsi troppo. Il ramo libico di al-Qaida è molto vivo e si trova in Cirenaica. In questa regione, si sente il peso della religione. La posizione delle donne è sottovalutata, devono indossare il velo. Ci sono anche dei barbuti, cosa molto sintomatica. Il velo e la barba descrivono i comportamenti della società. Descrivere il CNT come istituzione democratica sembra quindi prematuro. Oggi, questo non è il caso.

          Non siete tenero con Nicolas Sarkozy.

          Non vi dirò il contrario. Lui solo ha deciso unilateralmente di tagliare i legami con un paese. Senza previa consultazione. E’ qualcosa di grave. Ha intrapreso questa strada troppo avventatamente. La Francia ha riconosciuto il CNT come stato quando non lo è . La cosa straordinaria è che nessuno ha detto niente. A mio parere, legalmente, non ha alcun valore. Ci si chiede dove sia il diritto in tutto questo.

          Come vedete evolvere le cose?

          L’ignoto: si metteranno le mani sui terminali petroliferi. Ma il pericolo principale è la divisione del paese. Con conseguente destabilizzazione dei paesi vicini dell’Africa sub-sahariana come il Niger e il Mali. Questo è ciò di cui alcuni diplomatici arabi hanno paura. Alcuni leader politici occidentali non sembrano aver letto i rapporti delle loro intelligence. Con la Libia, disponevamo di un blocco solido contro al-Qaida e contro l’immigrazione clandestina. È appena saltato.

          Traduzione di Alessandro Lattanzio

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          Le relazioni indo-iraniane: cooperazione regionale e pressioni statunitensi su Nuova Delhi

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          Il rapporto tra India e Iran, solitamente proficuo, ha subito un significativo peggioramento negli ultimi anni. L’intera recente vicenda collegata all’approvigionamento indiano del petrolio iraniano dimostra come l’India stia subendo una continua pressione internazionale affinché interrompa i propri legami commerciali con Tehran. Questa pressione è contemporanea alla volontà di Nuova Delhi di rafforzare la cooperazione con i vicini attori regionali nel contesto della competizione caratterizzante il “Nuovo Grande Gioco” in Asia Centrale e Meridionale.

           

          La scorsa settimana il governo indiano ha risolto una scottante questione legata all’approvigionamento energetico. A partire da agosto, infatti, avrebbero potuto essere interrotte le importazioni di petrolio provenienti dall’Iran a causa di un ritardo nei pagamenti da parte delle compagnie petrolifere di Nuova Delhi. La somma degli arretrati ammontava a circa 5 miliardi di dollari, il cui mancato versamento nelle casse di Tehran avrebbe potuto comportare delle negative conseguenze per l’intero sistema di relazioni indo-iraniane.

          Il petrolio di Tehran rappresenta circa il 18% delle importazioni di greggio dell’India, preceduto da quello dell’Arabia Saudita, la quale garantisce una percentuale di poco superiore a quella iraniana. Quasi i due terzi delle importazioni indiane di petrolio, circa 2,2 milioni di barili al giorno, giungono dal Vicino Oriente, in particolare da Iraq, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti, i quali garantiscono l’8-10% circa ciascuno di approvigionamento petrolifero.

          A partire dalla fine del 2010 i pagamenti all’Iran, mediante la Reserve Bank of India, erano stati bloccati a causa delle pressioni statunitensi sull’India, la quale aveva appoggiato nel 2007 le sanzioni contro l’Iran; seguite dalla decisione dello scorso aprile di limitare il commercio con Tehran che potesse favorire la ricerca nucleare iraniana. Washington e gli alleati occidentali avevano esortato Nuova Delhi a non utilizzare il tradizionale sistema di transazione monetaria gestito dall’Asian Clearing Union (ACU), operante dal 1974 su iniziativa dello United Nations Economic and Social Commission for Asia and Pacific (ESCAP). Gli Stati Uniti sostenevano la mancanza di trasparenza dell’istituto e per i possibili finanziamenti indiretti da parte dell’India del nucleare iraniano, celando in realtà una chiara politica di pressione nei confronti di Nuova Delhi, in modo da isolare Tehran. L’India, di fronte a questi ostacoli, a partire da marzo cominciò ad attivare dei canali alternativi, mediante la banca tedesca EIH; a loro volta interrotti a causa delle pressioni statunitensi e israeliane sulla Germania affinché ostacolasse i pagamenti indiani per il petrolio iraniano.

          A causa dei ritardi, le compagnie petrolifere indiane hanno contratto un elevato debito nei confronti dell’Iran, il quale ha posto come termine ultimo per i pagamenti il mese di agosto. Il ministro delle finanze di Nuova Delhi, Pranab Mukherjee, ha sostenuto la scorsa settimana che i problemi legati al pagamento del petrolio sono definitivamente superati, come confermato dallo stesso Iran. Il debito sarà pagato mediante una banca statale turca, la Halkbank. “Asia Times Online” riferisce di una possibile pressione statunitense sulla banca turca per il blocco dei pagamenti, come avvenuto nei confronti della Reserve Bank of India. In realtà, nonostante la Turchia sia un paese di primo piano della NATO, appare poco probabile che Ankara si pieghi alle richieste di Washington, dato il nuovo ruolo geopolitico ricoperto dalla Turchia nell’area. Il controllo dei flussi di denaro indiano destinati all’Iran possono avvantaggiare Ankara nella propria competizione con Teheran nella regione.

          L’intero problema non è naturalmente terminato con l’avvenuto pagamento da parte dell’India. La questione è legata a importanti considerazioni di carattere geopolitico, alle possibili conseguenze negative per le relazioni bilaterali indo-iraniane e alla competizione in corso in Eurasia per l’approvigionamento delle risorse energetiche; possono essere considerati, inoltre, le implicazioni per il rapporto tra Stati Uniti e India, collegato al legame con Israele e il mondo arabo sunnita, così come la perdita da parte dell’India della propria autonomia decisionale in politica estera avvenuta nel corso dell’ultimo decennio.

           

          Il carattere delle relazioni tra India e Iran e le implicazioni geopolitiche

           

          L’India e l’Iran hanno avuto, a partire dalla fine della Guerra Fredda, una proficua relazione, un rapporto strettamente collegato agli storici legami culturali esistenti tra il Subcontinente indiano e la civiltà persiana. Questa connessione ha subito una crisi a causa dell’avvicinamento indiano alla strategia statunitense in Asia Centrale e Meridionale, avvenuto in particolar modo nel corso dell’ultimo decennio e grazie all’azione in politica estera adottata dall’attuale coalizione progressista governativa guidata dal Congresso. Durante la Guerra Fredda, prima del 1979, l’India e l’Iran appartenevano a blocchi contrapposti: Nuova Delhi era maggiormente legata all’Unione Sovietica, mentre Tehran aveva un ottimo rapporto con Washington e Islamabad. In seguito alla rivoluzione khomeinista, l’Iran mantenne delle proficue relazione con il Pakistan islamico, piuttosto che con la secolare India. A partire dall’inizio degli anni novanta il legame tra Iran e India si è andato sempre più rafforzando, contraddistinto da importanti accordi di tipo commerciale e da una politica comune a riguardo di determinate questioni geopolitiche. In particolar modo per quanto riguarda l’Afghanistan, l’Iran non ha mai appoggiato il governo talebano filo-pakistano, favorendo, assieme all’India e alla Russia, attraverso una comune azione in Tagikistan, l’Alleanza del Nord afghana. Per quanto concerne Kabul, l’Iran rappresenta per Nuova Delhi un importante alleato per il commercio con l’Afghanistan e per il mantenimento dell’influenza indiana sul paese. Nell’attuale fase in cui gli Stati Uniti e la NATO sembrano volersi disimpegnare in Afghanistan, visto anche l’interesse statunitense per la ricerca di un potenziale nuovo ruolo attivo per il Pakistan, l’India potrebbe trovare nell’Iran un importante alleato per i propri interessi in Afghanistan. Non è comunque da sottovalutare il fatto che Nuova Delhi possa cooperare anche con Cina e Pakistan, dato il miglioramento dei rapporti con i due paesi avvenuto negli ultimi mesi. In questo senso verrebbe favorita la cooperazione regionale e l’azione della Shanghai Cooperation Organisation (SCO) nel paese, vista anche l’intenzione cinese e russa di includere a breve Nuova Delhi e Islamabad nell’organizzazione come membri permanenti.

          Tehran rappresenta un’importante risorsa per l’India non solo per gli interessi indiani in Afghanistan, ma anche per il nuovo ruolo ricoperto da Nuova Delhi in Asia Centrale. L’India sta, infatti, cercando di migliorare le proprie relazioni con le repubbliche centro-asiatiche, in modo da poter garantire una propria penetrazione economica nell’area, con evidenti implicazioni per l’approvigionamento energetico. Nuova Delhi ha siglato recentemente degli accordi commerciali in particolare con l’Uzbekistan e il Kazakistan. L’azione indiana in questi paesi è legata, inoltre, alla possibile cooperazione economica tra Nuova Delhi e questi Stati che potrebbe estendersi anche all’Afghanistan. Uno dei problemi attuali dell’India è legato alla mancanza di collegamenti terrestri con le repubbliche centro-asiatiche. Un proficuo rapporto con l’Iran, e potenzialmente con il Pakistan, potrebbe giovare al superamento di tale ostacolo, dal momento che la possibile presenza di due Stati ostili a occidente comporterebbe delle evidenti ripercussioni negative per gli interessi indiani in Asia Centrale e Afghanistan.

          Oltre al rifornimento di petrolio, Tehran potrebbe garantire l’approvigionamento di gas naturale, mediante il gasdotto IPI, la cui costruzione in Pakistan dovrebbe iniziare a partire dalla fine del 2011, grazie al finanziamento cinese. L’ipotetica pipeline non è mai stata del tutto abbandonata dall’India, ma sembra che nell’intera vicenda legata ai gasdotti Nuova Delhi abbia scelto il TAPI, seguendo le pressioni statunitensi. Non convincono comunque le preoccupazioni indiane sulla sicurezza adottate come giustificazione della mancata partecipazione all’IPI. Il TAPI attraverserebbe ugualmente due Stati contraddistinti da problematiche legate all’insicurezza dei loro territori, l’Afghanistan e il Pakistan. Durante il mese d’agosto si sono svolti importanti colloqui tra il Turkmenistan, l’India e l’Afghanistan. Nuova Dehli e Ashgabat si sono accordate sul prezzo del gas naturale, rendendo dunque fattibile la costruzione della pipeline. A questo proposito è comunque da ricordare la recente attenzione posta dalla Russia, alleato militare dell’India, sia sull’IPI sia sul TAPI. Questi progetti, infatti, se realizzati, renderebbero il mercato europeo dipendente interamente dal gas naturale russo, dal momento che sia il gas iraniano sia quello turkmeno potrebbero essere indirizzati verso oriente. La Gazprom ha manifestato il proprio concreto interesse per la realizzazione della parte del gasdotto attraversante il Pakistan, al quale è interessata anche la Cina, con il conseguente possibile miglioramento delle relazioni russo-pakistane. La stessa compagnia russa ha l’intenzione di monitorare la situazione del gas turkmeno, avendo il pieno controllo del giacimento di Dautelabad, ipotetica fonte del TAPI. Recentemente però Ashgabat ha modificato le proprie intenzioni a riguardo della fonte di gas naturale per il TAPI, puntando sul giacimento di South Yolotan-Osman, il quale è già la fonte di gas naturale per la Cina e potrebbe diventare il quinto giacimento per produzione di gas a livello mondiale. In questo caso la Gazprom non ha voce in capitolo e il Turkmenistan potrebbe indirizzare il surplus derivato dal giacimento di Dautelabad verso l’Europa, rendendo possibile la realizzazione della pipeline Nabucco, competitiva al gas russo e sponsorizzata da Washington. In questo quadro saranno da attendere le mosse future dei diversi attori in gioco, ma la Russia si sta attivando per cercare di indirizzare il gas presente in Iran e Turkmenistan verso oriente in modo da soddisfare in primo luogo i propri interessi. Una delle opzioni è il vasto mercato indiano, potenzialmente il secondo o terzo consumatore di gas naturale nei prossimi decenni. Per quanto riguarda l’India sarà necessario comprendere se le autorità di Nuova Delhi opteranno per una politica estera autonoma dagli interessi statunitensi e maggiormente legata alle potenze regionali.

           

          Gli ostacoli internazionali per le relazioni indo-iraniane

           

          Le relazioni indo-iraniane sono ostacolate dalle pressioni, crescenti negli ultimi anni, esercitate da Stati Uniti e Israele su Nuova Delhi. L’India, in seguito all’accordo sul nucleare civile con Washington, ha mantenuto una politica strettamente legata ai desiderata statunitensi, a costo anche di ledere i propri interessi strategici. Gli accordi commerciali con l’Iran sono cospicui e l’approvigionamento di petrolio ha un giro d’affari intorno ai 12 miliardi di dollari l’anno. La stessa alleanza strategica con Israele, cresciuta in seguito alla fine della Guerra Fredda, ha determinato una perdita d’autonomia nella politica estera indiana in determinate questioni. Per quanto riguarda il proprio rapporto diplomatico con Tehran, l’India non può non tener conto di un altro importante ostacolo, fattore spesso sottovalutato. Nuova Delhi ha un fondamentale legame con i paesi del Vicino Oriente guidati dalle monarchie arabe sunnite e capeggiati da Riyad, i quali vedono nell’Iran una minaccia per la stabilità della regione. Arabia Saudita, Kuwait, Bahrain, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Oman rappresentano per Nuova Delhi un’importante risorsa in termini commerciali, lavorativi ed energetici. Milioni d’indiani lavorano nei paesi arabi, il cui lavoro consta in circa il 40% delle rimesse degli emigrati verso l’India; il loro numero è destinato ad aumentare di circa il 5-10% nel prossimo decennio. Il commercio ammonta a circa 114 miliardi di dollari e potrebbe raddoppiare a partire dal 2014. Come ricordato in precedenza, il mondo arabo sunnita rappresenta anche un’importante fonte d’approvigionamento petrolifero per l’India. Nuova Delhi si trova di fronte a una duplice pressione, una proveniente da Stati Uniti e Israele, l’altra derivante dal mondo arabo, molto spesso molto più forte rispetto a quella israelo-statunitense. A questo proposito la decisione indiana di appoggiare le sanzioni contro l’Iran nel 2007 deriva da questa doppia spinta, la quale influenza sovente le scelte in politica estera dell’India.

          La scelta strategica di Nuova Delhi di avvicinarsi sempre più a Washington è spiegata dalla contemporanea crisi nei rapporti tra Stati Uniti e Pakistan, così come dal sempre più stretto legame tra quest’ultimo e la Cina. A questo proposito non sorprende l’ingerenza statunitense nei confronti della politica interna indiana, esemplificata recentemente dalla questione di Anna Hazare, l’attivista gandhiano che sta sfidando il governo nella sua richiesta di un chiaro sistema legislativo contro l’imperante corruzione della società indiana. Gli Stati Uniti hanno ricordato all’India la necessità di garantire il libero svolgimento democratico di manifestazioni di dissenso. E’ evidente che l’azione di Hazare non è dettata, come sostenuto da alcuni esponenti governativi sotto pressione per l’intera vicenda, da un ipotetico finanziamento statunitense nei confronti di Hazare. Il problema della corruzione in India è una grave questione riguardante la società interna che colpisce principalmente le categorie sociali più basse e la classe media. I diversi scandali di corruzione emersi recentemente sono piuttosto legati alle politiche di liberalizzazione di stampo occidentale; gli scandali sono, infatti, cresciuti notevolmente a partire dal 1991. E’ piuttosto da sottolineare il fatto che la politica estera indiana stia subendo una considerevole pressione da parte degli Stati Uniti; oltre alla recente ingerenza sulla questione Hazare e sul pagamento dei rifornimenti petroliferi all’Iran, si può ricordare la richiesta statunitense della scorsa settimana affinché l’India interrompa i rapporti commerciali con la Siria e intensifichi la propria azione contro il regime di Assad. La scelta pochi mesi fa dell’Ayatollah Khamenei di appoggiare le rivendicazioni di autonomia del Kashmir, potrebbe portare l’India a un cambiamento di rotta nella propria politica estera, data la sensibilità indiana nei confronti della tematica kashmira, della quale non ha mai inteso accettare ingerenze esterne.

          La questione dei pagamenti indiani del petrolio iraniano è un importante capitolo del complesso e contemporaneo “Nuovo Grande Gioco” delineatosi in Eurasia: la diplomazia attiva russa e cinese in competizione con quella statunitense in Pakistan, paese fondamentale per il transito di gasdotti e oleodotti; competizione evidente anche in Afghanistan, dove si inseriscono gli interessi anche di Pakistan, Iran e India; la spinta statunitense per un possibile dialogo con i talebani, in modo da rendere sicura ed effettiva la presenza di una propria base militare permanente a Kabul, in funzione anti-cinese, anti-russa e anti-iraniana; l’attenzione sempre più forte posta da tutti i diversi attori verso l’Asia Centrale e le sue risorse di idrocarburi; il crescente attivismo dello SCO in Afghanistan, unito alla volontà di includere come membri permanenti Pakistan e India, e potenzialmente l’Iran, nell’organizzazione, in modo da creare un potere controbilanciante l’alleanza atlantica (resta da vedere però come si comporteranno le repubbliche centro-asiatiche, attratte dalla NATO); la contemporanea spinta statunitense (unita a quella israeliana e dell’Arabia Saudita) verso l’India affinché si leghi sempre più strettamente alla strategia degli Stati Uniti.

          L’avvenuto pagamento all’Iran dimostra una direzione precisa della politica estera dell’India, anche se un definitivo superamento delle recenti incomprensioni indo-iraniane è ancora molto lontano. L’India sembra comunque propensa a indirizzare la propria politica estera verso la cooperazione regionale, dato il miglioramento dei rapporti con la Cina e con lo stesso Pakistan. Un diverso indirizzo delle relazione indo-pakistane è possibile ed è testimoniato dalla riapertura del dialogo tra i due paesi avvenuto a Mohali lo scorso marzo e dalla recente visita del nuovo ministro degli esteri pakistano Hina Khar Rabbani a Nuova Delhi lo scorso luglio.

           


          *Francesco Brunello Zanitti, Dottore in Storia della società e della cultura contemporanea (Università di Trieste). Ricercatore dell’ISaG per l’area Asia Meridionale, è autore del libro Progetti di egemonia (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2011). In “Eurasia” ha pubblicato Neoconservatorismo americano e neorevisionismo israeliano: un confronto (nr. 3/2010, pp. 109-121).

           

           

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          Due bandiere

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          Due bandiere

          Dell’aggettivo che le qualifica parlerò alla fine.

          Della prima bandiera parlerò subito. Si tratta della bandiera dei “diritti umani”. Buona per tutti gli usi e che caratterizza l’Occidente ormai da vent’anni. Della seconda invece parlerò soltanto a conclusione di queste considerazioni relative agli eventi definiti poeticamente “primavere arabe” ed in particolare all’odiosa e feroce aggressione alla Libia da parte dei “buoni”, autodefinitisi “volenterosi”, i sostenitori appunto dei “diritti umani”, in una parola, l’Occidente. Che strano modo per caratterizzare una civiltà con un punto cardinale anche se qualificato come democratico! Ma procediamo con ordine.

          Un po’ di storia non guasta

          Gli anni che vanno dalla caduta dell’impero sovietico ad oggi, e che, con la caduta dell’”Impero del Male” avevano fatto dire a molti sconsiderati che andavamo verso un mondo tutto “latte e miele”, sono stati caratterizzati da guerre scatenate proprio dall’Occidente “buono” che si è premurato di distruggere la Jugoslavia e di gettare nel panico una vasta area del mondo nota come Medio Oriente, abitata in gran parte da musulmani sia sunniti che sciiti, (e anche da cristiani) quel Medio Oriente all’interno del quale, nel 1947, i “buoni” avevano fatto nascere lo Stato d’Israele, poco preoccupandosi poi del fatto che questa decisione aveva comportato una pulizia etnica di più di 750.000 palestinesi. Una zona, da quel momento, nevralgica e piena di tensioni per tutti.

          Di questa zona, con la scomparsa dell’URSS, l’Occidente “buono” decise di ridefinirne confini e ruoli. C’era già stato un incidente di percorso in Iran, con la sostituzione di un accomodante Scià (accomodante verso gli interessi dell’Occidente ben’inteso ! e non certo verso i propri sudditi, sottoposti ad una feroce dittatura da parte del Re dei Re) con una Repubblica islamica. Incidente di percorso, che nemmeno una guerra lunga otto anni condotta dell’Iraq, assurto a paladino dell’Occidente contro le belve komeiniste (gli iraniani) era riuscito a sanare, ma gli elogi (e le armi) per Saddam Hussein si erano sprecate !

          Dal 1991 in poi, per Saddam le cose cambiarono. Ci fu la prima guerra del Golfo, che Bush padre diresse contro l’Iraq accusato di aver invaso il Kuwait (ed era vero !) ma condannato da un’unica risoluzione dell’ONU, senza tirare in ballo la diplomazia. Passi ! Ma dopo il cessate il fuoco, si continuò a tenere sotto il terrore di bombardamenti a gogò l’intero popolo irachen, per quasi un decennio.

          Con Bush figlio le cose non andarono meglio. Ci fu l’11 settembre 2001. Nell’ottobre gli americani erano già in Afghanistan, alla caccia di un Bin Laden vivo o morto. Una “guerra infinita” dissero allora. Ma il peggio per l’Iraq (e per Saddam Hussein) non era ancora arrivato. Nel frattempo, Bush figlio aveva cominciato ad allargare lo spazio che intendeva ridefinire strategicamente ed aveva cominciato a parlare di Grande Medio Oriente. E’ soltanto con il marzo 2003 però che viene veramente in piena luce la “bontà” dell’Occidente. Una campagna mediatica diffonde la notizia, poi confermata insistentemente da Bush e da Blair (con sceneggiata di Colin Powell all’ONU, e relativa esibizione di una piccola fiala, capace a sentir lui di distruggere mezzo mondo!), che l’Iraq è in possesso di armi di distruzione di massa !

          Scatta l’attacco all’Iraq, una nuova guerra che poco più di un mese dopo Bush dichiarerà conclusa. Ovviamente, le armi di distruzione di massa non c’erano ! Due criminali a piede libero, alla guida di paesi potentissimi, hanno segnato la vita di questi ultimi dieci anni, per fare buon peso, di milioni e milioni di persone, uccidendone centinaia di migliaia, ferendone un numero ancora maggiore, istupidendone addirittura milioni legati allo stesso punto cardinale. E tutto questo all’insegna della “esportazione della democrazia” della “guerra al terrorismo”, servendosi delle più spudorate e menzognere campagne mediatiche, dove il verbo CIA, anche se del tutto estraneo al buon senso è diventato tout court il Verbo !

           

          Le “primavere arabe

          Ho dovuto fare questo premessa, (altro che Bignami!) per poter esporre con chiarezza il senso di quanto è avvenuto negli ultimi sei mesi, (ovviamente secondo me), in Egitto, in Tunisia, in Siria e in particolare in Libia. Che le campagne irachene a afghane siano state (e continuino ad essere) un fallimento per gli USA non è un segreto per nessuno e per me è dunque facile servirmene come punto di partenza. E che Obama, alla sua elezione, avesse promesso di uscire dalla trappola grandemediorientale, anche questo è assodato.

          Non era parso vero a tutti gli sconsiderati che si aspettano sempre qualcuno che faccia meglio dell’altro (presidente), senza mai entrare nel merito del perché le cose accadano, sconsiderati del tutto simili ai tifosi del mondo “latte e miele” e che, purché non debbano impegnarsi, sono pronti a chinarsi a tutti i potenti di turn, l’aver trovato un presidente, “abbronzato” e democratico. Non era parso vero dicevo, e in questo almeno avevano indovinato: non era vero! Dunque Obama, senza di fatto cambiare in nulla la strategia, ha però dovuto modificare la campagna mediatica. Emblematico il suo discorso di due anni fa al Cairo. (4 giugno 2009) con un recupero del valore dell’islàm che non doveva essere confuso con Al Qaeda (bontà sua!) e soprattutto un invito esplicito a non demonizzare gli USA (visto che di bandiere statunitensi e israeliane se ne bruciavano a iosa), a guardare in casa propria e a liberarsi di dittatori ed oppressori locali. Un vero presidente democratico! Chi potrebbe trovare sconveniente una tale formulazione, sempre che gli USA si facciano gli affari propri?!

          Ed eccoci alle “primavere arabe”. Gli Stati uniti sono rimasti pappa e ciccia con Mubarak fino all’ultimo momento e così ha fatto la Gran Bretagna con Ben Ali. E mentre soffia un vento di rivolta e di liberazione, cosa succede in Egitto e in Tunisia ? Di manifestanti ne muoiono, ma dalla Tunisia va via soltanto Ben Ali e in Egitto c’è di fatto un colpo di stato militare. O pensate che la farsa del processo a Mubarak sia una cosa seria? Gli USA danno da tempo immemorabile all’Egitto o meglio all’esercito egiziano 800 milioni di dollari all’anno. Hanno smesso di darglieli? Certamente no!

          E veniamo ora alla Libia. I commentatori più avvertiti (e meno venduti) hanno parlato di rivolte e non di rivoluzioni, evidenziando la mancanza di una direzione di questi movimenti, che si sono affidati alla “libertà di Internet”. Ora, a parte il fatto che in Egitto le possibilità di comunicazione si sono ridotte a zero ben presto, ci vuole molta ingenuità a pensare di ribellarsi al potere con uno strumento molto più adatto per darsi un appuntamento amoroso o per andare a mangiare una pizza con gli amici ! C’è bisogno di organizzazione e che organizzazione per fare certe cose. E questo mi ha portato a pensare che Obama fosse contento (purché non si esagerasse) di come si svolgevano le cose.

          In Libia invece, le cose sono andate in modo molto diverso. L’organizzazione c’era e come! Peccato che si trattasse dei servizi segreti britannici e francesi che da più di due anni preparavano l’attacco a Gheddafi, servendosi dell’ambiente di Bengasi, legato da sempre a tribù ostili al Rais e che contavano di arrivare al seguito dei vincitori a Tripoli.

          E come si è potuto arrivare alla guerra? C’è voluta una menzogna: gli insorti, si è detto (l’impersonale è ironico, lo hanno detto praticamente tutti i mezzi di comunicazione di massa occidentali!), – quegli insorti che ancora oggi non si sa bene chi siano – stavano per essere massacrati, Gheddafi stava preparando un vero e proprio “bagno di sangue”. Pensate che a due giorni dall’insurrezione, Al Jazeera, la televisione del Qatar, stato che si era aggregato alla cricca franco-britannica, parlava di 10.000 morti e di fosse comuni. Dopo sei mesi di guerra, ora si parla di 20.000 morti, le fosse comuni sono quelle scavate dagli insorti e i bombardieri della Nato non si sono fermati un momento!

          L’Occidente, “buono” ha riunito subito l’ONU e ha impapocchiato una risoluzione, molto modesta del resto, che fissava una NO-FLY ZONE per gli aerei di Gheddafi in modo da impedirgli di bombardare (?!) Bengasi. Nell’arco di pochi giorni i francesi per primi, seguiti poi da americani e britannici hanno cominciato a bombardare su qualsiasi cosa si muovesse (oltre a tutto ciò che stava fermo) ed ora la “no-fly zone” si è trasformata nel diritto ad un “Gheddafi vivo o morto”. Il diritto internazionale, da sempre monopolio dei potenti, è diventato chiacchiere per gonzi, e dietro queste chiacchiere si sono coperti in Italia tutti, compreso il Presidente della Repubblica, che ha sostenuto che i nostri impegni internazionali ci obbligavano a fare la guerra alla Libia, tacendo che altre nazioni facenti parte della NATO si erano guardate bene dal farla!

          C’è una stampa, nota come embedded, che vuol dire letteralmente che dorme insieme, che nega ogni evidenza pur di sostenere la linea occidentale. Io direi che oltre a dormire, mangia a quattro ganasce servendosi delle sue menzogne.

          Domenica 28 agosto, la stampa non embedded, riunita all’Hotel Rixos di Tripoli, è stata nel frattempo minacciata di morte da falsi giornalisti CNN rivelatisi agenti CIA (americani) e MI6 (inglesi) e da cecchini delle forze degli “insorti” di fatto miliziani di Al Qaeda sdoganati, insomma veri e propri tagliagole, per impedire loro di uscire a vedere quel che stava succedendo in città.

          Ma il troppo è troppo e anche qualche giornalista embedded francese, come l’inviato di France 24 Matteo Mabin, inizia a riferire che il cosiddetto “assedio al bunker di Gheddafi” in effetti è un massacro casa per casa di funzionari medio-piccoli e delle loro famiglie, donne e bambini compresi, da parte dei tagliagole prezzolati dalla NATO. Massacro che il nostro democraticissimo “La Repubblica” attribuisce a Gheddafi (“Scoperto l’ospedale degli orrori: 200  morti“).

          Il sudiciume tracima a tal punto che persino la collaborazionista ONU, per bocca di Ian Martin consigliere del Segretario Generale, deve parlare di “abusi compiuti dai ribelli“.

           

          Conclusioni

          Sempre domenica 28 agosto, su La Stampa, un articolo di Enzo Bettiza sintetizza così la guerra alla Libia:

          Una discutibile guerra aerea, imposta senza corrette consultazioni da Parigi a mezza Europa, alla Nato, alle Nazioni Unite, si è prolungata affannosamente per sei mesi e alla fine si è quasi ridotta , come in un surreale gioco di playstation, alla caccia ripetitiva e puntigliosa di un mostro invisibile. E’ a questo punto, anche se per ora non possiamo evocare Pirro,che il bluff umanitario di Sarkosy inizia a mostrare l’occulta corda colonialista. Stanno venendo alla luce i fini materiali della sua impresa che rivrla i tratti cosmetici di un postgollismo di riporto: protezioni indulgenti e oscillanti concesse, dopo il colonialismo storico, ora ai dittatori miliardari ora ai popoli derelitti del Terzo mondo

          Mi pare che basti. Resta da dire qualcosa sulla seconda bandiera che sventola un po’ dappertutto e soprattutto nel nostro paese. Essa testimonia una regressione di centinaia di migliaia di anni. Nella nostra catena evolutiva, prima ancora di Homo sapiens compare un’altra specie, Homo erectus. Ebbene, bisogna fare ancora parecchi passi indietro, per trovare una traccia dei nostri tempi disgraziati. Caratterizzati dalla bandiera dei “disumani proni”! Quanto all’aggettivo qualificativo relativo ad entrambe le bandiere, non ci sono dubbi: infami.

          Roma, 2 settembre 2011

          per gentile concessione del periodico La Responsabilità

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          L’origine delle minacce alla Siria, ultimo baluardo del nazionalismo arabo

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          Il progressivo acuirsi della tensione all’interno del mondo arabo ha inoppugnabilmente conferito alla religione – in specie dall’11 settembre 2001 in poi – un ruolo cruciale nello scatenamento dei conflitti ed esaltato una presunta incompatibilità fra civiltà islamica e civiltà occidentale sostenuta in tempi non sospetti dal celebre politologo Samuel Huntington.

          Ciò che Huntington e i numerosi propugnatori dell’imminente scontro di civiltà si sono guardati dal considerare, tuttavia, è un altro fattore.

          Il fatto, cioè, che il fenomeno  più assiduamente preso di mira dalle potenze anglosassoni interessate ad imporre la propria egemonia sul Vicino e Medio Oriente sia espressione della più evidente vocazione europea.

          Si tratta del nazionalismo arabo propugnato da uomini politici di notevole spessore animati dalla volontà di riscattare i propri paesi vessati e umiliati da decenni di imperialismo europeo e statunitense.

          Non è frutto del caso il fatto che ogni forma e versione della spinta nazionalista – da Mossadeq a Nasser, da Saddam Hussein alla stirpe degli Assad – sia stata duramente colpita fino a scomparire dall’orizzonte politico mediorientale.

          Con un’eccezione, che corrisponde alla Siria baathista.

          Il Baath è un partito che affonda le radici in Europa dove Michel Aflaq, il suo ideologo principale, si era recato per approfondire la propria conoscenza del Vecchio Continente e studiare filosofia.

          Si iscrisse alla Sorbona, dove ebbe modo di leggere le opere di Marx, Lenin, Nietzsche e Mazzini e di assistere all’ascesa al potere di Hitler.

          Tornò in patria dopo aver maturato una complessa concezione ideologica frutto dell’assimilazione di svariate componenti del leninismo e del fascismo.

          Aflaq concentrò tutti i propri sforzi nella fondazione del partito Baath, incardinato sulle intuizioni della precedente fase europea.

          Finì in galera diverse volte a cavallo tra la fine degli anni ’40 e l’inzio degli anni ’50 ma riuscì infine nell’impresa di fondere il Baath con il partito socialista siriano, dando vita a una nuova formazione politica di cui si accingeva ad assumere il ruolo di segretario generale.

          Il programma della nuova organizzazione prevedeva la rinascita del mondo arabo, la formazione di un’unica nazione araba basata sui modelli europei di cui i singoli paesi sarebbero divenuti province, la scolarizzazione delle masse imperniata sui principi di solidarietà e progressismo.

          La struttura portante della nazione unitaria di cui Michel Aflaq e il suo compagno Akram Hurani intendevano promuovere la costruzione sarebbe dovuta scaturire dalla sintesi di elementi storici, culturali e geopolitici fusi in totale, armonica compenetrazione.

          Da greco – ortodosso quale era, Aflaq sapeva che la realizzazione di un progetto tanto ambizioso non avrebbe mai potuto contemplare qualsiasi discriminazione di natura confessionale e infatti si premurò di esaltare il carattere laico dello Stato da costruire escludendo qualsiasi riferimento alla religione.

          L’idea di dar vita a una nuova nazione araba che avrebbe dovuto ospitare drusi, copti, sciiti, sunniti, cattolici ecc. si amalgamò ben presto con la versione di socialismo panarabo di cui la parentesi nasseriana fu la massima espressione.

          Tuttavia, fu proprio l’ascesa di Nasser a scompaginare l’unità del nuovo movimento politico e frammentò il Baath in  una costellazione di correnti e fazioni.

          I panarabisti intendevano avvicinarsi all’Egitto, i nazionalisti preferivano profondere tutti gli sforzi necessari alla costruzione di una Siria potente e solida, l’ala radicale guardava con favore al modello sovietico ed auspicava che fosse lo Stato a dettare le regole dell’economia mentre quella più moderata propugnava una visione mista in cui la tradizionale cultura del bazar entrasse in simbiosi con i grandi progetti industriali di cui il paese aveva bisogno.

          Malgrado permanesse un solido fondamento politico condiviso da tutte le correnti come la ferma opposizione all’imperialismo e al colonialismo, cementata negli anni dalla tragica pulizia etnica della Palestina, una frangia del Baath intendeva accordarsi con l’Unione Sovietica mentre altre diffidavano del comunismo e del governo di Mosca.

          L’audace politica propugnata da Nasser – fondata su un capitalismo di stato ostile al modello liberista e allo stesso tempo tiepidamente favorevole all’alleanza con i paesi del blocco comunista (considerato come l’unico, indispensabile contraltare all’insanabile ostilità delle potenze occidentali) – esercitò una forte influenza nella determinazione delle dinamiche politiche del Vicino e Medio Oriente.

          I modelli autoritari europei guardati con favore da Aflaq e il nasserismo costituirono il perno attorno al quale si sviluppò l’intero nazionalismo arabo;dalla formazione dei sistemi a partito unico alla radicalizzazione del culto della personalità dei leader politici, fino all’industrializzazione organizzata e diretta dallo Stato.

          Nel loro tentativo di conseguire una modernizzazione dei propri paesi assestandosi su una posizione di relativa terzietà rispetto all’antagonismo bipolare capitalismo/comunismo, molti esponenti del nazionalismo arabo sono stati colpiti duramente in virtù della loro debolezza.

          La Siria è attualmente l’unica superstite in virtù della propria posizione geopolitica fondamentale e delle scelte strategiche compiute a suo tempo da Hafez Assad – salito al potere nel 1970 dopo una lunghissima serie di faide interne al Baath – che si era allineato alla direttrice sovietica per garantirsi il proprio ombrello protettivo.

          Una volta crollata l’Unione Sovietica il regime guidato da Bashar Assad – figlio di Hafez – è stato inserito nel novero degli “stati canaglia” e minacciato direttamente, da Stati Uniti e Israele in primo luogo.

          Da allora la posizione della Siria è andata progressivamente peggiorando.

          Il Quadrennial Defense Review Report redatto nel settembre 2001 riportava che: “Le forze armate statunitensi devono mantenere la capacità, sotto la direzione del Presidente, di imporre la volontà degli Stati Uniti a qualsiasi avversario, inclusi Stati ed entità non statali, cambiare il regime di uno stato avversario od occupare un territorio straniero finché gli obiettivi strategici statunitensi non siano realizzati”.

          Si trattava di porre le basi del progetto relativo al “Grande Medio Oriente” che il Presidente George W. Bush presentò pubblicamente in occasione del vertice del G8 del giugno 2004.

          Tale progetto prevedeva un ridisegnamento degli assetti geopolitici dell’area territoriale che si estende dal Marocco al Pakistan in modo da renderli funzionali agli interessi statunitensi.

          Dopo l’occupazione dell’Afghanistan venne immediatamente rinsaldata l’asse Washington – Tel Aviv, al fine di placare le ambizioni indipendentiste palestinesi e favorire l’affermazione di Israele al rango di potenza egemone dell’intera regione.

          Successivamente, l’Iraq venne aggredito unilateralmente, il Baath iracheno scardinato, Saddam Hussein condannato a morte e sostituito da un regime confacente agli interessi statunitensi.

          Nel 2005, l’assassinio dell’ex Primo Ministro libanese Rafik Hariri istantaneamente attribuito al regime di Damasco innescò la miccia della rivolta antisiriana meglio nota come Rivoluzione dei Cedri, alimentata e sostenuta attivamente dal Comitato statunitense per un Libano libero creato da Ziad Abdelnour, banchiere espatriato che godeva del pieno supporto israeliano.

          Nel marzo dello stesso anno il tono delle minacce rivolte verso Damasco assunse contorni inquietanti.

          “Gli Stati Uniti ordinano ai siriani di andarsene dal Libano”, tuonò il Dipartimento di Stato, che si guardò bene dall’ingiungere ad Israele di fare lo stesso in relazione alle Alture del Golan sottratte alla Siria fin dal 1967.

          Il vessillo del “Grande Medio Oriente” agitato da George W. Bush è stato evidentemente ripreso da Barack Obama, che unitamente al Presidente francese Nicolas Sarkozy ha più volte minacciato la Siria, intimando al regime di Bashar Assad di farsi da parte e lasciare che la “democrazia” faccia il suo corso, esattamente come in Libia.

          Il regime di Gheddafi rappresentava un’ulteriore espressione del nazionalismo laico arabo, anch’esso preso di mira dagli Stati Uniti e dalle potenze europee loro sottoposte.

          Il fatto stesso che siano stati i regimi laici del Vicino e Medio Oriente ad esser presi di mira con inaudito vigore dalle potenze anglosassoni e dai loro alleati dimostra quindi l’inconsistenza della concezione di Huntington incardinata sulla presunta insanabile conflittualità tra Occidente e civiltà islamica.

          Ma comprova, soprattutto, il fatto che le potenze interessate ad estendere la propria egemonia sul mondo arabo hanno considerato come un enorme pericolo quelle forze modernizzatrici potenzialmente suscettibili di favorire il processo di emancipazione dei popoli del Vicino e Medio Oriente.

          Giacomo Gabellini è collaboratore di Conflitti & Strategie

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          Quel “buco” che inghiotte popoli e stati

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          Fonte: “Il Secolo d’Italia

           

          Ancora tu? Ma non dovevamo non vederci più? Devono aver pensato questo, gli italiani, di fronte al riemergere del problema dei problemi: il debito pubblico. Una cosetta, per capirci, da 1890,6 miliardi di euro. Che certo non nasce ieri. E mentre il governo cerca di districarsi fra i veti (interni ed esterni all’esecutivo) proprio per arginare la voragine, noi cerchiamo di guardare un po’ più a fondo dentro questo buco nero che ormai da anni sembra perseguitare governi e, soprattutto, cittadini.

          Che cosa è?
          La definizione ufficiale del debito pubblico data dal Consiglio europeo è la seguente: «Per debito pubblico si intende il valore nominale totale di tutte le passività del settore amministrazioni pubbliche in essere alla fine dell’anno, ad eccezione di quelle passività cui corrispondono attività finanziarie detenute dal settore amministrazioni pubbliche». Più genericamente, l’Enciclopedia Treccani spiega trattarsi dell’«importo complessivo dei prestiti che lo Stato, le aziende statali autonome, le regioni, le province, i comuni, le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, le imprese e gli enti speciali appartenenti allo Stato contraggono periodicamente a fronte del deficit di bilancio […]. La copertura del d.p. viene di solito realizzata con l’emissione di titoli di Stato (Bot, Cct ecc.) o con l’aumento delle imposte correnti». Per farla breve e parlare (è proprio il caso di dirlo) “in soldoni”: si ha debito pubblico quando le spese dello Stato sono maggiori delle sue entrate. Elementare. O forse no.

          Quando si è formato…
          Facciamo un po’ di storia. In Italia il rapporto  percentuale tra il debito e il Prodotto interno lordo era di circa il 30% negli anni ’50 e ’60. Negli anni ’70 veleggiava tra il 44 e il 55%, con punte del 65. In quell’epoca, il resto dell’Europa stava più o meno come noi. Il problema è che i nostri cugini d’oltralpe rimarranno su quei valori per tutto il ventennio successivo. Da noi, invece, accadrà qualcosa. Di strano e di pericoloso. Gli anni ’80, infatti, vedono il nostro deficit ampliarsi a dismisura: a metà del decennio (in piena era Craxi), il rapporto debito/Pil supera l’80%, nel 1990 siamo già al 94,7%. Ma la corsa non si ferma, toccando l’apice nel 1994, con un preoccupante 121,8%. Da lì in poi saranno alti e bassi, sempre su valori folli, sia pur con lievi diminuzioni tra il ’95 e il 2005 (sia con i governi di sinistra che con quelli di destra) per poi tornare a risalire.

          …e come
          Stabilire le responsabilità della creazione di questo abisso senza fondo sarebbe ovviamente difficile. Quando si parla di grandi meccanismi e lunghi periodi, del resto, è probabile che il colpevole non sia una persona ma, piuttosto, un sistema, una tendenza, una mentalità. Sicuramente determinati da una serie di concause. Gli analisti, comunque, si dividono. C’è chi attribuisce le responsabilità all’espansione del welfare successiva ai grandi mutamenti sociali degli anni ’70. Chi alla classe dirigente socialista dell’epoca craxiana, cui viene rimproverata una cera mancanza di oculatezza finanziaria. Qualcun altro va più indietro, precisamente al ferragosto del ’71, quando gli americani (Nixon, per la precisione) posero fine al regime dei cambi fìssi instaurato dagli accordi di Bretton Woods. Il precedente sistema basato sulla convertibilità aurea del dollaro, infatti, aveva retto fino all’invasione dei mercati internazionali da parte dei petrodollari. La svolta di Nixon decretò la nascita della finanziarizzazione senza controlli, con denaro nato letteralmente dal nulla e senza corrispettivi reali.

          Per colpa di chi?
          D’accordo: macrosistemi, tendenze di lungo periodo, grandi mutamenti finanziari. Ma c’è qualche nome e cognome da fare per individuare i veri responsabili dell’aumento incontrollato del debito? Un nome è stato fatto ed è indubbiamente il più comodo da pronunciare per tanti: quello di Bettino Craxi. Eppure, per quanto il leader socialista possa avere le sue colpe, dovremmo forse guardarci attorno, fra i politici ancora in circolazione. Magari tra coloro che certi “ambienti finanziari” vorrebbero alla guida di improvvisati governi “tecnici” in possesso di tutte le ricette giuste (giuste per chi?). Già a inizio anno, precisamente il 4 gennaio, Franco Bechis faceva su Libero i nomi e i cognomi di coloro che, numeri alla mano, hanno maggiormente contribuito ad allargare il buco. Il primo classificato risultava essere Carlo Azeglio Ciampi. Durante il suo governo tecnico (1993/94) il debito aumentò di 117 miliardi e 568 milioni di euro (174 miliardi di euro a valore attuale). C’è chi fece peggio, in realtà: Amintore Fanfani, nel 1987, fece aumentare il debito pubblico di 13,692 miliardi di euro mensili (a valore attuale). Giuliano Amato, invece, nel 1992/93 allargò il buco di 13 miliardi e 543 milioni di euro ogni mese, sempre a valore attuale. E tuttavia, proseguiva Bechis, «visto che sia Fanfani che Amato nella storia repubblicana hanno guidato anche altri governi con migliori performance, fatta la media fra i vari esecutivi il primato in classifica come migliore scaricatore assoluto di debito pubblico sulle spalle degli italiani spetta proprio a Ciampi. Fanfani conquista comunque la medaglia d’argento con 11,448 miliardi di debito in più al mese durante tutti i suoi governi. E quella di bronzo spetta a Craxi, che con 10,8 miliardi di debito mensile regalato agli italiani supera di una spanna Spadolini e Forlani».

          Monsieur le créditeur
          C’è poi un altro aspetto interessante (e un po’ inquietante) nella vicenda del debito pubblico. Ricordate quando, a luglio, il governo di Pechino si rivolse a un Obama nei guai con il debito Usa con lo stesso tono in genere usato da Washington con gli stati vassalli? «Speriamo che il governo degli Stati Uniti adotti politiche e misure responsabili che garantiscano gli interessi degli investitori», dicevano i cinesi. E avevano le loro ragioni, dato che quei fantomatici investitori sono soprattutto loro. I cinesi, infatti, posseggono quasi il 10% dell’intero debito Usa. Ecco, in Italia succede una cosa simile, solo con la Francia. Il New York Times, nel maggio del 2010, spiegava che Parigi detiene 511 miliardi del nostro debito, pari al 30% del debito stesso e al 20% del Pil transalpino. Hai capito i francesi. Gli stessi che hanno messo le mani sulla Libia che un tempo era il nostro “cortile di casa”. Gli stessi che danno le scalate ai nostri colossi industriali. Stai a vedere che, come al solito, a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca…

          Pagare o non pagare?
          In tutto questo, come avrebbe detto Lenin: che fare? Nel breve periodo e nella contingenza drammatica che stiamo vivendo, ovviamente, si mira a tamponare, a tagliare, a risparmiare, a recuperare. Qualche analista, e in modo trasversale alle categorie di destra e sinistra, comincia tuttavia a mettere in discussione l’intera impalcatura che regge quella che è denominata “la truffa del debito”. Il giovane esperto di geopolitica Daniele Scalea, ad esempio, dichiara di non «negare l’opportunità di ridurre la spesa pubblica» ma contesta «che, lungi dal puntare agli sprechi, si opti per tagli salomonici, e che le ristrettezze di bilancio siano dettate e commisurate agl’interessi da pagare ai rentier. Il rischio è che, se tra qualche decennio l’Italia avrà interamente pagato il suo debito, l’avrà però fatto a costo dell’immobilismo e della stagnazione, ritrovandosi così retrocessa nel “secondo mondo”, o addirittura più indietro». Un ragionamento analogo lo ha espresso Salvatore Cannavò, per il quale «si può certo puntare il dito contro il debito pubblico italiano, il terzo debito del mondo, ma senza dimenticare due dati. Quel debito c’era anche un mese fa, un anno fa, tre anni fa e non ha prodotto nessun attacco speculativo, nessuna crisi emergenziale. Secondo, quel debito è la misura non solo della dissennatezza della politica italiana degli ultimi trent’anni ma anche di una gigantesca redistribuzione del reddito dai salari, stipendi e pensioni ai profitti delle grandi banche e della società finanziarie internazionali che detengono gran parte del debito italiano». E allora sorge una tentazione: non pagare. O pagare solo in parte. Rinegoziare il debito. Come fece l’Ecuador nel 2007 o l’Argentina nel 2005. Pazzie? Teorie visionarie? Be’, se i lucidi, razionali e ortodossi analisti economici ci hanno portato sin qui, forse vale la pena di tentare la carta della follia…

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          «Con la crisi in Siria è iniziata la terza guerra mondiale»: V. Rashkin (PCFR)

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          «Con la crisi in Siria è iniziata la terza guerra mondiale» così afferma Valerij Rashkin, membro del Presidium del Comitato Centrale del Partito Comunista della Federazione Russa, deputato della Duma di Stato della Federazione Russa. Antonio Grego, corrispondente di Eurasia a Mosca, durante un sit-in di sostegno a Gheddafi e al popolo libico organizzato dal Partito Comunista della Federazione Russa di fronte agli uffici dell’ONU a Mosca ha incontrato il deputato della Duma e segretario del Comitato Centrale del PCFR e gli ha chiesto un parere circa la situazione in Siria e la sua possibile evoluzione in “intervento umanitario” a firma ONU/NATO come nel caso della Libia.

          Ecco la risposta di Rashkin: «Dal mio punto di vista adesso è in corso la stessa procedura che fu adottata contro l’Iraq, la stessa che fu adottata in Yugoslavia, così come anche in Libia. La stessa identica procedura già usata contro gli altri Paesi aggrediti e distrutti è adesso in corso contro la Siria. Il complotto mondiale messo in atto dagli USA e dalla NATO non vede per adesso una potente reazione in grado di contrastarlo. Hanno elaborato e fanno approvare con il sorriso questo loro inganno, sconvolgendo Paese dopo Paese. In questo modo intendono soggiogare il mondo. Se ai tempi di Hitler era in corso una guerra dichiarata, ovvero la seconda guerra mondiale, adesso invece è in corso la stessa guerra, soltanto non dichiarata. La terza guerra mondiale è già iniziata».

           

          Commento raccolto e tradotto da Antonio Grego

           

          Biografia di V. Rashkin in russo: http://kprf.ru/personal/rashkin/

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          L’anacronismo di Israele

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          Mentre i paesi europei si accingevano a chiudere la lunga parentesi coloniale ritirando progressivamente i propri vessilli dai paesi dell’Africa e dell’Asia, un gruppo di ebrei d’Europa si apprestava a dar vita a un impero coloniale nel cuore del mondo arabo, a ridosso delle città sante dell’Islam.

          Nel momento in cui i coloni originari del Vecchio Continente si vedevano costretti, volenti o nolenti che fossero, ad abbandonare il mondo arabo, una cospicua schiera di essi occupava progressivamente la Palestina, spingendo coercitivamente quasi 1 milione di indigeni a lasciare le proprie abitazioni al fine di favorire, in fortissima opposizione rispetto alle tendenze dell’epoca, la formazione di uno Stato etnicamente e confessionalmente monolitico.

          Mentre il multiculturalismo stava soppiantando, in Europa ed America, la concezione etnica dello Stato, quel nucleo di europei erigeva una nazione etnico – religiosa di cui era possibile divenire cittadini a pieno titolo solo dimostrando la “purezza” originaria della propria stirpe.

          Le straordinarie ragioni politiche che produssero questa inedita anomalia storica furono principalmente il declino dell’Impero Britannico, il peso esercitato dalla potente lobby ebraica sulle scelte politiche degli Stati Uniti e la strategia geopolitica dell’Unione Sovietica.

          Le Gran Bretagna profuse enormi sforzi nel tentativo di assolvere degnamente ai compiti del mandato e placare la conflittualità tra arabi ed ebrei, nutrita minoranza soggetta però a un forte incremento demografico.

          In quello specifico contesto maturarono le condizioni che portarono alla nascita di vari gruppi paramilitari sionisti che innescarono una campagna terroristica finalizzata ad accelerare la fine del protettorato britannico.

          Haganah, Palmach, Irgun e banda Stern scatenarono un’efferata offensiva che destrutturò le forze britanniche e annichilì la popolazione palestinese.

          Particolare sgomento, tra i tanti attentati commessi, fu suscitato dall’attentato all’hotel King David del 22 luglio 1946 eseguito dall’Irgun (comandato dal futuro Primo Ministro israeliano e Premio Nobel per la Pace Menachem Begin), che provocò la morte di circa un centinaio di persone e spinse la società civile in patria ad esercitare forti pressioni sul governo affinché ritirasse definitivamente la presenza britannica – che ammontava a circa un decimo delle forze armate stanziate all’estero – dalla Palestina.

          Dissanguata dagli sforzi bellici profusi durante la Seconda Guerra Mondiale, mal sostentata da un’economia anemica ed incapace di spezzare l’inerzia negativa legata al proprio declinante status imperiale, la Gran Bretagna si rivolse alle Nazioni Unite perché si esprimessero in merito alla questione ebraica.

          Nel novembre del 1947 venne approvata la risoluzione 181, che prevedeva la creazione di due Stati e l’applicazione di un regime internazionale su Gerusalemme.

          Tale risoluzione intendeva dar vita a uno stato ebraico composto da un nucleo di circa 500.000 ebrei e 325.000 arabi, e a uno arabo formato da circa 800.000 arabi e 10.000 ebrei.

          Gerusalemme avrebbe contenuto circa 100.000 ebrei e 100.000 arabi.

          Gran Bretagna e i paesi arabi mal digerirono tale verdetto, mentre sia Josif Stalin che Harry Truman videro soddisfatti i propri progetti per quella regione.

          Stalin, persuaso di aver colto negli ebrei una sorta di inclinazione culturale favorevole al socialismo, ritenne che appoggiando il progetto finalizzato alla creazione di un’entità sionista nel cuore del Levante avrebbe assestato un duro colpo ai residui imperialistici inglesi.

          Truman intendeva invece assicurarsi il sostegno della vasta comunità ebraica degli Stati Uniti in vista delle imminenti elezioni.

          Significativo a tal riguardo è il fatto che nel maggio del 1942 all’hotel Biltmore di New York si era tenuto un cruciale convegno che culminò con l’approvazione da parte di circa 600 influenti ebrei americani del “Zionist Biltmore Program” proposto da Chaim Weizmann e David Ben Gurion.

          Il programma in questione traeva ispirazione dal progetto imperiale escogitato all’inizio del’900 da Theodor Herzl finalizzato all’instaurazione di uno Stato ebraico in Palestina e fu adottato dal Consiglio generale dell’organizzazione sionista di Gerusalemme.

          All’epoca il movimento sionista degli Stati Uniti era guidato dal rabbino Stephen Wise, il quale seppe raggruppare l’intera comunità ebraica del paese – la più grande del mondo per numero e peso economico – sotto la propria egida al fine di esercitare pressioni politiche sul Congresso e sull’esecutivo statunitense.

          Il 30% circa dei senatori, 143 deputati e più di mille eminenti personalità della politica, dell’economia e della cultura degli Stati Uniti accettarono congiuntamente di sottoscrivere un documento a supporto della formazione di un esercito regolare ebraico, mentre mozioni di sostegno al disegno sionista furono sottoposte al voto in ben 33 Stati.

          Non stupisce quindi l’accondiscendenza di Truman – e più in generale degli Stati Uniti, pur tra notevoli alti e bassi, fino al giorno d’oggi (e non solo per quanto riguarda i famosi 3 miliardi di dollari che Washington versa annualmente nelle casse israeliane) – nei riguardi del sionismo e della creazione dello Stato di Israele.

          Nell’arco di pochi giorni dalla nascita del nuovo Stato la tensione si acuì costantemente finché la Palestina non si trasformò nel principale campo di battaglia del Vicino Oriente.

          Sugli eventi che si verificarono negli anni seguenti è stata scritta una vasta bibliografia quasi interamente incardinata sulle tesi che il “popolo senza terra” degli ebrei europei sopravvissuto al genocidio nazista avrebbe individuato nella Palestina quella “terra senza popolo” adatta ad ospitare il nuovo Stato ebraico e che le poche comunità autoctone stanziate nella regione avrebbero abbandonato le proprie case assecondando le esortazioni delle autorità arabe.

          Nell’ultimo ventennio è nata però una corrente storiografica revisionista formata da un gruppo di accademici israeliani che hanno usufruito dell’ampia documentazione dell’epoca gradualmente desecretata per smentire questo infondato assunto di base.

          Storici come Ilan Pappé, Zeev Sternhell, Tom Segev salirono agli onori della cronaca per aver sostenuto la tesi che nell’arco del triennio 1947 – 1950 sia avvenuta in Palestina una massiccia pulizia etnica delle popolazioni indigene realizzata dalle forze israeliane.

          Un’operazione perfettamente organizzata che violò la risoluzione ONU 181 consacrando il carattere ebraico a cemento della neonata nazione di Israele.

          L’episodio fondamentale che segnò la nascita della tattica del terrore ebbe luogo il 9 aprile del 1948.

          Allora l’Haganah conquistò il villaggio palestinese di Deir Yassin per poi ritirarsi e lasciare che l’Irgun massacrasse tutti i 254 palestinesi che vi abitavano senza badare a sottigliezze come il sesso o l’età anagrafica delle vittime.

          Il massacro non solo fu giustificato, ma non ci sarebbe stato Israele senza la vittoria di Deir Yassin”, affermò Menachem Begin.

          Le modalità con cui avvenne la “vittoria” di Deir Yassin furono poi diffuse per radio affinché i palestinesi comprendessero quale destino si celava dietro l’eventuale, malaugurata scelta di resistere alla prorompente avanzata sionista.

          Dopo Deir Yassin massacri e stermini svolsero un ruolo cruciale nella diffusione del terrore in seno alla popolazione autoctona e all’induzione della stessa all’esodo.

          Nell’arco di pochi anni 474 villaggi arabi furono occupati dalle forze sioniste e 385 di essi furono rasi al suolo e cancellati dalle cartine geografiche.

          Stando alle statistiche britanniche, al 31 dicembre del 1947 vivevano in Palestina 589.341 ebrei a fronte di una popolazione totale di 1.908.775 persone.

          Un censimento realizzato nel novembre del 1948 rivelò che la popolazione araba di Israele ammontava a non più di 130.000 persone.

          Gli analisti sono concordi nello stimare in un minimo di 890.000 e un massimo di 904.000 il totale delle persone vittime della pulizia etnica realizzata dalle forze sioniste.

          All’inizio degli anni ’50 la popolazione contenuta all’interno dei confini armistiziali era composta da 1.509.000 ebrei, 118.500 arabi, 39.000 cristiani e 15.000 drusi.

          L’enorme squilibrio demografico favorito dalle scelte del Primo Ministro David Ben Gurion e dai suoi successori consolidò politicamente, economicamente, socialmente e militarmente il paese.

          In sostanza, lo Stato di Israele si affermò sul piano internazionale cacciando gli indigeni dalle loro terre e rifacendosi a motivazioni di carattere biblico – religioso per adottare nei confronti degli arabi una prassi analoga a quella impiegata in altre epoche dai puritani anglosassoni nei confronti dei Pellerossa, dai cecoslovacchi e dai polacchi nei confronti dei tedeschi dei Sudeti e della Polonia occidentale, degli jugoslavi verso gli italiani d’Istria e di Dalmazia e dei croati a danno dei serbi della Kraijna.

          A differenza degli altri casi, tuttavia, era la filosofia che aveva animato pochi anni prima la pulizia etnica eseguita dai nazisti nei primi territori occupati a presentare analogie con quella perpetrata dai sionisti contro le popolazioni indigene, i cui tratti comuni furono delineati efficacemente dal Ministro degli Esteri del primo governo israeliano guidato dal padre della patria David Ben Gurion.

          Si tratta di Moshe Sharett, il quale affermò che:

          I rifugiati troveranno il loro posto nella diaspora. Grazie alla selezione naturale, certi resisteranno, altri no. La maggioranza diventerà un rifiuto del genere umano e si fonderà con gli strati più poveri del mondo arabo”.

          I palestinesi espulsi furono costretti a rifugiarsi lungo la striscia di Gaza, in Giordania, Siria e Libano, dove vennero confinati in numerosi campi profughi appositamente creati affinché non alterassero i fragili equilibri demografici e politici della regione.

          Il nazionalismo palestinese incarnato dalla figura di Yasser Arafat trasse linfa vitale proprio dalla rabbia per i torti subiti – oltre che dall’orgoglio connaturato alla religione islamica – e dalle precarie condizioni in cui versava la popolazione dislocata nei campi profughi.

          La volontà di riscatto palestinese favorì poi la formazione delle classi dirigenti imbevute di religione musulmana come la Jihad islamica e soprattutto Hamas, movimento politico di grande diffusione popolare dotato di una struttura portante simile a quella di Hezbollah e capace di adempiere ai compiti militari, economici e assistenziali.

          Fu nella miseria e nel disagio che maturarono le condizioni per la reazione palestinese, che si dispiegò mediante numerosi sommovimenti popolari che innescarono una colossale concatenazione di eventi.

          Settembre Nero, invasione israeliana del Libano, attentato a Bashir Gemayel, efferata ritorsione di Sabra e Chatila, Prima Intifada, seconda guerra del Libano, provocazione di Ariel Sharon lungo la Spianata delle Moschee, Seconda Intifada, omicidio di Rafik Hariri, Rivoluzione dei Cedri, ascesa di Hezbollah, terza guerra del Libano, Piombo Fuso, allontanamento della Turchia; tutti eventi connessi direttamente o indirettamente alle tensioni israelo – palestinesi.

          L’altra ripercussione sortita dalla nascita e (soprattutto) dalle modalità in cui si affermò Israele fu l’endemico sentimento di frustrazione e subalternità che opprime ancora oggi le popolazioni arabe dovuto all’atteggiamento tenuto dagli israeliani nei loro riguardi.

          Dalla pulizia etnica della Palestina, alla relegazione degli arabi a cittadini di secondo livello si è giunti all’innalzamento di una “barriera di separazione”, un muro suscettibile di produrre l’annessione israeliana di Gerusalemme Est oltre a parte dei territori occupati della Cisgiordania e di garantire una segregazione forzata sospingendo verso est le popolazioni arabe stanziate nell’area.

          La costruzione della barriera in questione iniziata nel 2003 avvenne a più di un decennio dal significativo abbattimento del Muro di Berlino e dalla liberazione di Nelson Mandela che preluse alla fine dell’Apartheid, il regime di segregazione razziale che gli afrikaner sudafricani avevano applicato per mantenere una separazione forzata dai cittadini autoctoni di pelle nera.

          Si tratta di un anacronismo che alla prova dei fatti tende a minare le ambizioni palestinesi relative al riconoscimento di uno Stato nazionale.

          Abu Mazen ha annunciato pubblicamente che a settembre si rivolgerà alle Nazioni Unite per chiedere il riconoscimento di uno Stato palestinese imperniato sulla centralità indiscutibile di Gerusalemme, città che non a caso Israele sta accingendosi ad accorpare per mezzo del muro.

          Molti paesi – specialmente dell’America Indiolatina – hanno già riconosciuto lo Stato palestinese ed altri – come la Norvegia – attenderanno il voto di settembre per fare altrettanto.

          Israele, per bocca del Primo Ministro Benjamin Netanyahu e del Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, ha pubblicamente invitato i paesi europei a guardarsi dall’accogliere le richieste avanzate unilateralmente da Abu Mazen, laddove riconoscere uno Stato per i palestinesi è una necessità che solo un numero assai contenuto di paesi e uomini politici ha osato mettere in discussione.

          I governanti di Tel Aviv, tuttavia, perseverano nel far ricorso ai medesimi, logori e stereotipati clichés impiegati negli anni passati per edulcorare l’immagine di Israele.

          L’opinione pubblica internazionale, infatti, non accetta più che vengano rievocati gli orrori del nazismo per giustificare i coprifuoco, i check – point, le esecuzioni selettive, le umiliazioni pubbliche di cui le autorità israeliane si sono ripetutamente rese responsabili.

          Esiste, beninteso, una sparuta minoranza che si ostina a considerare gli israeliani delle vittime, laddove sono però incontestabilmente i palestinesi – vessati, umiliati e privi di uno Stato – ad aver sostituito gli ebrei nell’immaginario collettivo.

          Le contraddizioni – scrive lo storico Tony Judt – insite nel modo in cui Israele si presenta – “siamo molto forti/siamo molto vulnerabili”; “decidiamo del nostro destino/siamo noi le vittime”; “siamo uno Stato normale/pretendiamo un trattamento speciale” – non sono nuove: fanno parte dell’identità distintiva del paese quasi dall’inizio. E l’insistente enfasi sull’isolamento e sulla unicità che lo caratterizzano, oltre alla pretesa di essere allo stesso tempo eroe e vittima, un tempo formavano parte del vecchio fascino alla Davide contro Golia”.

          L’assiduità ossessiva con cui viene impiegato l’antisemitismo per trasferire il terreno della discussione dal politico all’irrazionale e per trasformare gli imputati in giudici è indice del fatto che rimangono ben pochi argomenti per giustificare le mosse di Tel Aviv.

          Si tratta dell’ultimo, logoro asso nella manica che i sostenitori acritici di Israele utilizzano per fregiare di nobili crismi legittimatori i colpi di coda di una nazione che non comprende di aver perso da tempo ogni diritto alla solidarietà internazionale, che si ostina ad ignorare il fatto che gli Stati Uniti non si mostreranno sempre accondiscendenti (Zbigniew Brzezinski non lo è stato mentre John Mearsheimer e Stephen Walt hanno documentato ampiamente i danni provocati agli interessi statunitensi dall’appoggio a Israele, subendo pesanti attacchi dalla lobby ebraica e delle sue influenti ramificazioni) che muri e fortezze non preserveranno il paese più di quanto abbiano fatto con la Repubblica Democratica Tedesca e il Sud Africa, con Troia e Sebastopoli, con Atene e Yorktown.

          Attualmente l’immane tragedia costituita dalla nascita di Israele e dalle modalità che segnarono la sua graduale affermazione internazionale sono tappe storiche di quella viene eufemisticamente definita come “questione palestinese”.

          A differenza di ciò che accade oggi in Israele e ovunque si trovino gli entusiasti difensori del sionismo, l’ipocrisia che sta alla base di tale espressione non avrebbe presumibilmente trovato l’approvazione di David Ben Gurion stesso, principale artefice e ideatore della pulizia etnica della Palestina che descrisse la natura intrinseca del colossale problema nei seguenti termini:

          Se fossi un arabo non firmerei mai la pace con Israele. E’ ovvio: abbiamo preso il loro paese. Ci era stato promesso da Dio, certo, ma perché ciò dovrebbe interessarli? Il nostro Dio non è il loro. E’ vero che siamo originari di Israele, ma è un fatto che risale a duemila anni fa. In che modo può riguardarli? Ci sono stati l’antisemitismo, il nazismo, Hitler, Auschwitz. Ma è stata forse colpa loro? Essi vedono una sola cosa: siamo venuti e abbiamo preso la loro terra”.

           

          * Giacomo Gabellini è collaboratore di Conflitti & Strategie

           

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          Il collasso della globalizzazione neoliberale

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          I

           

          Il primo maggio del 1974 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nella sua sesta Sessione Speciale, adottò la ‘Dichiarazione per la Costituzione di un nuovo Ordine Economico Internazionale’ che poneva una particolare enfasi sulla paritaria sovranità degli Stati. Sottolineando i principi di base di un ordine economico equo, la Dichiarazione richiedeva ‘una piena ed effettiva partecipazione su una base di eguaglianza tra tutte le nazioni, nella risoluzione dei problemi economici mondiali, nell’interesse di tutte le nazioni’ (Paragrafo 4[c]). In quel tempo gli stati membri delle Nazioni Unite sottolinearono anche l’importanza di una ‘piena e permanente sovranità di ogni stato sulle sue risorse naturali e su tutte le attività economiche’ (Paragrafo 4[e])

           

          L’assemblea generale in seguito, durante la stessa sessione, adottò un ‘programma di azione’ riguardante l’economia internazionale, con un capitolo relativo al sistema monetario internazionale. E’ interessante – considerando la situazione in cui ci troviamo in questi giorni- richiamare alcuni di questi punti scritti dai rappresentanti della comunità internazionale. Prima di tutto, gli stati membri dell’ONU richiesero misure per ‘eliminare l’instabilità del sistema monetario internazionale, in particolare l’incertezza dei tassi di cambio.’ Il secondo punto, che mi piacerebbe ricordare, è relativo all’enfasi degli stati membri relativa al ‘mantenimento del vero valore delle riserve monetarie delle nazioni in via di sviluppo.’ A questo proposito, chiesero – più di tre decenni fa! – ‘la creazione di liquidità internazionale… attraverso un meccanismo internazionale multilaterale.’

           

          In una riunione di esperti sull’idea di un nuovo orfine economico internazionale, che l’Organizzazione Internazionale per il Progresso tenne a Vienna nell’aprile del 1979, i nostri esperti avevano anche enfatizzato il principio ‘della reciproca responsabilità economica’ a livello internazionale e la necessità di ‘spostare l’attenzione,’ per quanto riguardava il sistema dei valori, ‘dall’avere all’essere e dal consumo alla qualità della vita.’ In generale, noi avevamo richiesto, durante questo incontro, che l’economia si fondasse su principi etici. In una conferenza sulle sfide della globalizzazione, tentuasi all’Università di Monaco nel 1999, la nostra organizzazione aveva ulteriormente messo in guardia sulla minaccia dell’instabilità globale risultante da mercati completamente privi di regole, che operassero sulla base di una fallace interpretazione della nozione di libertà individuale.

           

           

          II

           

          In maniera deplorevole, in più di tre decenni passati dall’iniziativa dell’ONU per un nuovo ordine economico internazionale, l’economia globale si è sviluppata nella direzione opposta. La visione dell’Assemblea Generale di un nuovo ordine economico internazionale fu effettivamente rigettata dai paesi industrializzati al Summit dei 22 leader mondiali (che includeva anche 14 leader dai paesi in via di sviluppo) a Cancùn, in Messico, nell’ottobre del 1981. Mi piacerebbe qui ricordare il ruolo della delegazione statunitense guidata dal Presidente Ronald Regan, così come il suo preoccupante rifiuto alle richieste delle nazioni in via di sviluppo. L’intera nozione di u nuovo ordine economico internazionale fu effettivamente sepolto in quell’occasione.

          Da quel momento il progetto neoliberale di globalizzazione andò avanti, con uno zelo ideologico sempre crescente, nonostante gli avvertimenti e le proteste di molti leader dei paesi in via di sviluppo. Per quanto riguarda l’ideologia della globalizzazione, vorrei dare qui la seguente caratterizzazione: ciò che abbiamo visto rivelarsi in questi ultimi decenni -cioè dall’inizio degli anni ’70- è una folle fede in una specie di perpetuum mobile finanziario, che significa supporre che la ricchezza possa essere creata semplicemente attraverso transazioni finanziarie o attraverso i cosiddetti ‘strumenti finanziari.’ Questa fede era evidente in alcune pratiche ed atteggiamenti che includono, per esempio, alcune politiche sulla base delle quali gli organismi regolatori sono stati deliberatamente indeboliti o completamente annullati, nel nome della liberalizzazione economica. Sarebbe qui da ricordare il ruolo del Presidente della statunitense Federal Riserve Alan Greenspan, durante questo periodo cruciale. Non si sottolinea mai abbastanza che l’autorità regolatrice dello stato è stata completamente erosa in favore di quello che veniva, ed è tuttora chiamato, ‘il libero fluire’, non solo di beni, ma anche di denaro, oltre i confini; e tutto ciò è stato ideologizzato attraverso lo slogan della globalizzazione. Il Forum economico mondiale di Davos è stato indubbiamente utile come strumento ideologico e come luogo di pubbliche relazioni per promuovere questa ideologia.

          Ad ogni modo, al posto di un nuovo ordine mondiale, come quello programmato da George Bush padre nel 1991 davanti al Congresso degli Stati Uniti, uno stato di disordine globale è stato la conseguenza dell’abdicazione degli stati alla propria sovranità, a vantaggio dell’economia e delle politiche finanziarie. Lo stato ha dovuto gradualmente lasciare spazio ai potenti, ma completamente inaffidabili, poteri forti transnazionali. Con lo slogan della globalizzazione, il ‘ciclo dell’ingordigia’ nel quale l’economia è stata coinvolta, ha causato una crisi sistemica non solo degli scambi economici internazionali, ma delle relazioni internazionali in generale.

          Nonostante l’importanza del problema, i propugnatori dell’ideologia neoliberale insistono ancora nel voler risolvere la crisi cercando di affrontarne solamente i sintomi, e ingaggiano un’ostinata battaglia con la realtà, quando si tratta di identificare le reali cause del collasso della globalizzazione: cioè, prima di tutto, l’esclusione di tutti i confini non solo geografici, ma anche morali che devono governare l’economia.

          Perciò, sarebbe il caso di tornare alle basi e prestare attenzione alle fondamentali considerazioni filosofiche relative alla moneta. Varrebbe la pena, in questo contesto, di riconsiderare i principi della finanza che sono stati delineati quasi due millenni e mezzo fa, nel periodo della filosofia classica greca. Aristotele ci avvertì che la moneta non ha un valore naturale, che non è un bene come un altro. Il suo valore è determinato dagli esseri umani, cioè dai governi, attraverso una convenzione (conventio) o legge – νόμῳ (nómo) nella terminologia greca –per esempio attraverso una determinazione, un ruolo. Per centrare il punto, Aristotele si riferiva all’etimologia della parola greca per moneta, cioè nómisma (νόμισμα), che deriva da νόμος, la parola greca per legge o regolamento.

          Secondo la filosofia aristotelica, la moneta è lo strumento che consente lo scambio dei beni perché permette di misurare il valore degli stessi. Assicura la commensurabilità dei beni che vogliamo scambiare. Se il carattere ‘numismatico’ della moneta – se possiamo alludere all’etimologia del termine greco nomisma – viene ignorato, le valute vengono commerciate come se fossero beni. La speculazione sulle valute internazionali come strumento per generare ricchezza con metodi artificiali, è stata infatti una delle cause della crisi finanziaria internazionale, come ormai ben sappiamo.

          Ancora di più, il valore della moneta, ed in particolare il relativo ‘peso’ di ogni valuta nel mercato di scambio internazionale, deve essere radicato nella ricchezza rappresentata dall’economia reale. Non esiste una cosa come il valore astratto della moneta. Se questa verità di base è trascurata o ignorata, la speculazione finanziaria prospererà e i cosiddetti strumenti finanziari continueranno ad essere creati all’infinito –come se la ricchezza reale potesse essere generata in maniera fittizia e illusoria. In sostanza, queste sono tutte meramente transazioni artificiali, se non inserite in attività dell’economia reale che creano valore.

          Questo è il motivo per cui la generazione di ricchezza attraverso l’utilizzo dei soli ‘strumenti finanziari’, giusto per nominarli: lo scambio di valute, i titoli, i futures e così via, ha infatti la natura del gioco della piramide. La piramide inevitabilmente collasserà nello stesso momento in cui l’economia reale reclamerà i suoi diritti e i popoli, da un momento all’altro, perderanno la certezza del mito della creazione della ricchezza attraverso la speculazione, uno sviluppo che porrà termine, drasticamente, al ciclo dal quale qualsiasi nuova somma di liquidità viene fornita.

          Non solo a livello filosofico, ma anche su un più largo contesto di responsabilità sociale, è importante evidenziare la natura intrinsecamente non etica della speculazione finanziaria, a livello di valute, obbligazioni, futures etc. In questo modo, la ricchezza – quella artificiale – è creata a spese degli altri che vengono effettivamente espropriati durante l’inevitabile collasso del sistema, come siamo testimoni proprio adesso. Richiamandosi all’enfasi che il filosofo greco ha posto sull’innaturale modo di creare ricchezza attraverso mere transazioni finanziarie, bisognerebbe essere al corrente del famoso detto presente nel primo libro della Πολιτικά (Politiká), nella parte 10, dove viene condannata la procedura per cui qualcuno ‘si arricchisce dalla moneta stessa e non utilizza la moneta per come dovrebbe essere usata naturalmente’.

          È una mente libera a ricordarci, da 2500 anni., l’importanza dell’economia reale. Il verdetto aristotelico non è solo diretto a trarre interessi dalla moneta, ma si applica alla speculazione finanziaria in generale, evidenziando la natura improduttiva di questo genere di attività semi-economica. Questo approccio è maggiormente illustrato da altre frasi all’interno del trattato, relative cioè alla ‘nascita della moneta dalla moneta’ e della ‘riproduzione della moneta’ come la più innaturale forma di acquisizione di ricchezza.

           

           

          III

           

          E’ arrivato il tempo di rivedere le intuizioni dell’età dell’oro della filosofia greca, riguardo la natura della moneta come strumento per determinare il valore dei beni, per rendere questi beni comparabili e perciò permettere gli scambi economici; e alla fine, per considerare i principi etici che governano questa attività. Si dice spesso che ‘la globalizzazione non conosce confini’.

          Dobbiamo anche prestare attenzione al fatto che il metodo di scambi economici e finanziari internazionali, che viene idealizzato in quest’affermazione comune, non solo non ha confini geografici, ma spesso viene anche concepito come privo di limiti morali. Come risultato di tale percezione, stiamo affrontando questa crisi di dimensioni epocali. Una delle ragioni di base di questa situazione difficile – che ancora molti non vogliono riconoscere- è che le regole morali nel comportamento economico, sono state sistematicamente ignorate e spesso rigettate.

          Questo riprovevole stato di cose rende imperativo riflettere sui principi dell’attività economica in quanto tale. In particolare, dovremo riconsiderare quelle idee che collegano la finanza all’economia reale, cioè alla fabbricazione dei beni, e dovremmo prendere la palla al balzo per propagandare la creazione di un genuino nuovo ordine economico internazionale, che sia basato non sul mito della globalizzazione e sulla filosofia dell’avidità, ma sui principi della creazione di ricchezza orientati al bonum commune, il bene comune. Questo implica, inter alia:

          — Il riconoscimento dell’autorità regolatrice dello stato, come parte integrante dell’esercizio della sovranità dello stato;

          — La fondazione di meccanismi regolatori a livello internazionale, attraverso accordi intergovernativi, ad esempio accordi conclusi sulla base dell’eguaglianza di sovranità;

          — Il divieto di pratiche economiche palesemente non etiche, che sono basate sulla speculazione invece che su attività genuinamente economiche (che sarebbero basate su aspettative razionali). Il brand ‘globalizzato’ del ‘capitalismo casinò’ include metodi come la cosiddetta ‘vendita allo scoperto’ di azioni e ogni genere di transazione legata al mercato dei derivati e alle speculazioni sulle valute; in generale, è evidente come tutte le pratiche che sono basate sulla creazione di ricchezza individuale, causino la perdita di valore delle valute, delle azioni etc. Cioè, nell’ottenere sistematicamente e deliberatamente guadagni speculando sulle perdite degli altri, nei fatti attraverso una vera e propria ‘espropriazione’ degli altri partecipanti, in un gioco non equo. Da non dimenticare in questa lista non esaustiva di pratiche dubbie, tutte le transazioni che si basano sul fondamento logico dell’azzardo, cioè tutte le forme di scommesse finanziarie che vengono ancora considerate, da molti finanzieri, una forma legittima di attività economica.

          Riassumendo questo breve decalogo delle conseguenze dei mercati non regolati e di una falsa e artificiale percezione della natura della finanza, si potrebbe dire che in questo momento, siamo testimoni della bancarotta della globalizzazione come epitome della ideologia neoliberale. Apparentemente inattesa – questo è ciò che dicono – dagli ideologi neoliberali, la globalizzazione ha ormai mostrato la sua faccia reale; si è dimostrata un’illusione di ricchezza, guidata dall’avidità individuale. In quanto tale, la dottrina della globalizzazione si è dimostrata irrazionale. La fede nel miracolo della creazione di ricchezza attraverso gli strumenti di un economia basata su scambi non regolati e virtualmente senza confini, ha infatti tutte le caratteristiche dell’isteria di massa.

          E’ innegabile il fatto che noi viviamo in un mondo sempre più interconnesso. Il corso della storia e lo sviluppo della tecnologia in particolare, non possono essere invertiti. Ad ogni modo, nelle attuali circostanze, è di massima importanza che i leader e i cittadini che si impegnano per il bene comune, facciano qualsiasi cosa sia nelle loro possibilità per fermare i cicli continui di avidità che hanno rovinato le vite di diverse generazioni, di milioni di persone, nel corso della storia del ‘libero mercato.’

          Il casinò globale in cui il mercato finanziario deregolamentato è degenerato, deve essere chiuso una volta per tutte. Non c’è dubbio che questo obiettivo possa essere raggiunto solo dall’azione comune degli stati come attori principali della politica internazionale e, per questo, garanti dell’ordine globale. Solo passi audaci, intrapresi di comune accordo, verso una regolazione responsabile della finanza, renderanno possibile la fondazione di ciò che i membri delle Nazioni Unite avevano immaginato, cioè un nuovo ordine mondiale equo come sistema di relazioni internazionali all’interno del quale, tutte le nazioni possano guidare le proprie politiche economiche ed essere coinvolte negli scambi economici, sulla base di uguali sovranità. Questa era l’idea dietro la risoluzione della Sessione Speciale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1974, e – in vista della crisi globale senza precedenti – oggi essa merita maggiore considerazione.

           

          (Traduzione a cura di Massimo Janigro)

           

           

          * Hans Koechler è presidente dell’IPO – International Progress Organization (Vienna – Austria). Il presente articolo costituisce la relazione presentata al World Public Forum “Dialogue of Civilizations” and Klub Rusko / Dialogues in Prague, svoltosi aPraga, Repubblica Ceca il 14 maggio 2009.

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          Le elezioni in Finlandia e l’ascesa del nazionalismo in tutta Europa

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          Fonte: Strategic Culture

          Le elezioni parlamentari tenutesi in Finlandia il 17 aprile sono state segnate da un successo senza precedenti dal partito dei True Finns (Veri Finlandesi), che viene considerato come un partito nazionalista. Secondo i risultati iniziali, i True Finns hanno ricevuto il 19% dei voti e hanno aumentato la loro rappresentanza in parlamento da soli 5 seggi a 39, rispetto al 2007. Considerando che la Coalizione Nazionale conservatrice della destra, che ha vinto le elezioni, ha ricevuto poco più del 20% ed i socialdemocratici dell’attuale presidentessa Tarja Halonen hanno preceduto i Veri Finlandesi solo dello 0,1%, possiamo dire che il partito del carismatico Timo Soini è uno dei tre principali partiti politici in Finlandia.

          La discussione sulla formazione della coalizione di governo, in cui i Veri Finlandesi hanno intenzione di svolgere un ruolo significativo, può durare per diverse settimane. Ma è già chiaro che questo partito, che protegge i valori nazionali e si oppone al flusso incontrollato di rifugiati e immigrati clandestini, alla moneta unica europea e alla burocrazia dell’UE, sta godendo di un crescente sostegno in Finlandia.

          Le posizioni degli altri principali partiti (compreso il Partito di Centro dell’ex Primo Ministro Mari Kiviniemi), si sono indebolite – hanno perso il 3-16% dei voti.  Jan Sundberg, professore all’Università di Helsinki, afferma: “Questo è un grande big bang nella politica finlandese. Questo è un grande, grande cambiamento. Questo cambierà il contenuto della politica finlandese.”

          Il giorno successivo alle elezioni parlamentari, uno dei principali quotidiani finlandesi, “Aamulehti”, ha riportato, come titolo, la parola “Rivoluzione”. Il quotidiano centrale di Helsinki, “Helsingin Sanomat”,  ha riportato la citazione di Timo Soini: “Abbiamo vinto le elezioni ed i sondaggi” – un segno che i risultati reali dei True Finns hanno superato le previsioni più inaspettate.

          Tenendo conto del duro braccio di ferro tra i Veri Finlandesi, la sinistra tradizionale e i partiti del centro, tali conclusioni rivoluzionarie non devono esser viste come un’esagerazione. In questo momento, possiamo ravvisare simili “rivoluzioni” in tutta l’Europa Occidentale. Austria, Germania, Francia, Svezia, Belgio, Paesi Bassi, Norvegia – è solo un elenco incompleto dei paesi dell’Europa Occidentale, dove i partiti nazionalisti radicali e i movimenti stanno gradualmente rafforzando le loro posizioni. Nel settembre 2010, i Democratici di Svezia (la cui posizione paragonabile a quella dei Veri Finlandesi) hanno ottenuto un successo senza precedenti alle elezioni parlamentari nel loro Paese.

          E’ difficile non pensare che la geografia del successo dei partiti di destra nelle elezioni in Europa, coincida con la geografia della diffusione degli immigrati clandestini dai Balcani, Nord Africa e del Medio Oriente. Sebbene l’Italia non sia in questa lista, l’incapacità del governo di Silvio Berlusconi di risolvere la situazione dell’arrivo di più di 20.000 rifugiati dalla Tunisia nell’isola di Lampedusa, ci permette di prevedere la crescita di sentimenti nazionalistici anche in Italia. La Lega Nord separatista non abbandona i suoi piani di formare, sulla base dei distretti settentrionali d’Italia più industrialmente sviluppati, la Repubblica di Padania – lontana da Lampedusa, da Napoli da altre zone povere e disagiate.

          Nel febbraio del 2010, in Belgio, è scoppiata una grave crisi – proprio di fronte all’edificio della sede UE. Degli albanesi che sono arrivati ​​a Bruxelles dai Balcani, hanno bloccato le istituzioni statali, chiedendo al governo di dar loro un riparo, un alloggio, un lavoro e un’indennità in denaro. Poi, il Primo Ministro belga Yves Leterme ha esortato le autorità dell’UE a limitare gli effetti negativi della liberalizzazione del regime dei visti europei. Ma non è accaduto ed i rifugiati hanno continuato ad usare con successo il cosiddetto modello  “merry-go-round“, con il quale hanno ricevuto assegni in un Paese, muovendosi verso un altro Paese e ripetendo il tutto.

          La situazione dei rifugiati e degli immigrati clandestini è diventata davvero  rivoluzionaria una volta che i contribuenti hanno mostrato la loro ovvia riluttanza a sostenere l’affondamento economico dell’UE. Jane Fowley, analista della International Rabobank, sostiene che “non si paga per gli errori di bilancio degli altri”.

          La logica dei finlandesi, svedesi, olandesi, tedeschi è chiara: perché dovrebbero soffrire della crisi in Grecia, Irlanda, Portogallo e sentire le conseguenze di una guerra in una remota Libia, dove la NATO sta combattendo sul campo con Al-Qaeda? Le parole profetiche di Yves Leterme si stanno avverando: ciò che era iniziato come crisi bancaria, economica e sociale, ora è diventata una crisi politica.

          I mercati finanziari hanno reagito rapidamente con il calo dell’Euro dopo il successo dei Veri Finaldesi.  A differenza di altri Paesi UE, in Finlandia è il Parlamento, non il Governo, responsabile dell’elaborazione della politica nazionale verso l’UE. Ecco perché gli attuali progetti della burocrazia di Bruxelles, come la preparazione del pacchetto di emergenza per fornire un aiuto finanziario al Portogallo, sono stati sospesi.

          “Naturalmente ci saranno dei cambiamenti”: questo è come ha commentato Timo Soini la possibile influenza del successo del suo partito sui colloqui riguardo il Pacchetto Portogallo. In Gran Bretagna, un uomo su posizioni simili a quella dei Veri Finlandesi, Nigel Paul Farage, leader dell’UK Independence Party (UKIP), ha affermato che: “L’euro-scetticismo può vincere e fare grandi vittorie”. Ha confermato che i Veri Finlandesi e i loro alleati proteggeranno fermamente la loro posizione dicendo “no” ai nuovi pacchetti di stabilizzazione dell’UE e “sì” alle democrazie nazionali.

          Considerato che non ci sono cambiamenti globali in politica finanziaria, economica ed estera dell’Unione Europea che possono esser visti nell’immediato futuro, la rivoluzionaria “svolta a destra” in Europa continuerà definitivamente.

           

          Traduzione a cura di Donatella Ciavarroni

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          La distruzione della Libia, una crescente minaccia per la Russia

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          http://gazeta-pravda.ru/content/view/8768/34/

          Pravda, 1 Settembre 2011

          Secondo i media, le forze che cercano di rovesciare il governo della Libia hanno occupato la capitale, Tripoli, e diverse altre città. Ovunque siano commettono omicidi di massa e saccheggi. E’ stato anche saccheggiato l’eccezionale museo nazionale di Tripoli.

          Tutto questo parla da se del tipo di persone coinvolte nella lotta contro il governo legittimo. E’ ben noto che l'”opposizione” che si sarebbe ribellata contro la “tirannia” di Gheddafi, sta ricevendo armi dall’estero. Ma ancora, non avrebbero potuto affrontare le truppe del governo libico, senza il sostegno massiccio dell’aviazione della NATO, che ha distrutto i centri di comando, depositi di munizioni e armi e le linee di comunicazione. I “ribelli” appaiono solo dopo che la tempesta di fuoco della NATO ha distrutto ogni cosa sul suo cammino.

          Questo è certamente un intervento militare, accuratamente nascosto dietro lo schermo trasparente dei “ribelli”. In Libia, si sta perfezionando una nuova tattica per rovesciare i governi indesiderabili all’Occidente, con ampio uso di eserciti privati e di mercenari come ausiliari alla NATO. Tutto questa orgia si svolge sotto la copertura della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e con l’attuazione del “no-fly zone”, il cui presunto obiettivo era proteggere la popolazione civile della Libia dai bombardamenti. In pratica, gli aerei della NATO ha lanciato attacchi con missili e bombe, non solo contro le posizioni dell’esercito libico, anche contro le strutture civili nelle città. Di conseguenza, essi hanno ucciso migliaia di civili, tra cui anziani e bambini. Fatti come questi sono, secondo il diritto internazionale, un crimine contro l’umanità. Ma la lingua dei Gesuiti della NATO, le vite distrutte vengono chiamate “danni collaterali”.

          La Libia è l’ultima vittima dell’intervento globale della NATO, che è diventato possibile dopo la distruzione dell’Unione Sovietica. Proprio in questo momento, con la scomparsa di una forza capace di affrontare l’avventurismo dell’oligarchia mondiale, apparve al nostro attuale “partner” la sensazione dell’impunità. Imposta dall’esterno, ebbe inizio la guerra civile in Jugoslavia, che si è conclusa dopo 78 giorni di bombardamenti di città e cittadine indifese.

          Poi gli Stati Uniti ed i suoi alleati hanno invaso l’Iraq, impigliandosi nel filo spinato di quel paese. Poi seguì l’Afghanistan, convertito dalle truppe di occupazione in un ritrovo per la produzione di droga. Nel frattempo, le agenzie d’intelligence dell’Alleanza avviarono le rivolte “arancione” in Georgia, Ucraina e Moldavia. Passando anni a cercare di rovesciare il Presidente bielorusso Lukashenko.

          La Siria è prossimo della lista, sottoposta ad attacchi di insorti armati dall’esterno. Assistiamo alla guerra di informazione contro il governo siriano. Prova eloquente dei preparativi per l’intervento della NATO.

          Oggi il mondo affronta un nuovo colonialismo, nella sua variante più disgustosa e cinica, proprio come lo era due secoli fa. L’ex potenze coloniali, USA, Regno Unito e Francia ancora rivendicano il diritto di decidere del destino di qualsiasi stato sovrano. Durante questa operazione “umanitaria” hanno calpestato la Carta delle Nazioni Unite e le norme del diritto internazionale. Come risultato, la Libia è stata sommersa nel caos, e potrebbe eventualmente svilupparsi successivamente nello scenario somalo: la divisione in innumerevoli tribù e clan che si combattono tra loro. La Russia è anch’essa responsabile della tragedia in Libia, dal momento che il governo ha dato il via libera alla risoluzione anti-Libia delle Nazioni Unite, non usando il suo potere di veto e, quindi, unendosi alle sanzioni contro la Libia. Questo ha significato non solo che abbiamo perso 20 miliardi di dollari di potenziali benefici dal commercio e della cooperazione economica con questo ricco paese africano, ma abbiamo anche perso uno degli stati amici che avevamo nella regione strategicamente importante del Mediterraneo.

          Se non finisce questa orgia del neo-colonialismo, la Russia con i suoi sconfinati territori e le sue enormi riserve di materie prime, diventerà uno degli obiettivi futuri dell’esportazione atlantista della “democrazia”. Indebolito da due decenni di cosciente deindustrializzazione e decadenza, con un esercito demoralizzato e distrutto, il nostro Paese inevitabilmente diventerà un bersaglio per l’intervento.

          Il PCRF condanna la pirateria mondiale dell’oligarchia coloniale ed esorta il governo della Federazione Russa a prendere coscienza delle conseguenze più pericolose che comporta la collusione con gli aggressori.

          Solo un governo forte e patriottico, in grado di rilanciare l’industria, l’agricoltura, l’istruzione, la scienza e la cultura, il nostro passato di potenza e il ritorno delle nostre Forze Armate, può salvare la Russia dal ripetersi dello scenario libico delle rivoluzioni “colorate”.

          Link: [1] http://josafatscomin.blogspot.com/2011/09/destruccion-de-libia-crecela-amenaza.html [2] http://gazeta-pravda.ru/content/view/8768/34/ http://tortillaconsal.com/tortilla/print/9378

          Di Gennady Zyuganov leggi il trattato di geopolitica: Stato e Potenza (Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1999)

          Traduzione di Alessandro Lattanzio
          http://www.aurora03.da.ru http://www.bollettinoaurora.da.ru http://aurorasito.wordpress.com

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          L’anacronismo di Israele

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          Mentre i paesi europei si accingevano a chiudere la lunga parentesi coloniale ritirando progressivamente i propri vessilli dai paesi dell’Africa e dell’Asia, un gruppo di ebrei d’Europa si apprestava a dar vita a un impero coloniale nel cuore del mondo arabo, a ridosso delle città sante dell’Islam.

          Nel momento in cui i coloni originari del Vecchio Continente si vedevano costretti, volenti o nolenti che fossero, ad abbandonare il mondo arabo, una cospicua schiera di essi occupava progressivamente la Palestina, spingendo coercitivamente quasi 1 milione di indigeni a lasciare le proprie abitazioni al fine di favorire, in fortissima opposizione rispetto alle tendenze dell’epoca, la formazione di uno Stato etnicamente e confessionalmente monolitico.

          Mentre il multiculturalismo stava soppiantando, in Europa ed America, la concezione etnica dello Stato, quel nucleo di europei erigeva una nazione etnico – religiosa di cui era possibile divenire cittadini a pieno titolo solo dimostrando la “purezza” originaria della propria stirpe.

          Le straordinarie ragioni politiche che produssero questa inedita anomalia storica furono principalmente il declino dell’Impero Britannico, il peso esercitato dalla potente lobby ebraica sulle scelte politiche degli Stati Uniti e la strategia geopolitica dell’Unione Sovietica.

          Le Gran Bretagna profuse enormi sforzi nel tentativo di assolvere degnamente ai compiti del mandato e placare la conflittualità tra arabi ed ebrei, nutrita minoranza soggetta però a un forte incremento demografico.

          In quello specifico contesto maturarono le condizioni che portarono alla nascita di vari gruppi paramilitari sionisti che innescarono una campagna terroristica finalizzata ad accelerare la fine del protettorato britannico.

          Haganah, Palmach, Irgun e banda Stern scatenarono un’efferata offensiva che destrutturò le forze britanniche e annichilì la popolazione palestinese.

          Particolare sgomento, tra i tanti attentati commessi, fu suscitato dall’attentato all’hotel King David del 22 luglio 1946 eseguito dall’Irgun (comandato dal futuro Primo Ministro israeliano e Premio Nobel per la Pace Menachem Begin), che provocò la morte di circa un centinaio di persone e spinse la società civile in patria ad esercitare forti pressioni sul governo affinché ritirasse definitivamente la presenza britannica – che ammontava a circa un decimo delle forze armate stanziate all’estero – dalla Palestina.

          Dissanguata dagli sforzi bellici profusi durante la Seconda Guerra Mondiale, mal sostentata da un’economia anemica ed incapace di spezzare l’inerzia negativa legata al proprio declinante status imperiale, la Gran Bretagna si rivolse alle Nazioni Unite perché si esprimessero in merito alla questione ebraica.

          Nel novembre del 1947 venne approvata la risoluzione 181, che prevedeva la creazione di due Stati e l’applicazione di un regime internazionale su Gerusalemme.

          Tale risoluzione intendeva dar vita a uno stato ebraico composto da un nucleo di circa 500.000 ebrei e 325.000 arabi, e a uno arabo formato da circa 800.000 arabi e 10.000 ebrei.

          Gerusalemme avrebbe contenuto circa 100.000 ebrei e 100.000 arabi.

          Gran Bretagna e i paesi arabi mal digerirono tale verdetto, mentre sia Josif Stalin che Harry Truman videro soddisfatti i propri progetti per quella regione.

          Stalin, persuaso di aver colto negli ebrei una sorta di inclinazione culturale favorevole al socialismo, ritenne che appoggiando il progetto finalizzato alla creazione di un’entità sionista nel cuore del Levante avrebbe assestato un duro colpo ai residui imperialistici inglesi.

          Truman intendeva invece assicurarsi il sostegno della vasta comunità ebraica degli Stati Uniti in vista delle imminenti elezioni.

          Significativo a tal riguardo è il fatto che nel maggio del 1942 all’hotel Biltmore di New York si era tenuto un cruciale convegno che culminò con l’approvazione da parte di circa 600 influenti ebrei americani del “Zionist Biltmore Program”  proposto da Chaim Weizmann e David Ben Gurion.

          Il programma in questione traeva ispirazione dal progetto imperiale escogitato all’inizio del’900 da Theodor Herzl finalizzato all’instaurazione di uno Stato ebraico in Palestina e fu adottato dal Consiglio generale dell’organizzazione sionista di Gerusalemme.

          All’epoca il movimento sionista degli Stati Uniti era guidato dal rabbino Stephen Wise, il quale seppe raggruppare l’intera comunità ebraica del paese – la più grande del mondo per numero e peso economico – sotto la propria egida al fine di esercitare pressioni politiche sul Congresso e sull’esecutivo statunitense.

          Il 30% circa dei senatori, 143 deputati e più di mille eminenti personalità della politica, dell’economia e della cultura degli Stati Uniti accettarono congiuntamente di sottoscrivere un documento a supporto della formazione di un esercito regolare ebraico, mentre mozioni di sostegno al disegno sionista furono sottoposte al voto in ben 33 Stati.

          Non stupisce quindi l’accondiscendenza di Truman – e più in generale degli Stati Uniti, pur tra notevoli alti e bassi, fino al giorno d’oggi (e non solo per quanto riguarda i famosi 3 miliardi di dollari che Washington versa annualmente nelle casse israeliane) – nei riguardi del sionismo e della creazione dello Stato di Israele.

          Nell’arco di pochi giorni dalla nascita del nuovo Stato la tensione si acuì costantemente finché la Palestina non si trasformò nel principale campo di battaglia del Vicino Oriente.

          Sugli eventi che si verificarono negli anni seguenti è stata scritta una vasta bibliografia quasi interamente incardinata sulle tesi che il “popolo senza terra” degli ebrei europei sopravvissuto al genocidio nazista avrebbe individuato nella Palestina quella “terra senza popolo” adatta ad ospitare il nuovo Stato ebraico e che le poche comunità autoctone stanziate nella regione avrebbero abbandonato le proprie case assecondando le esortazioni delle autorità arabe.

          Nell’ultimo ventennio è nata però una corrente storiografica revisionista formata da un gruppo di accademici israeliani che hanno usufruito dell’ampia documentazione dell’epoca gradualmente desecretata per smentire questo infondato assunto di base.

          Storici come Ilan Pappé, Zeev Sternhell, Tom Segev salirono agli onori della cronaca per aver sostenuto la tesi che nell’arco del triennio 1947 – 1950 sia avvenuta in Palestina una massiccia pulizia etnica delle popolazioni indigene realizzata dalle forze israeliane.

          Un’operazione perfettamente organizzata che violò la risoluzione ONU 181 consacrando il carattere ebraico a cemento della neonata nazione di Israele.

          L’episodio fondamentale che segnò la nascita della tattica del terrore ebbe luogo il 9 aprile del 1948.

          Allora l’Haganah conquistò il villaggio palestinese di Deir Yassin per poi ritirarsi e lasciare che l’Irgun massacrasse tutti i 254 palestinesi che vi abitavano senza badare a sottigliezze come il sesso o l’età anagrafica delle vittime.

          “Il massacro non solo fu giustificato, ma non ci sarebbe stato Israele senza la vittoria di Deir Yassin”, affermò Menachem Begin.

          Le modalità con cui avvenne la “vittoria” di Deir Yassin furono poi diffuse per radio affinché i palestinesi comprendessero quale destino si celava dietro l’eventuale, malaugurata scelta di resistere alla prorompente avanzata sionista.

          Dopo Deir Yassin massacri e stermini svolsero un ruolo cruciale nella diffusione del terrore in seno alla popolazione autoctona e all’induzione della stessa all’esodo.

          Nell’arco di pochi anni 474 villaggi arabi furono occupati dalle forze sioniste e 385 di essi furono rasi al suolo e cancellati dalle cartine geografiche.

          Stando alle statistiche britanniche, al 31 dicembre del 1947 vivevano in Palestina 589.341 ebrei a fronte di una popolazione totale di 1.908.775 persone.

          Un censimento realizzato nel novembre del 1948 rivelò che la popolazione araba di Israele ammontava a non più di 130.000 persone.

          Gli analisti sono concordi nello stimare in un minimo di 890.000 e un massimo di 904.000 il totale delle persone vittime della pulizia etnica realizzata dalle forze sioniste.

          All’inizio degli anni ’50 la popolazione contenuta all’interno dei confini armistiziali era composta da 1.509.000 ebrei, 118.500 arabi, 39.000 cristiani e 15.000 drusi.

          L’enorme squilibrio demografico favorito dalle scelte del Primo Ministro David Ben Gurion e dai suoi successori consolidò politicamente, economicamente, socialmente e militarmente il paese.

          In sostanza, lo Stato di Israele si affermò sul piano internazionale cacciando gli indigeni dalle loro terre e rifacendosi a motivazioni di carattere biblico – religioso per adottare nei confronti degli arabi una prassi analoga a quella impiegata in altre epoche dai puritani anglosassoni nei confronti dei Pellerossa, dai cecoslovacchi e dai polacchi nei confronti dei tedeschi dei Sudeti e della Polonia occidentale, degli jugoslavi verso gli italiani d’Istria e di Dalmazia e dei croati a danno dei serbi della Kraijna.

          A differenza degli altri casi, tuttavia, era la filosofia che aveva animato pochi anni prima la pulizia etnica eseguita dai nazisti nei primi territori occupati a presentare analogie con quella perpetrata dai sionisti contro le popolazioni indigene, i cui tratti comuni furono delineati efficacemente dal Ministro degli Esteri del primo governo israeliano guidato dal padre della patria David Ben Gurion.

          Si tratta di Moshe Sharett, il quale affermò che:

          “I rifugiati troveranno il loro posto nella diaspora. Grazie alla selezione naturale, certi resisteranno, altri no. La maggioranza diventerà un rifiuto del genere umano e si fonderà con gli strati più poveri del mondo arabo”.

          I palestinesi espulsi furono costretti a rifugiarsi lungo la striscia di Gaza, in Giordania, Siria e Libano, dove vennero confinati in numerosi campi profughi appositamente creati affinché non alterassero i fragili equilibri demografici e politici della regione.

          Il nazionalismo palestinese incarnato dalla figura di Yasser Arafat trasse linfa vitale proprio dalla rabbia per i torti subiti – oltre che dall’orgoglio connaturato alla religione islamica  – e dalle precarie condizioni in cui versava la popolazione dislocata nei campi profughi.

          La volontà di riscatto palestinese favorì poi la formazione delle classi dirigenti imbevute di religione musulmana come la Jihad islamica e soprattutto Hamas, movimento politico di grande diffusione popolare dotato di una struttura portante simile a quella di Hezbollah e capace di adempiere ai compiti militari, economici e assistenziali.

          Fu nella miseria e nel disagio che maturarono le condizioni per la reazione palestinese, che si dispiegò mediante numerosi sommovimenti popolari che innescarono una colossale concatenazione di eventi.

          Settembre Nero, invasione israeliana del Libano, attentato a Bashir Gemayel, efferata ritorsione di Sabra e Chatila, Prima Intifada,  seconda guerra del Libano, provocazione di Ariel Sharon lungo la Spianata delle Moschee, Seconda Intifada, omicidio di Rafik Hariri, Rivoluzione dei Cedri, ascesa di Hezbollah, terza guerra del Libano, Piombo Fuso, allontanamento della Turchia; tutti eventi connessi direttamente o indirettamente alle tensioni israelo – palestinesi.

          L’altra ripercussione sortita dalla nascita e (soprattutto) dalle modalità in cui si affermò Israele fu l’endemico sentimento di frustrazione e subalternità che opprime ancora oggi le popolazioni arabe dovuto all’atteggiamento tenuto dagli israeliani nei loro riguardi.

          Dalla pulizia etnica della Palestina, alla relegazione degli arabi a cittadini di secondo livello si è giunti all’innalzamento di una “barriera di separazione”, un muro suscettibile di produrre l’annessione israeliana di Gerusalemme Est oltre a parte dei territori occupati della Cisgiordania e di garantire una segregazione forzata sospingendo verso est le popolazioni arabe stanziate nell’area.

          La costruzione della barriera in questione iniziata nel 2003 avvenne a più di un decennio dal significativo abbattimento del Muro di Berlino e dalla liberazione di Nelson Mandela che preluse alla fine dell’Apartheid, il regime di segregazione razziale che gli afrikaner sudafricani avevano applicato per mantenere una separazione forzata dai cittadini autoctoni di pelle nera.

          Si tratta di un anacronismo che alla prova dei fatti tende a minare le ambizioni palestinesi relative al riconoscimento di uno Stato nazionale.

          Abu Mazen ha annunciato pubblicamente che a settembre si rivolgerà alle Nazioni Unite per chiedere il riconoscimento di uno Stato palestinese imperniato sulla centralità indiscutibile di Gerusalemme, città che non a caso Israele sta accingendosi ad accorpare per mezzo del muro.

          Molti paesi – specialmente dell’America Indiolatina – hanno già riconosciuto lo Stato palestinese ed altri – come la Norvegia – attenderanno il voto di settembre per fare altrettanto.

          Israele, per bocca del Primo Ministro Benjamin Netanyahu e del Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, ha pubblicamente invitato i paesi europei a guardarsi dall’accogliere le richieste avanzate unilateralmente da Abu Mazen, laddove riconoscere uno Stato per i palestinesi è una necessità che solo un numero assai contenuto di paesi e uomini politici ha osato mettere in discussione.

          I governanti di Tel Aviv, tuttavia, perseverano nel far ricorso ai medesimi, logori e stereotipati clichés impiegati negli anni passati per edulcorare l’immagine di Israele.

          L’opinione pubblica internazionale, infatti, non accetta più che vengano rievocati gli orrori del nazismo per giustificare i coprifuoco, i check – point, le esecuzioni selettive, le umiliazioni pubbliche di cui le autorità israeliane si sono ripetutamente rese responsabili.

          Esiste, beninteso, una sparuta minoranza che si ostina a considerare gli israeliani delle vittime, laddove sono però incontestabilmente i palestinesi – vessati, umiliati e privi di uno Stato – ad aver sostituito gli ebrei nell’immaginario collettivo.

          “Le contraddizioni – scrive lo storico Tony Judt – insite nel modo in cui Israele si presenta – “siamo molto forti/siamo molto vulnerabili”; “decidiamo del nostro destino/siamo noi le vittime”; “siamo uno Stato normale/pretendiamo un trattamento speciale” – non sono nuove: fanno parte dell’identità distintiva del paese quasi dall’inizio. E l’insistente enfasi sull’isolamento e sulla unicità che lo caratterizzano, oltre alla pretesa di essere allo stesso tempo eroe e vittima, un tempo formavano parte del vecchio fascino alla Davide contro Golia”.

          L’assiduità ossessiva con cui viene impiegato l’antisemitismo per trasferire il terreno della discussione dal politico all’irrazionale e per trasformare gli imputati in giudici è indice del fatto che rimangono ben pochi argomenti per giustificare le mosse di Tel Aviv.

          Si tratta dell’ultimo, logoro asso nella manica che i sostenitori acritici di Israele utilizzano per fregiare di nobili crismi legittimatori i colpi di coda di una nazione che non comprende di aver perso da tempo ogni diritto alla solidarietà internazionale, che si ostina ad ignorare il fatto che gli Stati Uniti non si mostreranno sempre accondiscendenti (Zbigniew Brzezinski non lo è stato mentre John Mearsheimer e Stephen Walt hanno documentato ampiamente i danni provocati agli interessi statunitensi dall’appoggio a Israele, subendo pesanti attacchi dalla lobby ebraica e delle sue influenti ramificazioni) che muri e fortezze non preserveranno il paese più di quanto abbiano fatto con la Repubblica Democratica Tedesca e il Sud Africa, con Troia e Sebastopoli, con Atene e Yorktown.

          Attualmente l’immane tragedia costituita dalla nascita di Israele e dalle modalità che segnarono la sua graduale affermazione internazionale sono tappe storiche di quella viene eufemisticamente definita come “questione palestinese”.

          A differenza di ciò che accade oggi in Israele e ovunque si trovino gli entusiasti difensori del sionismo, l’ipocrisia che sta alla base di tale espressione non avrebbe presumibilmente trovato l’approvazione di David Ben Gurion stesso, principale artefice e ideatore della pulizia etnica della Palestina che descrisse la natura intrinseca del colossale problema nei seguenti termini:

          “Se fossi un arabo non firmerei mai la pace con Israele. E’ ovvio: abbiamo preso il loro paese. Ci era stato promesso da Dio, certo, ma perché ciò dovrebbe interessarli? Il nostro Dio non è il loro. E’ vero che siamo originari di Israele, ma è un fatto che risale a duemila anni fa. In che modo può riguardarli? Ci sono stati l’antisemitismo, il nazismo, Hitler, Auschwitz. Ma è stata forse colpa loro? Essi vedono una sola cosa: siamo venuti e abbiamo preso la loro terra”.

          Giacomo Gabellini è collaboratore di Conflitti & Strategie

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          La Global Security dalla Guerra del Golfo all’aggressione alla Libia

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          “The brutal aggression launched last night against Kuwait illustrates my central thesis: Notwithstanding the alteration in the Soviet threat, the world remains a dangerous place with serious threats to important U.S. interests wholly unrelated to the earlier patterns of the U.S.-Soviet relationship. These threats, as we’ve seen just in the last 24 hours, can arise suddenly, unpredictably, and from unexpected quarters. U.S. interests can be protected only with capability which is in existence and which is ready to act without delay. The events of the past day underscore also the vital need for a defense structure which not only preserves our security but provides the resources for supporting the legitimate self-defense needs of our friends and of our allies. This will be an enduring commitment as we continue with our force restructuring”.

          George Bush, 2.08.1990, Aspen, Colorado

          Con queste parole, a poche ore dall’invasione irachena del Kuwait, George Bush introduce le basi della nuova linea estera statunitense. La fine del Patto di Varsavia spinge gli Stati Uniti a ridefinire la propria posizione nell’ordine internazionale correggendo gli obiettivi del nuovo sistema mondiale. Nell’ottica dei suoi promotori, la strategia delineata individuerebbe l’emergere di nuove sfide nel tramonto della presunta minaccia sovietica. Infatti, la possibile anarchia del Terzo Mondo, resa più visibile nel rinnovato scenario internazionale, nasconderebbe gravi preoccupazioni. Pertanto, in virtù delle parole del Presidente, gli Stati Uniti, a partire da questo frangente storico, avrebbero il doveroso compito di modellare gli equilibri internazionali secondo la propria impostazione ideologica. Per raggiungere questo scopo, la manovra non esclude la violazione del principio di non interferenza negli affari interni dello stato: è la dottrina della global security.

          Rivista più volte sotto differenti vesti, la manovra Bush rappresenta una costante della politica occidentale dalla Prima Guerra del Golfo ad oggi. In Kosovo, in Afghanistan, in Iraq ne abbiamo osservato i risvolti concreti. Una sua versione, rivista da NATO e Unione Europea, dirige oggi l’aggressione contro la Libia del Colonnello Mu’ammar al-Qadhdhāfī.

          Lo Stato delle masse

          Nel 1969, l’ascesa al potere del Movimento dei Liberi Ufficiali Unionisti, sancì il declino delle politiche strategiche occidentali in linea con le manovre del Presidente egiziano Gamāl ‘Abd al-Nāsir. Qadhdhāfī, leader del Movimento, assunse presto il titolo di “guida della rivoluzione”. Nei primi anni di governo creò nuove formule amministrative e, per limitare l’influenza dell’élite, diede vita ad un’organizzazione di massa, l’Unione Socialista Araba. Nel 1973, ai comitati popolari, eletti nei villaggi, nelle scuole e nelle organizzazioni, fu permesso di giocare un ruolo di rilievo nel governo locale e provinciale. Due anni più tardi, le loro attività trovarono espressione a livello nazionale nel Congresso Generale del Popolo. Questa struttura rappresentativa pose le basi per la jamahiriyyah, la “Repubblica delle masse”. Sebbene responsabile, in ultima analisi, davanti al Colonnello, la  nuova struttura burocratica includeva il Congresso, i comitati rivoluzionari e gli esponenti degli “uffici del popolo”. Sintesi tra partecipazione e controllo amministrativo, la formula  di Qadhdhāfī non aveva eguali in tutto il mondo arabo. La sua rappresentatività e le sue peculiarità lo qualificavano come una vera e propria autentica alternativa politica.

          La manovra riformatrice del Colonnello venne accompagnata dall’attacco contro i privilegi economici, realizzato attraverso un programma di nazionalizzazione delle imprese private. Dopo aver dato vita a una grande impresa di ingegneria idraulica, che rispondesse al problema della siccità, elaborò un sistema finalizzato all’approvvigionamento del petrolio e del gas. In questo programma, Qadhdhāfī perseguì il suo progetto con una determinazione e una lungimiranza tale da guadagnare un ruolo di primo piano nella rispettabilità antimperialista.

          L’aggressione al Colonnello

          Negli ultimi anni, Qadhdhāfī era tornato nello scenario dell’onorabilità internazionale tanto da essere ricevuto con grandi onori dai governi di tutta Europa. Poi, è giunta la cosidetta “primavera araba”. E, quindi, la protesta del popolo libico.

          Allo stato attuale, le manifestazioni anti-governative sembrano essere guidate, in parte, da fattori esterni i quali avrebbero approfittato del malcontento popolare allo scopo di soffocare l’autodeterminazione di un paese ricco di risorse preziose.

          Per realizzare questo compito, la comunità internazionale ha redatto una fonte di legittimazione approvando la risoluzione ONU 1973, ratificata il 17  marzo del 2011. In questo modo, l’ONU ha autorizzato l’uso della forza militare allo scopo di proteggere i civili imponendo una no fly zone sui cieli libici. Ancora una volta, lo spirito alla base di questa operazione è riconducibile alla dottrina Bush. Oggi, mentre la NATO compie i suoi massacri indistintamente sui civili libici, le manifestazioni a favore di Qadhdhāfī si sono trasformate in azioni di resistenza che dipingono lo stesso come padre dell’antimperialismo e vittima del complotto NATO.

          Dopo l’assassinio di Abdul Fatah Younis, comandante militare del Consiglio Nazionale di Transizione-CNT, sembrerebbe che la NATO, temendo un insuccesso della missione, abbia assunto in prima persona la direzione della rivolta attraverso l’uso di mercenari occidentali e ribelli islamisti. Il CNT, costituito da svariate componenti, è stato identificato come legittimo rappresentante del popolo libico in maniera del tutto discrezionale dalla comunità internazionale. Tuttavia, come esporrò in seguito, a queste condizioni, non sembra essere l’attore adatto a guidare la transizione in Libia.

          Il Post-Qadhdhāfī visto dagli USA

          Intanto, gli Stati Uniti preparano il loro post-Qadhdhāfī. Il Council of Foreign Relations[1] ha recentemente diffuso un documento, dal titolo Post-Qadhdhāfī Instability in Libya, che prospetta gli scenari possibili del futuro libico. Posto che il rapporto non ammette una continuità con il regime precedente, il think tank statunitense espone un insieme di opzioni che non sembra proiettare verso una transizione pacifica. All’interno vengono contemplate diverse possibilità: Qadhdhāfī potrebbe essere definitivamente estromesso, oppure, potrebbe giungere ad un accordo che permetta ad alcuni elementi del suo regime di partecipare al suo post o, infine, potrebbe negoziare un ruolo, più limitato, per sè o per i suoi figli. Il documento, analizzate le ipotesi, riferisce che, il persistere della presenza di  Qadhdhāfī, o dei membri della sua famiglia, potrebbe ridurre il rischio di instabilità del paese.

          A tal proposito, lo studio si sofferma sulle fonti di precarietà politica che potrebbero presentarsi nel caso in cui la transizione estrometta completamente la figura del Colonnello: insurrezioni, saccheggi, guerre fratricide, criminalità diffusa. Tra queste, inoltre, non è esclusa la possibilità che i lealisti continuino la resistenza. Il documento, quindi, riconosce alle forze vicine a Qadhdhāfī un peso non indifferente. Altra questione, che fa discutere sulle posizioni attuali della NATO, è la credibilità del CNT. Lo stesso rapporto, infatti, menziona, tra gli elementi di instabilità, l’alta frammentazione interna al Consiglio, costuito da liberal-democratici, islamisti, berberi, emigrati e jihadisti.

          Sulla base dell’esame del documento, l’intervento sotto l’egida NATO rappresenterebbe una possibilità per gestire il passaggio politico e per la ripresa delle esportazioni di petrolio e gas. Eppure, continua il rapporto, esistono diverse opzioni di successo. Una di queste potrebbe vedere una Libia non democratica raggiungere una condizione di stabilità. Tuttavia, la transizione potrebbe fallire producendo uno stato di confusione politica o conducendo all’instaurazione di regimi ostili all’interesse statunitense. Al riguardo, è valutata anche l’eventualità che i possibili rifugiati creino ulteriori disordini nei paesi limitrofi amplificando il clima di precarietà regionale.

          Secondo quanto esposto, la tutela delle infrastrutture e delle risorse del paese, il problema delle armi e il mantenimento dell’ordine pubblico rappresentano dei doveri prioritari in tutte le possibili alternative transitorie. A tale scopo, nel documento è inclusa la possibile creazione di un governo ad interim, riconosciuto sul piano internazionale, o, ancora, un’operazione di peacekeeping. Tuttavia, qualora si presenti la necessità di soffocare un’insurrezione e prevenire possibili regimi dittatoriali, la comunità internazionale dovrebbe provvedere prendendo in esame anche l’ipotesi dell’intervento militare.  Infine, non è esclusa l’ipotesi della piena occupazione in caso di sfacelo dell’ordine pubblico e di conseguente crisi umanitaria.

          In sintesi, la forma mentis delle recenti operazioni, si inserisce nel solco della global security. Il documento, infatti, non nega che il post-Qadhdhāfī possa comportare una situazione politica estremamente problematica. Il Colonnello, conquistando consensi di una buona parte della popolazione, che oggi porta avanti la resistenza contro l’occupazione NATO e inneggia a lui come ad un perseguitato delle politiche occidentali, rappresenta un elemento di stabilità per il paese. Lo stesso rapporto descrive un futuro scenario pieno di insidie e di precarietà politica, sociale ed economica. Non solo, ma ammette anche che il coinvolgimento del Colonnello nel futuro politico della Libia sia una delle poche possibilità in grado di attenuare questa fragilità. Infatti, la sua figura, in qualche modo, fornirebbe delle garanzie al popolo libico. Tanto è vero che il rapporto, nel momento in cui si spinge ad analizzare il riscontro di alternative di transizione che escludono la sua partecipazione, giunge a valutare l’ipotesi di interventi armati e di vere e proprie occupazioni Il CNT, dunque, rappresenterebbe solamente uno strumento formale per facilitare la presenza delle forze occidentali in Libia. Per tale ragione, si riconosce l’incapacità del Consiglio nel gestire la transizione attribuendo ruoli di rilievo alla comunità internazionale che, in caso di emergenza, si presenterebbe come necessaria. La situazione libica non sembra differire molto dall’attacco scatenato contro Saddām Husayn. Anche in questa occasione, infatti, si assistette ad una dura campagna demonizzatrice del raìs che intendeva giustificare l’aggressione contro la popolazione civile. L’allarme scatenato contro Saddām ricorda lo stesso copione libico. Anche le dinamiche di preparazione alla transizione non sembrano differire molto. Fonti recenti, infatti, riferiscono che la Casa Bianca abbia attivato il Libyan Information Exchange Mechanism (LIEM), un organismo simile all’Office of Reconstruction and Humanitarian Assistance (ORHA) di Baghdad. Quest’ultimo istituto, di natura privata, venne istituito sotto la coordinazione del Pentagono e fu presto assorbito dall’Autorità Provvisoria della Coalizione (CPA). A tal proposito lascia perplessi il fatto che, allo stato attuale, in Libia, si ignori la natura giuridica del CNT libico e del LIEM. Queste considerazioni dovrebbero indurci a vagliare le differenti sfaccettature delle operazioni, mascherate dalla targa diritti umani”, dove i presunti interventi umanitari sono stati responsabili di massacri e violenze. Per queste ragioni, il documento del think tank statunitense è prova del fatto che, a venti anni di distanza, lo spirito della tradizione Bush continua a forgiare la politica internazionale a difesa dello status quo dominante.


          [1] Il Council on Foreign Relations-CFR è una think tank statunitense, è un’associazione privata che si occupa delle analisi della politica estera statunitense facendo da supporto al governo statunitense.

          Laura Tocco è dottoranda presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Cagliari.

           

           

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          A chi giova la tesi della cosiddetta “unicità” del genocidio ebraico?

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          1. Faccio riferimento a due pagine del Corriere della Sera del 31 agosto e del 1° settembre 2011, con interviste di Stefano Montefiori a Pierre Nora e Claude Lanzmann, e commento dell’intellettuale di regime Pierluigi Battista. Essi si indignano per il fatto che sui manuali francesi di storia la parola “Shoah” sia stata sostituita da termini come genocidio, sterminio ed annientamento, perché temono che dietro questa vaga terminologia ci sia una strategia non certo di “negazionismo”, ma anche soltanto di relativizzazione e di “banalizzazione” (termine usato in Francia) della cosiddetta “unicità” del genocidio ebraico.

          Il lettore intenda bene. Qui non si ha a che fare con una giusta, legittima e sacrosanta reazione alle tesi “negazioniste”. Qui si intende affermare la tesi mistico-religiosa della cosiddetta Unicità e Imparagonabilità del genocidio ebraico. Si è dunque all’interno di quella costellazione ideologica che a suo tempo Domenico Losurdo definì “giudeocentrismo”, che in quanto tale non ha nulla a che fare con la giudeofilia né con la giudeofobia (termine da preferire a quello di antisemitismo, visto che anche gli arabi musulmani sono semiti).

          A chi giova questa follia? Non certamente alla memoria storica per le vittime innocenti. Certamente non alla prevenzione di crimini di questo tipo, prevenzione che sarebbe molto più facilitata dalla comparabilità e dall’analogia storica piuttosto che da una mistica unicità. E allora a chi giova?

          2. Leggo che la parola “Shoah” in ebraico significa catastrofe, ed indica il genocidio degli ebrei ad opera dei nazisti. E’ preferito al termine “Olocausto” per le implicazioni religiose di quest’ultima parola. Nella lingua armena il termine corrispondente a Shoah, olocausto e genocidio è connotato come Metz Yeghern (Grande Male). Si può visitare il memoriale a Erevan, così come lo Yad Vashem in Israele. Nessun armeno si inquieterà se per caso il termine di genocidio non viene connotato come Metz Yeghern. Ciò che conta è che il genocidio armeno sia riconosciuto come tale, ma gli armeni non pretendono l’Unicità. Perché gli ebrei la pretendono?

          3. Una risposta cerca di darla la giornalista ebrea israeliana Amira Hass (Cfr. “Internazionale” n. 582, marzo 2005). Scrive la Hass: “Non ho guardato alla televisione la cerimonia per l’inaugurazione del nuovo museo dell’Olocausto a Gerusalemme. Per quanto potesse essere commovente ascoltare testimonianze così simili a quelle dei miei genitori, ho preferito vedere un film. Non volevo assistere al modo in cui lo stato di Israele ha sfruttato la storia della mia famiglia e del mio popolo per una grande campagna di pubbliche relazioni … la morte di sei milioni di ebrei è la più grande risorsa diplomatica di Israele”.

          Non si poteva dire meglio. Esattamente come Amira Hass, quando cominciano alla televisione le cerimonie sulla Memoria cambio immediatamente canale, e spero che questa onesta ammissione non venga presa per una manifestazione di antisemitismo latente, inconscio, eccetera. Riconosco totalmente il “fatto” del genocidio ebraico. Riconosco le tesi storiografiche sulla distruzione dell’ebraismo europeo. Come molti della mia generazione, mi sono formato moralmente su “Se questo è un uomo” di Primo Levi. E’ quasi umiliante dover ribadire queste ovvietà. Non sopporto, e ho il diritto di non sopportarlo, la cerimonializzazione religiosa della legittimazione del sionismo fatta passare per rispetto della memoria storica.

          E tuttavia, l’impostazione di Amira Hass non mi convince del tutto. Possibile che tutto questo ambaradan sia rivolto solo a legittimare la costruzione di numerose colonie sioniste in Cisgiordania, la cacciata di contadini palestinesi e la distruzione dei loro ulivi? Non si spara con un cannone contro una mosca. Ci deve essere dell’altro. Vediamo cosa, ma prima apriamo due parentesi.

          4. A fine Ottocento, la corrente filosofica chiamata “storicismo” stabilì la differenza fra discipline dette nomotetiche e discipline dette idiografiche. Le discipline nomotetiche (fisica, chimica, biologia, eccetera) stabiliscono “leggi” matematizzabili e sperimentabili, e quindi falsificabili, nei rapporti tra fenomeni. Le discipline idiografiche (storia, storiografia, eccetera) indagano il particolare storico irripetibile (in greco idion), per cui ogni avvenimento è unico e fa storia a sé.

          In questa sede non ci interessa discutere se e in che misura gli storicisti avessero ragione o torto contro i loro avversari positivisti e marxisti positivisti. Qui interessa solo ricordare che ogni fenomeno storico per principio è unico, e quindi idion. Anche il genocidio ebraico, come del resto quello armeno, è quindi unico, in quanto avvenuto con modalità uniche (ad esempio il carattere industriale delle deportazioni e l’accompagnamento ideologico razzista, eccetera). Ma non è questa l’unicità storiografica cui vanno in cerca Nora e Lanzmann, ed il loro schiavetto ideologico Battista. Per costoro Unico significa Superiore a qualunque altro, Imparagonabile, così come per i religiosi Mosè, Gesù e Maometto sono unici e imparagonabili. A chi giova?

          5. A suo tempo, mi sono occupato analiticamente del genocidio degli armeni, che ho studiato con cura (Cfr. “Eurasia”, 3, 2009). Non ho qui lo spazio per motivarlo, ma assicuro il lettore che si tratta di un genocidio al 100%, qualunque siano le categorie e i parametri concettuali usati per definire il fenomeno.

          Il testo principale di riferimento è quello di Vahakn N. Dadrian, Storia del genocidio armeno, Guerini e Associati, 2003. Anche molti storici turchi concordano con la tesi del genocidio, fino a poco tempo fa ancora punita per legge in Turchia. Ebbene, c’è anche un testo di un certo Guenter Lewy (Il massacro degli armeni. Un genocidio controverso) che con mille artifici sofistici estratti dalla storiografia turca (lingua che peraltro Lewy non conosce, come non conosce l’armeno – immaginiamoci uno storico americanista che non legge l’inglese!) nega in tutti i modi che ci sia stato un genocidio armeno, e parla solo di massacro o di serie di massacri. Che cosa succederebbe se uno storico europeo negasse il genocidio ebraico, e concedesse soltanto che ci sono stati una serie di massacri? Si griderebbe all’antisemitismo e si farebbe anche appello a leggi contro il negazionismo. Invece questo signore può scrivere quello che vuole ed essere pubblicato da Einaudi, semplicemente perché gli armeni non sono protetti dalla diffamazione.

          Si può andare avanti così? A mio avviso no. Vittime possono diventare a lungo termine gli ebrei stessi. La palese adozione di due pesi e due misure non può che ingenerare fastidio, irritazione, ed infine rivolta contro il Politicamente Corretto. Oggi il Politicamente Corretto dispone di un vantaggio basato sul silenziamento conformistico e totalitario di tutte le voci dissenzienti, ma questo non potrà durare per sempre. Ma arriviamo al cuore del problema.

          6. Ho ricordato poco sopra che secondo ebrei onesti ed illuminati come Amira Hass o l’americano Norman Finkelstein, il genocidio ebraico è ideologicamente utilizzato per legittimare non solo il sionismo in sé (fu anche una tesi di Roger Garaudy, ingiustamente accusato di antisemitismo), ma anche la continua violazione del diritto internazionale (insediamenti in Cisgiordania, eccetera). Questo mi sembra ovvio, e può essere negato soltanto dal cinismo, dalla malafede e dalla disinformazione. E tuttavia, non sta ancora qui il cuore della tesi religiosa della Unicità Imparagonabile.

          Ci può aiutare il corsivista del Corriere della Sera Pierluigi Battista. Non dimentichiamoci che il Corriere della Sera, in piena continuità tra Ferruccio De Bortoli e Paolo Mieli, è stato all’origine della santificazione dell’anti-islamismo di Oriana Fallaci, fenomeno simile (anche se ovviamente non eguale, idion) alle campagne anti-ebraiche di Giovanni Preziosi degli anni Trenta in cui si scrisse che, anche ammesso che i Protocolli dei Savi di Sion fossero un falso commissionato dalla polizia zarista, questo non conta nulla, perché il contenuto resta vero!

          Scrive Battista, nel contesto della sua approvazione dello sdegno di Nora e Lanzmann: “Il rimpicciolimento simbolico di Auschwitz è l’esito doloroso e paradossale di un’Europa che dimentica facilmente l’orrore da cui è venuta”. Riflettiamo su questa frase assiro-babilonese, basata sulla concezione assiro-babilonese (e nazista) di responsabilità collettiva, lontanissima dalla concezione greca di responsabilità individuale (ogni persona ha infatti un’anima propria, psychè).

          Di quale Europa va cianciando Battista? Personalmente ho 68 anni, essendo nato nel 1943, e non mi considero assolutamente responsabile per l’orrore hitleriano e per altri orrori consimili. Io non vengo da nessun “orrore”, per usare il linguaggio ieratico di Battista. Ognuno è responsabile solo per le proprie azioni. Gli ultimi nazisti vivi sono novantenni. Solo chi è condannato all’ergastolo ha scritto: “Fine Pena, Mai”. Quando finirà l’espiazione per l’Europa? Settant’anni non sono sufficienti? I mongoli a Baghdad ottocento anni fa hanno passato a fil di spada mezzo milione di persone. Forse che sbarcando a Ulan Bator devo ricordarlo al doganiere facendogli abbassare il capo?

          Lo scopo di Battista è quello di inchiodare per sempre l’Europa al suo presunto “peccato originale”, in modo che venga punita in saecula saeculorum con le basi nucleari americane e con la perdita di ogni indipendenza politica e culturale. Fatto che con la memoria storica propriamente detta non ha nessun rapporto.

          Torino, 2 settembre 2011

           

          * Costanzo Preve è un filosofo e saggista italiano, frequente contributore alla rivista “Eurasia”

           

           

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