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Channel: Youtube iraniano – Pagina 168 – eurasia-rivista.org

L’origine delle minacce alla Siria, ultimo baluardo del nazionalismo arabo

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Il progressivo acuirsi della tensione all’interno del mondo arabo ha inoppugnabilmente conferito alla religione – in specie dall’11 settembre 2001 in poi – un ruolo cruciale nello scatenamento dei conflitti ed esaltato una presunta incompatibilità fra civiltà islamica e civiltà occidentale sostenuta in tempi non sospetti dal celebre politologo Samuel Huntington.

Ciò che Huntington e i numerosi propugnatori dell’imminente scontro di civiltà si sono guardati dal considerare, tuttavia, è un altro fattore.

Il fatto, cioè, che il fenomeno  più assiduamente preso di mira dalle potenze anglosassoni interessate ad imporre la propria egemonia sul Vicino e Medio Oriente sia espressione della più evidente vocazione europea.

Si tratta del nazionalismo arabo propugnato da uomini politici di notevole spessore animati dalla volontà di riscattare i propri paesi vessati e umiliati da decenni di imperialismo europeo e statunitense.

Non è frutto del caso il fatto che ogni forma e versione della spinta nazionalista – da Mossadeq a Nasser, da Saddam Hussein alla stirpe degli Assad – sia stata duramente colpita fino a scomparire dall’orizzonte politico mediorientale.

Con un’eccezione, che corrisponde alla Siria baathista.

Il Baath è un partito che affonda le radici in Europa dove Michel Aflaq, il suo ideologo principale, si era recato per approfondire la propria conoscenza del Vecchio Continente e studiare filosofia.

Si iscrisse alla Sorbona, dove ebbe modo di leggere le opere di Marx, Lenin, Nietzsche e Mazzini e di assistere all’ascesa al potere di Hitler.

Tornò in patria dopo aver maturato una complessa concezione ideologica frutto dell’assimilazione di svariate componenti del leninismo e del fascismo.

Aflaq concentrò tutti i propri sforzi nella fondazione del partito Baath, incardinato sulle intuizioni della precedente fase europea.

Finì in galera diverse volte a cavallo tra la fine degli anni ’40 e l’inzio degli anni ’50 ma riuscì infine nell’impresa di fondere il Baath con il partito socialista siriano, dando vita a una nuova formazione politica di cui si accingeva ad assumere il ruolo di segretario generale.

Il programma della nuova organizzazione prevedeva la rinascita del mondo arabo, la formazione di un’unica nazione araba basata sui modelli europei di cui i singoli paesi sarebbero divenuti province, la scolarizzazione delle masse imperniata sui principi di solidarietà e progressismo.

La struttura portante della nazione unitaria di cui Michel Aflaq e il suo compagno Akram Hurani intendevano promuovere la costruzione sarebbe dovuta scaturire dalla sintesi di elementi storici, culturali e geopolitici fusi in totale, armonica compenetrazione.

Da greco – ortodosso quale era, Aflaq sapeva che la realizzazione di un progetto tanto ambizioso non avrebbe mai potuto contemplare qualsiasi discriminazione di natura confessionale e infatti si premurò di esaltare il carattere laico dello Stato da costruire escludendo qualsiasi riferimento alla religione.

L’idea di dar vita a una nuova nazione araba che avrebbe dovuto ospitare drusi, copti, sciiti, sunniti, cattolici ecc. si amalgamò ben presto con la versione di socialismo panarabo di cui la parentesi nasseriana fu la massima espressione.

Tuttavia, fu proprio l’ascesa di Nasser a scompaginare l’unità del nuovo movimento politico e frammentò il Baath in  una costellazione di correnti e fazioni.

I panarabisti intendevano avvicinarsi all’Egitto, i nazionalisti preferivano profondere tutti gli sforzi necessari alla costruzione di una Siria potente e solida, l’ala radicale guardava con favore al modello sovietico ed auspicava che fosse lo Stato a dettare le regole dell’economia mentre quella più moderata propugnava una visione mista in cui la tradizionale cultura del bazar entrasse in simbiosi con i grandi progetti industriali di cui il paese aveva bisogno.

Malgrado permanesse un solido fondamento politico condiviso da tutte le correnti come la ferma opposizione all’imperialismo e al colonialismo, cementata negli anni dalla tragica pulizia etnica della Palestina, una frangia del Baath intendeva accordarsi con l’Unione Sovietica mentre altre diffidavano del comunismo e del governo di Mosca.

L’audace politica propugnata da Nasser – fondata su un capitalismo di stato ostile al modello liberista e allo stesso tempo tiepidamente favorevole all’alleanza con i paesi del blocco comunista (considerato come l’unico, indispensabile contraltare all’insanabile ostilità delle potenze occidentali) – esercitò una forte influenza nella determinazione delle dinamiche politiche del Vicino e Medio Oriente.

I modelli autoritari europei guardati con favore da Aflaq e il nasserismo costituirono il perno attorno al quale si sviluppò l’intero nazionalismo arabo;dalla formazione dei sistemi a partito unico alla radicalizzazione del culto della personalità dei leader politici, fino all’industrializzazione organizzata e diretta dallo Stato.

Nel loro tentativo di conseguire una modernizzazione dei propri paesi assestandosi su una posizione di relativa terzietà rispetto all’antagonismo bipolare capitalismo/comunismo, molti esponenti del nazionalismo arabo sono stati colpiti duramente in virtù della loro debolezza.

La Siria è attualmente l’unica superstite in virtù della propria posizione geopolitica fondamentale e delle scelte strategiche compiute a suo tempo da Hafez Assad – salito al potere nel 1970 dopo una lunghissima serie di faide interne al Baath – che si era allineato alla direttrice sovietica per garantirsi il proprio ombrello protettivo.

Una volta crollata l’Unione Sovietica il regime guidato da Bashar Assad – figlio di Hafez – è stato inserito nel novero degli “stati canaglia” e minacciato direttamente, da Stati Uniti e Israele in primo luogo.

Da allora la posizione della Siria è andata progressivamente peggiorando.

Il Quadrennial Defense Review Report redatto nel settembre 2001 riportava che: “Le forze armate statunitensi devono mantenere la capacità, sotto la direzione del Presidente, di imporre la volontà degli Stati Uniti a qualsiasi avversario, inclusi Stati ed entità non statali, cambiare il regime di uno stato avversario od occupare un territorio straniero finché gli obiettivi strategici statunitensi non siano realizzati”.

Si trattava di porre le basi del progetto relativo al “Grande Medio Oriente” che il Presidente George W. Bush presentò pubblicamente in occasione del vertice del G8 del giugno 2004.

Tale progetto prevedeva un ridisegnamento degli assetti geopolitici dell’area territoriale che si estende dal Marocco al Pakistan in modo da renderli funzionali agli interessi statunitensi.

Dopo l’occupazione dell’Afghanistan venne immediatamente rinsaldata l’asse Washington – Tel Aviv, al fine di placare le ambizioni indipendentiste palestinesi e favorire l’affermazione di Israele al rango di potenza egemone dell’intera regione.

Successivamente, l’Iraq venne aggredito unilateralmente, il Baath iracheno scardinato, Saddam Hussein condannato a morte e sostituito da un regime confacente agli interessi statunitensi.

Nel 2005, l’assassinio dell’ex Primo Ministro libanese Rafik Hariri istantaneamente attribuito al regime di Damasco innescò la miccia della rivolta antisiriana meglio nota come Rivoluzione dei Cedri, alimentata e sostenuta attivamente dal Comitato statunitense per un Libano libero creato da Ziad Abdelnour, banchiere espatriato che godeva del pieno supporto israeliano.

Nel marzo dello stesso anno il tono delle minacce rivolte verso Damasco assunse contorni inquietanti.

“Gli Stati Uniti ordinano ai siriani di andarsene dal Libano”, tuonò il Dipartimento di Stato, che si guardò bene dall’ingiungere ad Israele di fare lo stesso in relazione alle Alture del Golan sottratte alla Siria fin dal 1967.

Il vessillo del “Grande Medio Oriente” agitato da George W. Bush è stato evidentemente ripreso da Barack Obama, che unitamente al Presidente francese Nicolas Sarkozy ha più volte minacciato la Siria, intimando al regime di Bashar Assad di farsi da parte e lasciare che la “democrazia” faccia il suo corso, esattamente come in Libia.

Il regime di Gheddafi rappresentava un’ulteriore espressione del nazionalismo laico arabo, anch’esso preso di mira dagli Stati Uniti e dalle potenze europee loro sottoposte.

Il fatto stesso che siano stati i regimi laici del Vicino e Medio Oriente ad esser presi di mira con inaudito vigore dalle potenze anglosassoni e dai loro alleati dimostra quindi l’inconsistenza della concezione di Huntington incardinata sulla presunta insanabile conflittualità tra Occidente e civiltà islamica.

Ma comprova, soprattutto, il fatto che le potenze interessate ad estendere la propria egemonia sul mondo arabo hanno considerato come un enorme pericolo quelle forze modernizzatrici potenzialmente suscettibili di favorire il processo di emancipazione dei popoli del Vicino e Medio Oriente.

Giacomo Gabellini è collaboratore di Conflitti & Strategie

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Quel “buco” che inghiotte popoli e stati

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Fonte: “Il Secolo d’Italia

 

Ancora tu? Ma non dovevamo non vederci più? Devono aver pensato questo, gli italiani, di fronte al riemergere del problema dei problemi: il debito pubblico. Una cosetta, per capirci, da 1890,6 miliardi di euro. Che certo non nasce ieri. E mentre il governo cerca di districarsi fra i veti (interni ed esterni all’esecutivo) proprio per arginare la voragine, noi cerchiamo di guardare un po’ più a fondo dentro questo buco nero che ormai da anni sembra perseguitare governi e, soprattutto, cittadini.

Che cosa è?
La definizione ufficiale del debito pubblico data dal Consiglio europeo è la seguente: «Per debito pubblico si intende il valore nominale totale di tutte le passività del settore amministrazioni pubbliche in essere alla fine dell’anno, ad eccezione di quelle passività cui corrispondono attività finanziarie detenute dal settore amministrazioni pubbliche». Più genericamente, l’Enciclopedia Treccani spiega trattarsi dell’«importo complessivo dei prestiti che lo Stato, le aziende statali autonome, le regioni, le province, i comuni, le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, le imprese e gli enti speciali appartenenti allo Stato contraggono periodicamente a fronte del deficit di bilancio […]. La copertura del d.p. viene di solito realizzata con l’emissione di titoli di Stato (Bot, Cct ecc.) o con l’aumento delle imposte correnti». Per farla breve e parlare (è proprio il caso di dirlo) “in soldoni”: si ha debito pubblico quando le spese dello Stato sono maggiori delle sue entrate. Elementare. O forse no.

Quando si è formato…
Facciamo un po’ di storia. In Italia il rapporto  percentuale tra il debito e il Prodotto interno lordo era di circa il 30% negli anni ’50 e ’60. Negli anni ’70 veleggiava tra il 44 e il 55%, con punte del 65. In quell’epoca, il resto dell’Europa stava più o meno come noi. Il problema è che i nostri cugini d’oltralpe rimarranno su quei valori per tutto il ventennio successivo. Da noi, invece, accadrà qualcosa. Di strano e di pericoloso. Gli anni ’80, infatti, vedono il nostro deficit ampliarsi a dismisura: a metà del decennio (in piena era Craxi), il rapporto debito/Pil supera l’80%, nel 1990 siamo già al 94,7%. Ma la corsa non si ferma, toccando l’apice nel 1994, con un preoccupante 121,8%. Da lì in poi saranno alti e bassi, sempre su valori folli, sia pur con lievi diminuzioni tra il ’95 e il 2005 (sia con i governi di sinistra che con quelli di destra) per poi tornare a risalire.

…e come
Stabilire le responsabilità della creazione di questo abisso senza fondo sarebbe ovviamente difficile. Quando si parla di grandi meccanismi e lunghi periodi, del resto, è probabile che il colpevole non sia una persona ma, piuttosto, un sistema, una tendenza, una mentalità. Sicuramente determinati da una serie di concause. Gli analisti, comunque, si dividono. C’è chi attribuisce le responsabilità all’espansione del welfare successiva ai grandi mutamenti sociali degli anni ’70. Chi alla classe dirigente socialista dell’epoca craxiana, cui viene rimproverata una cera mancanza di oculatezza finanziaria. Qualcun altro va più indietro, precisamente al ferragosto del ’71, quando gli americani (Nixon, per la precisione) posero fine al regime dei cambi fìssi instaurato dagli accordi di Bretton Woods. Il precedente sistema basato sulla convertibilità aurea del dollaro, infatti, aveva retto fino all’invasione dei mercati internazionali da parte dei petrodollari. La svolta di Nixon decretò la nascita della finanziarizzazione senza controlli, con denaro nato letteralmente dal nulla e senza corrispettivi reali.

Per colpa di chi?
D’accordo: macrosistemi, tendenze di lungo periodo, grandi mutamenti finanziari. Ma c’è qualche nome e cognome da fare per individuare i veri responsabili dell’aumento incontrollato del debito? Un nome è stato fatto ed è indubbiamente il più comodo da pronunciare per tanti: quello di Bettino Craxi. Eppure, per quanto il leader socialista possa avere le sue colpe, dovremmo forse guardarci attorno, fra i politici ancora in circolazione. Magari tra coloro che certi “ambienti finanziari” vorrebbero alla guida di improvvisati governi “tecnici” in possesso di tutte le ricette giuste (giuste per chi?). Già a inizio anno, precisamente il 4 gennaio, Franco Bechis faceva su Libero i nomi e i cognomi di coloro che, numeri alla mano, hanno maggiormente contribuito ad allargare il buco. Il primo classificato risultava essere Carlo Azeglio Ciampi. Durante il suo governo tecnico (1993/94) il debito aumentò di 117 miliardi e 568 milioni di euro (174 miliardi di euro a valore attuale). C’è chi fece peggio, in realtà: Amintore Fanfani, nel 1987, fece aumentare il debito pubblico di 13,692 miliardi di euro mensili (a valore attuale). Giuliano Amato, invece, nel 1992/93 allargò il buco di 13 miliardi e 543 milioni di euro ogni mese, sempre a valore attuale. E tuttavia, proseguiva Bechis, «visto che sia Fanfani che Amato nella storia repubblicana hanno guidato anche altri governi con migliori performance, fatta la media fra i vari esecutivi il primato in classifica come migliore scaricatore assoluto di debito pubblico sulle spalle degli italiani spetta proprio a Ciampi. Fanfani conquista comunque la medaglia d’argento con 11,448 miliardi di debito in più al mese durante tutti i suoi governi. E quella di bronzo spetta a Craxi, che con 10,8 miliardi di debito mensile regalato agli italiani supera di una spanna Spadolini e Forlani».

Monsieur le créditeur
C’è poi un altro aspetto interessante (e un po’ inquietante) nella vicenda del debito pubblico. Ricordate quando, a luglio, il governo di Pechino si rivolse a un Obama nei guai con il debito Usa con lo stesso tono in genere usato da Washington con gli stati vassalli? «Speriamo che il governo degli Stati Uniti adotti politiche e misure responsabili che garantiscano gli interessi degli investitori», dicevano i cinesi. E avevano le loro ragioni, dato che quei fantomatici investitori sono soprattutto loro. I cinesi, infatti, posseggono quasi il 10% dell’intero debito Usa. Ecco, in Italia succede una cosa simile, solo con la Francia. Il New York Times, nel maggio del 2010, spiegava che Parigi detiene 511 miliardi del nostro debito, pari al 30% del debito stesso e al 20% del Pil transalpino. Hai capito i francesi. Gli stessi che hanno messo le mani sulla Libia che un tempo era il nostro “cortile di casa”. Gli stessi che danno le scalate ai nostri colossi industriali. Stai a vedere che, come al solito, a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca…

Pagare o non pagare?
In tutto questo, come avrebbe detto Lenin: che fare? Nel breve periodo e nella contingenza drammatica che stiamo vivendo, ovviamente, si mira a tamponare, a tagliare, a risparmiare, a recuperare. Qualche analista, e in modo trasversale alle categorie di destra e sinistra, comincia tuttavia a mettere in discussione l’intera impalcatura che regge quella che è denominata “la truffa del debito”. Il giovane esperto di geopolitica Daniele Scalea, ad esempio, dichiara di non «negare l’opportunità di ridurre la spesa pubblica» ma contesta «che, lungi dal puntare agli sprechi, si opti per tagli salomonici, e che le ristrettezze di bilancio siano dettate e commisurate agl’interessi da pagare ai rentier. Il rischio è che, se tra qualche decennio l’Italia avrà interamente pagato il suo debito, l’avrà però fatto a costo dell’immobilismo e della stagnazione, ritrovandosi così retrocessa nel “secondo mondo”, o addirittura più indietro». Un ragionamento analogo lo ha espresso Salvatore Cannavò, per il quale «si può certo puntare il dito contro il debito pubblico italiano, il terzo debito del mondo, ma senza dimenticare due dati. Quel debito c’era anche un mese fa, un anno fa, tre anni fa e non ha prodotto nessun attacco speculativo, nessuna crisi emergenziale. Secondo, quel debito è la misura non solo della dissennatezza della politica italiana degli ultimi trent’anni ma anche di una gigantesca redistribuzione del reddito dai salari, stipendi e pensioni ai profitti delle grandi banche e della società finanziarie internazionali che detengono gran parte del debito italiano». E allora sorge una tentazione: non pagare. O pagare solo in parte. Rinegoziare il debito. Come fece l’Ecuador nel 2007 o l’Argentina nel 2005. Pazzie? Teorie visionarie? Be’, se i lucidi, razionali e ortodossi analisti economici ci hanno portato sin qui, forse vale la pena di tentare la carta della follia…

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«Con la crisi in Siria è iniziata la terza guerra mondiale»: V. Rashkin (PCFR)

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«Con la crisi in Siria è iniziata la terza guerra mondiale» così afferma Valerij Rashkin, membro del Presidium del Comitato Centrale del Partito Comunista della Federazione Russa, deputato della Duma di Stato della Federazione Russa. Antonio Grego, corrispondente di Eurasia a Mosca, durante un sit-in di sostegno a Gheddafi e al popolo libico organizzato dal Partito Comunista della Federazione Russa di fronte agli uffici dell’ONU a Mosca ha incontrato il deputato della Duma e segretario del Comitato Centrale del PCFR e gli ha chiesto un parere circa la situazione in Siria e la sua possibile evoluzione in “intervento umanitario” a firma ONU/NATO come nel caso della Libia.

Ecco la risposta di Rashkin: «Dal mio punto di vista adesso è in corso la stessa procedura che fu adottata contro l’Iraq, la stessa che fu adottata in Yugoslavia, così come anche in Libia. La stessa identica procedura già usata contro gli altri Paesi aggrediti e distrutti è adesso in corso contro la Siria. Il complotto mondiale messo in atto dagli USA e dalla NATO non vede per adesso una potente reazione in grado di contrastarlo. Hanno elaborato e fanno approvare con il sorriso questo loro inganno, sconvolgendo Paese dopo Paese. In questo modo intendono soggiogare il mondo. Se ai tempi di Hitler era in corso una guerra dichiarata, ovvero la seconda guerra mondiale, adesso invece è in corso la stessa guerra, soltanto non dichiarata. La terza guerra mondiale è già iniziata».

 

Commento raccolto e tradotto da Antonio Grego

 

Biografia di V. Rashkin in russo: http://kprf.ru/personal/rashkin/

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L’anacronismo di Israele

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Mentre i paesi europei si accingevano a chiudere la lunga parentesi coloniale ritirando progressivamente i propri vessilli dai paesi dell’Africa e dell’Asia, un gruppo di ebrei d’Europa si apprestava a dar vita a un impero coloniale nel cuore del mondo arabo, a ridosso delle città sante dell’Islam.

Nel momento in cui i coloni originari del Vecchio Continente si vedevano costretti, volenti o nolenti che fossero, ad abbandonare il mondo arabo, una cospicua schiera di essi occupava progressivamente la Palestina, spingendo coercitivamente quasi 1 milione di indigeni a lasciare le proprie abitazioni al fine di favorire, in fortissima opposizione rispetto alle tendenze dell’epoca, la formazione di uno Stato etnicamente e confessionalmente monolitico.

Mentre il multiculturalismo stava soppiantando, in Europa ed America, la concezione etnica dello Stato, quel nucleo di europei erigeva una nazione etnico – religiosa di cui era possibile divenire cittadini a pieno titolo solo dimostrando la “purezza” originaria della propria stirpe.

Le straordinarie ragioni politiche che produssero questa inedita anomalia storica furono principalmente il declino dell’Impero Britannico, il peso esercitato dalla potente lobby ebraica sulle scelte politiche degli Stati Uniti e la strategia geopolitica dell’Unione Sovietica.

Le Gran Bretagna profuse enormi sforzi nel tentativo di assolvere degnamente ai compiti del mandato e placare la conflittualità tra arabi ed ebrei, nutrita minoranza soggetta però a un forte incremento demografico.

In quello specifico contesto maturarono le condizioni che portarono alla nascita di vari gruppi paramilitari sionisti che innescarono una campagna terroristica finalizzata ad accelerare la fine del protettorato britannico.

Haganah, Palmach, Irgun e banda Stern scatenarono un’efferata offensiva che destrutturò le forze britanniche e annichilì la popolazione palestinese.

Particolare sgomento, tra i tanti attentati commessi, fu suscitato dall’attentato all’hotel King David del 22 luglio 1946 eseguito dall’Irgun (comandato dal futuro Primo Ministro israeliano e Premio Nobel per la Pace Menachem Begin), che provocò la morte di circa un centinaio di persone e spinse la società civile in patria ad esercitare forti pressioni sul governo affinché ritirasse definitivamente la presenza britannica – che ammontava a circa un decimo delle forze armate stanziate all’estero – dalla Palestina.

Dissanguata dagli sforzi bellici profusi durante la Seconda Guerra Mondiale, mal sostentata da un’economia anemica ed incapace di spezzare l’inerzia negativa legata al proprio declinante status imperiale, la Gran Bretagna si rivolse alle Nazioni Unite perché si esprimessero in merito alla questione ebraica.

Nel novembre del 1947 venne approvata la risoluzione 181, che prevedeva la creazione di due Stati e l’applicazione di un regime internazionale su Gerusalemme.

Tale risoluzione intendeva dar vita a uno stato ebraico composto da un nucleo di circa 500.000 ebrei e 325.000 arabi, e a uno arabo formato da circa 800.000 arabi e 10.000 ebrei.

Gerusalemme avrebbe contenuto circa 100.000 ebrei e 100.000 arabi.

Gran Bretagna e i paesi arabi mal digerirono tale verdetto, mentre sia Josif Stalin che Harry Truman videro soddisfatti i propri progetti per quella regione.

Stalin, persuaso di aver colto negli ebrei una sorta di inclinazione culturale favorevole al socialismo, ritenne che appoggiando il progetto finalizzato alla creazione di un’entità sionista nel cuore del Levante avrebbe assestato un duro colpo ai residui imperialistici inglesi.

Truman intendeva invece assicurarsi il sostegno della vasta comunità ebraica degli Stati Uniti in vista delle imminenti elezioni.

Significativo a tal riguardo è il fatto che nel maggio del 1942 all’hotel Biltmore di New York si era tenuto un cruciale convegno che culminò con l’approvazione da parte di circa 600 influenti ebrei americani del “Zionist Biltmore Program” proposto da Chaim Weizmann e David Ben Gurion.

Il programma in questione traeva ispirazione dal progetto imperiale escogitato all’inizio del’900 da Theodor Herzl finalizzato all’instaurazione di uno Stato ebraico in Palestina e fu adottato dal Consiglio generale dell’organizzazione sionista di Gerusalemme.

All’epoca il movimento sionista degli Stati Uniti era guidato dal rabbino Stephen Wise, il quale seppe raggruppare l’intera comunità ebraica del paese – la più grande del mondo per numero e peso economico – sotto la propria egida al fine di esercitare pressioni politiche sul Congresso e sull’esecutivo statunitense.

Il 30% circa dei senatori, 143 deputati e più di mille eminenti personalità della politica, dell’economia e della cultura degli Stati Uniti accettarono congiuntamente di sottoscrivere un documento a supporto della formazione di un esercito regolare ebraico, mentre mozioni di sostegno al disegno sionista furono sottoposte al voto in ben 33 Stati.

Non stupisce quindi l’accondiscendenza di Truman – e più in generale degli Stati Uniti, pur tra notevoli alti e bassi, fino al giorno d’oggi (e non solo per quanto riguarda i famosi 3 miliardi di dollari che Washington versa annualmente nelle casse israeliane) – nei riguardi del sionismo e della creazione dello Stato di Israele.

Nell’arco di pochi giorni dalla nascita del nuovo Stato la tensione si acuì costantemente finché la Palestina non si trasformò nel principale campo di battaglia del Vicino Oriente.

Sugli eventi che si verificarono negli anni seguenti è stata scritta una vasta bibliografia quasi interamente incardinata sulle tesi che il “popolo senza terra” degli ebrei europei sopravvissuto al genocidio nazista avrebbe individuato nella Palestina quella “terra senza popolo” adatta ad ospitare il nuovo Stato ebraico e che le poche comunità autoctone stanziate nella regione avrebbero abbandonato le proprie case assecondando le esortazioni delle autorità arabe.

Nell’ultimo ventennio è nata però una corrente storiografica revisionista formata da un gruppo di accademici israeliani che hanno usufruito dell’ampia documentazione dell’epoca gradualmente desecretata per smentire questo infondato assunto di base.

Storici come Ilan Pappé, Zeev Sternhell, Tom Segev salirono agli onori della cronaca per aver sostenuto la tesi che nell’arco del triennio 1947 – 1950 sia avvenuta in Palestina una massiccia pulizia etnica delle popolazioni indigene realizzata dalle forze israeliane.

Un’operazione perfettamente organizzata che violò la risoluzione ONU 181 consacrando il carattere ebraico a cemento della neonata nazione di Israele.

L’episodio fondamentale che segnò la nascita della tattica del terrore ebbe luogo il 9 aprile del 1948.

Allora l’Haganah conquistò il villaggio palestinese di Deir Yassin per poi ritirarsi e lasciare che l’Irgun massacrasse tutti i 254 palestinesi che vi abitavano senza badare a sottigliezze come il sesso o l’età anagrafica delle vittime.

Il massacro non solo fu giustificato, ma non ci sarebbe stato Israele senza la vittoria di Deir Yassin”, affermò Menachem Begin.

Le modalità con cui avvenne la “vittoria” di Deir Yassin furono poi diffuse per radio affinché i palestinesi comprendessero quale destino si celava dietro l’eventuale, malaugurata scelta di resistere alla prorompente avanzata sionista.

Dopo Deir Yassin massacri e stermini svolsero un ruolo cruciale nella diffusione del terrore in seno alla popolazione autoctona e all’induzione della stessa all’esodo.

Nell’arco di pochi anni 474 villaggi arabi furono occupati dalle forze sioniste e 385 di essi furono rasi al suolo e cancellati dalle cartine geografiche.

Stando alle statistiche britanniche, al 31 dicembre del 1947 vivevano in Palestina 589.341 ebrei a fronte di una popolazione totale di 1.908.775 persone.

Un censimento realizzato nel novembre del 1948 rivelò che la popolazione araba di Israele ammontava a non più di 130.000 persone.

Gli analisti sono concordi nello stimare in un minimo di 890.000 e un massimo di 904.000 il totale delle persone vittime della pulizia etnica realizzata dalle forze sioniste.

All’inizio degli anni ’50 la popolazione contenuta all’interno dei confini armistiziali era composta da 1.509.000 ebrei, 118.500 arabi, 39.000 cristiani e 15.000 drusi.

L’enorme squilibrio demografico favorito dalle scelte del Primo Ministro David Ben Gurion e dai suoi successori consolidò politicamente, economicamente, socialmente e militarmente il paese.

In sostanza, lo Stato di Israele si affermò sul piano internazionale cacciando gli indigeni dalle loro terre e rifacendosi a motivazioni di carattere biblico – religioso per adottare nei confronti degli arabi una prassi analoga a quella impiegata in altre epoche dai puritani anglosassoni nei confronti dei Pellerossa, dai cecoslovacchi e dai polacchi nei confronti dei tedeschi dei Sudeti e della Polonia occidentale, degli jugoslavi verso gli italiani d’Istria e di Dalmazia e dei croati a danno dei serbi della Kraijna.

A differenza degli altri casi, tuttavia, era la filosofia che aveva animato pochi anni prima la pulizia etnica eseguita dai nazisti nei primi territori occupati a presentare analogie con quella perpetrata dai sionisti contro le popolazioni indigene, i cui tratti comuni furono delineati efficacemente dal Ministro degli Esteri del primo governo israeliano guidato dal padre della patria David Ben Gurion.

Si tratta di Moshe Sharett, il quale affermò che:

I rifugiati troveranno il loro posto nella diaspora. Grazie alla selezione naturale, certi resisteranno, altri no. La maggioranza diventerà un rifiuto del genere umano e si fonderà con gli strati più poveri del mondo arabo”.

I palestinesi espulsi furono costretti a rifugiarsi lungo la striscia di Gaza, in Giordania, Siria e Libano, dove vennero confinati in numerosi campi profughi appositamente creati affinché non alterassero i fragili equilibri demografici e politici della regione.

Il nazionalismo palestinese incarnato dalla figura di Yasser Arafat trasse linfa vitale proprio dalla rabbia per i torti subiti – oltre che dall’orgoglio connaturato alla religione islamica – e dalle precarie condizioni in cui versava la popolazione dislocata nei campi profughi.

La volontà di riscatto palestinese favorì poi la formazione delle classi dirigenti imbevute di religione musulmana come la Jihad islamica e soprattutto Hamas, movimento politico di grande diffusione popolare dotato di una struttura portante simile a quella di Hezbollah e capace di adempiere ai compiti militari, economici e assistenziali.

Fu nella miseria e nel disagio che maturarono le condizioni per la reazione palestinese, che si dispiegò mediante numerosi sommovimenti popolari che innescarono una colossale concatenazione di eventi.

Settembre Nero, invasione israeliana del Libano, attentato a Bashir Gemayel, efferata ritorsione di Sabra e Chatila, Prima Intifada, seconda guerra del Libano, provocazione di Ariel Sharon lungo la Spianata delle Moschee, Seconda Intifada, omicidio di Rafik Hariri, Rivoluzione dei Cedri, ascesa di Hezbollah, terza guerra del Libano, Piombo Fuso, allontanamento della Turchia; tutti eventi connessi direttamente o indirettamente alle tensioni israelo – palestinesi.

L’altra ripercussione sortita dalla nascita e (soprattutto) dalle modalità in cui si affermò Israele fu l’endemico sentimento di frustrazione e subalternità che opprime ancora oggi le popolazioni arabe dovuto all’atteggiamento tenuto dagli israeliani nei loro riguardi.

Dalla pulizia etnica della Palestina, alla relegazione degli arabi a cittadini di secondo livello si è giunti all’innalzamento di una “barriera di separazione”, un muro suscettibile di produrre l’annessione israeliana di Gerusalemme Est oltre a parte dei territori occupati della Cisgiordania e di garantire una segregazione forzata sospingendo verso est le popolazioni arabe stanziate nell’area.

La costruzione della barriera in questione iniziata nel 2003 avvenne a più di un decennio dal significativo abbattimento del Muro di Berlino e dalla liberazione di Nelson Mandela che preluse alla fine dell’Apartheid, il regime di segregazione razziale che gli afrikaner sudafricani avevano applicato per mantenere una separazione forzata dai cittadini autoctoni di pelle nera.

Si tratta di un anacronismo che alla prova dei fatti tende a minare le ambizioni palestinesi relative al riconoscimento di uno Stato nazionale.

Abu Mazen ha annunciato pubblicamente che a settembre si rivolgerà alle Nazioni Unite per chiedere il riconoscimento di uno Stato palestinese imperniato sulla centralità indiscutibile di Gerusalemme, città che non a caso Israele sta accingendosi ad accorpare per mezzo del muro.

Molti paesi – specialmente dell’America Indiolatina – hanno già riconosciuto lo Stato palestinese ed altri – come la Norvegia – attenderanno il voto di settembre per fare altrettanto.

Israele, per bocca del Primo Ministro Benjamin Netanyahu e del Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, ha pubblicamente invitato i paesi europei a guardarsi dall’accogliere le richieste avanzate unilateralmente da Abu Mazen, laddove riconoscere uno Stato per i palestinesi è una necessità che solo un numero assai contenuto di paesi e uomini politici ha osato mettere in discussione.

I governanti di Tel Aviv, tuttavia, perseverano nel far ricorso ai medesimi, logori e stereotipati clichés impiegati negli anni passati per edulcorare l’immagine di Israele.

L’opinione pubblica internazionale, infatti, non accetta più che vengano rievocati gli orrori del nazismo per giustificare i coprifuoco, i check – point, le esecuzioni selettive, le umiliazioni pubbliche di cui le autorità israeliane si sono ripetutamente rese responsabili.

Esiste, beninteso, una sparuta minoranza che si ostina a considerare gli israeliani delle vittime, laddove sono però incontestabilmente i palestinesi – vessati, umiliati e privi di uno Stato – ad aver sostituito gli ebrei nell’immaginario collettivo.

Le contraddizioni – scrive lo storico Tony Judt – insite nel modo in cui Israele si presenta – “siamo molto forti/siamo molto vulnerabili”; “decidiamo del nostro destino/siamo noi le vittime”; “siamo uno Stato normale/pretendiamo un trattamento speciale” – non sono nuove: fanno parte dell’identità distintiva del paese quasi dall’inizio. E l’insistente enfasi sull’isolamento e sulla unicità che lo caratterizzano, oltre alla pretesa di essere allo stesso tempo eroe e vittima, un tempo formavano parte del vecchio fascino alla Davide contro Golia”.

L’assiduità ossessiva con cui viene impiegato l’antisemitismo per trasferire il terreno della discussione dal politico all’irrazionale e per trasformare gli imputati in giudici è indice del fatto che rimangono ben pochi argomenti per giustificare le mosse di Tel Aviv.

Si tratta dell’ultimo, logoro asso nella manica che i sostenitori acritici di Israele utilizzano per fregiare di nobili crismi legittimatori i colpi di coda di una nazione che non comprende di aver perso da tempo ogni diritto alla solidarietà internazionale, che si ostina ad ignorare il fatto che gli Stati Uniti non si mostreranno sempre accondiscendenti (Zbigniew Brzezinski non lo è stato mentre John Mearsheimer e Stephen Walt hanno documentato ampiamente i danni provocati agli interessi statunitensi dall’appoggio a Israele, subendo pesanti attacchi dalla lobby ebraica e delle sue influenti ramificazioni) che muri e fortezze non preserveranno il paese più di quanto abbiano fatto con la Repubblica Democratica Tedesca e il Sud Africa, con Troia e Sebastopoli, con Atene e Yorktown.

Attualmente l’immane tragedia costituita dalla nascita di Israele e dalle modalità che segnarono la sua graduale affermazione internazionale sono tappe storiche di quella viene eufemisticamente definita come “questione palestinese”.

A differenza di ciò che accade oggi in Israele e ovunque si trovino gli entusiasti difensori del sionismo, l’ipocrisia che sta alla base di tale espressione non avrebbe presumibilmente trovato l’approvazione di David Ben Gurion stesso, principale artefice e ideatore della pulizia etnica della Palestina che descrisse la natura intrinseca del colossale problema nei seguenti termini:

Se fossi un arabo non firmerei mai la pace con Israele. E’ ovvio: abbiamo preso il loro paese. Ci era stato promesso da Dio, certo, ma perché ciò dovrebbe interessarli? Il nostro Dio non è il loro. E’ vero che siamo originari di Israele, ma è un fatto che risale a duemila anni fa. In che modo può riguardarli? Ci sono stati l’antisemitismo, il nazismo, Hitler, Auschwitz. Ma è stata forse colpa loro? Essi vedono una sola cosa: siamo venuti e abbiamo preso la loro terra”.

 

* Giacomo Gabellini è collaboratore di Conflitti & Strategie

 

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Il collasso della globalizzazione neoliberale

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I

 

Il primo maggio del 1974 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nella sua sesta Sessione Speciale, adottò la ‘Dichiarazione per la Costituzione di un nuovo Ordine Economico Internazionale’ che poneva una particolare enfasi sulla paritaria sovranità degli Stati. Sottolineando i principi di base di un ordine economico equo, la Dichiarazione richiedeva ‘una piena ed effettiva partecipazione su una base di eguaglianza tra tutte le nazioni, nella risoluzione dei problemi economici mondiali, nell’interesse di tutte le nazioni’ (Paragrafo 4[c]). In quel tempo gli stati membri delle Nazioni Unite sottolinearono anche l’importanza di una ‘piena e permanente sovranità di ogni stato sulle sue risorse naturali e su tutte le attività economiche’ (Paragrafo 4[e])

 

L’assemblea generale in seguito, durante la stessa sessione, adottò un ‘programma di azione’ riguardante l’economia internazionale, con un capitolo relativo al sistema monetario internazionale. E’ interessante – considerando la situazione in cui ci troviamo in questi giorni- richiamare alcuni di questi punti scritti dai rappresentanti della comunità internazionale. Prima di tutto, gli stati membri dell’ONU richiesero misure per ‘eliminare l’instabilità del sistema monetario internazionale, in particolare l’incertezza dei tassi di cambio.’ Il secondo punto, che mi piacerebbe ricordare, è relativo all’enfasi degli stati membri relativa al ‘mantenimento del vero valore delle riserve monetarie delle nazioni in via di sviluppo.’ A questo proposito, chiesero – più di tre decenni fa! – ‘la creazione di liquidità internazionale… attraverso un meccanismo internazionale multilaterale.’

 

In una riunione di esperti sull’idea di un nuovo orfine economico internazionale, che l’Organizzazione Internazionale per il Progresso tenne a Vienna nell’aprile del 1979, i nostri esperti avevano anche enfatizzato il principio ‘della reciproca responsabilità economica’ a livello internazionale e la necessità di ‘spostare l’attenzione,’ per quanto riguardava il sistema dei valori, ‘dall’avere all’essere e dal consumo alla qualità della vita.’ In generale, noi avevamo richiesto, durante questo incontro, che l’economia si fondasse su principi etici. In una conferenza sulle sfide della globalizzazione, tentuasi all’Università di Monaco nel 1999, la nostra organizzazione aveva ulteriormente messo in guardia sulla minaccia dell’instabilità globale risultante da mercati completamente privi di regole, che operassero sulla base di una fallace interpretazione della nozione di libertà individuale.

 

 

II

 

In maniera deplorevole, in più di tre decenni passati dall’iniziativa dell’ONU per un nuovo ordine economico internazionale, l’economia globale si è sviluppata nella direzione opposta. La visione dell’Assemblea Generale di un nuovo ordine economico internazionale fu effettivamente rigettata dai paesi industrializzati al Summit dei 22 leader mondiali (che includeva anche 14 leader dai paesi in via di sviluppo) a Cancùn, in Messico, nell’ottobre del 1981. Mi piacerebbe qui ricordare il ruolo della delegazione statunitense guidata dal Presidente Ronald Regan, così come il suo preoccupante rifiuto alle richieste delle nazioni in via di sviluppo. L’intera nozione di u nuovo ordine economico internazionale fu effettivamente sepolto in quell’occasione.

Da quel momento il progetto neoliberale di globalizzazione andò avanti, con uno zelo ideologico sempre crescente, nonostante gli avvertimenti e le proteste di molti leader dei paesi in via di sviluppo. Per quanto riguarda l’ideologia della globalizzazione, vorrei dare qui la seguente caratterizzazione: ciò che abbiamo visto rivelarsi in questi ultimi decenni -cioè dall’inizio degli anni ’70- è una folle fede in una specie di perpetuum mobile finanziario, che significa supporre che la ricchezza possa essere creata semplicemente attraverso transazioni finanziarie o attraverso i cosiddetti ‘strumenti finanziari.’ Questa fede era evidente in alcune pratiche ed atteggiamenti che includono, per esempio, alcune politiche sulla base delle quali gli organismi regolatori sono stati deliberatamente indeboliti o completamente annullati, nel nome della liberalizzazione economica. Sarebbe qui da ricordare il ruolo del Presidente della statunitense Federal Riserve Alan Greenspan, durante questo periodo cruciale. Non si sottolinea mai abbastanza che l’autorità regolatrice dello stato è stata completamente erosa in favore di quello che veniva, ed è tuttora chiamato, ‘il libero fluire’, non solo di beni, ma anche di denaro, oltre i confini; e tutto ciò è stato ideologizzato attraverso lo slogan della globalizzazione. Il Forum economico mondiale di Davos è stato indubbiamente utile come strumento ideologico e come luogo di pubbliche relazioni per promuovere questa ideologia.

Ad ogni modo, al posto di un nuovo ordine mondiale, come quello programmato da George Bush padre nel 1991 davanti al Congresso degli Stati Uniti, uno stato di disordine globale è stato la conseguenza dell’abdicazione degli stati alla propria sovranità, a vantaggio dell’economia e delle politiche finanziarie. Lo stato ha dovuto gradualmente lasciare spazio ai potenti, ma completamente inaffidabili, poteri forti transnazionali. Con lo slogan della globalizzazione, il ‘ciclo dell’ingordigia’ nel quale l’economia è stata coinvolta, ha causato una crisi sistemica non solo degli scambi economici internazionali, ma delle relazioni internazionali in generale.

Nonostante l’importanza del problema, i propugnatori dell’ideologia neoliberale insistono ancora nel voler risolvere la crisi cercando di affrontarne solamente i sintomi, e ingaggiano un’ostinata battaglia con la realtà, quando si tratta di identificare le reali cause del collasso della globalizzazione: cioè, prima di tutto, l’esclusione di tutti i confini non solo geografici, ma anche morali che devono governare l’economia.

Perciò, sarebbe il caso di tornare alle basi e prestare attenzione alle fondamentali considerazioni filosofiche relative alla moneta. Varrebbe la pena, in questo contesto, di riconsiderare i principi della finanza che sono stati delineati quasi due millenni e mezzo fa, nel periodo della filosofia classica greca. Aristotele ci avvertì che la moneta non ha un valore naturale, che non è un bene come un altro. Il suo valore è determinato dagli esseri umani, cioè dai governi, attraverso una convenzione (conventio) o legge – νόμῳ (nómo) nella terminologia greca –per esempio attraverso una determinazione, un ruolo. Per centrare il punto, Aristotele si riferiva all’etimologia della parola greca per moneta, cioè nómisma (νόμισμα), che deriva da νόμος, la parola greca per legge o regolamento.

Secondo la filosofia aristotelica, la moneta è lo strumento che consente lo scambio dei beni perché permette di misurare il valore degli stessi. Assicura la commensurabilità dei beni che vogliamo scambiare. Se il carattere ‘numismatico’ della moneta – se possiamo alludere all’etimologia del termine greco nomisma – viene ignorato, le valute vengono commerciate come se fossero beni. La speculazione sulle valute internazionali come strumento per generare ricchezza con metodi artificiali, è stata infatti una delle cause della crisi finanziaria internazionale, come ormai ben sappiamo.

Ancora di più, il valore della moneta, ed in particolare il relativo ‘peso’ di ogni valuta nel mercato di scambio internazionale, deve essere radicato nella ricchezza rappresentata dall’economia reale. Non esiste una cosa come il valore astratto della moneta. Se questa verità di base è trascurata o ignorata, la speculazione finanziaria prospererà e i cosiddetti strumenti finanziari continueranno ad essere creati all’infinito –come se la ricchezza reale potesse essere generata in maniera fittizia e illusoria. In sostanza, queste sono tutte meramente transazioni artificiali, se non inserite in attività dell’economia reale che creano valore.

Questo è il motivo per cui la generazione di ricchezza attraverso l’utilizzo dei soli ‘strumenti finanziari’, giusto per nominarli: lo scambio di valute, i titoli, i futures e così via, ha infatti la natura del gioco della piramide. La piramide inevitabilmente collasserà nello stesso momento in cui l’economia reale reclamerà i suoi diritti e i popoli, da un momento all’altro, perderanno la certezza del mito della creazione della ricchezza attraverso la speculazione, uno sviluppo che porrà termine, drasticamente, al ciclo dal quale qualsiasi nuova somma di liquidità viene fornita.

Non solo a livello filosofico, ma anche su un più largo contesto di responsabilità sociale, è importante evidenziare la natura intrinsecamente non etica della speculazione finanziaria, a livello di valute, obbligazioni, futures etc. In questo modo, la ricchezza – quella artificiale – è creata a spese degli altri che vengono effettivamente espropriati durante l’inevitabile collasso del sistema, come siamo testimoni proprio adesso. Richiamandosi all’enfasi che il filosofo greco ha posto sull’innaturale modo di creare ricchezza attraverso mere transazioni finanziarie, bisognerebbe essere al corrente del famoso detto presente nel primo libro della Πολιτικά (Politiká), nella parte 10, dove viene condannata la procedura per cui qualcuno ‘si arricchisce dalla moneta stessa e non utilizza la moneta per come dovrebbe essere usata naturalmente’.

È una mente libera a ricordarci, da 2500 anni., l’importanza dell’economia reale. Il verdetto aristotelico non è solo diretto a trarre interessi dalla moneta, ma si applica alla speculazione finanziaria in generale, evidenziando la natura improduttiva di questo genere di attività semi-economica. Questo approccio è maggiormente illustrato da altre frasi all’interno del trattato, relative cioè alla ‘nascita della moneta dalla moneta’ e della ‘riproduzione della moneta’ come la più innaturale forma di acquisizione di ricchezza.

 

 

III

 

E’ arrivato il tempo di rivedere le intuizioni dell’età dell’oro della filosofia greca, riguardo la natura della moneta come strumento per determinare il valore dei beni, per rendere questi beni comparabili e perciò permettere gli scambi economici; e alla fine, per considerare i principi etici che governano questa attività. Si dice spesso che ‘la globalizzazione non conosce confini’.

Dobbiamo anche prestare attenzione al fatto che il metodo di scambi economici e finanziari internazionali, che viene idealizzato in quest’affermazione comune, non solo non ha confini geografici, ma spesso viene anche concepito come privo di limiti morali. Come risultato di tale percezione, stiamo affrontando questa crisi di dimensioni epocali. Una delle ragioni di base di questa situazione difficile – che ancora molti non vogliono riconoscere- è che le regole morali nel comportamento economico, sono state sistematicamente ignorate e spesso rigettate.

Questo riprovevole stato di cose rende imperativo riflettere sui principi dell’attività economica in quanto tale. In particolare, dovremo riconsiderare quelle idee che collegano la finanza all’economia reale, cioè alla fabbricazione dei beni, e dovremmo prendere la palla al balzo per propagandare la creazione di un genuino nuovo ordine economico internazionale, che sia basato non sul mito della globalizzazione e sulla filosofia dell’avidità, ma sui principi della creazione di ricchezza orientati al bonum commune, il bene comune. Questo implica, inter alia:

— Il riconoscimento dell’autorità regolatrice dello stato, come parte integrante dell’esercizio della sovranità dello stato;

— La fondazione di meccanismi regolatori a livello internazionale, attraverso accordi intergovernativi, ad esempio accordi conclusi sulla base dell’eguaglianza di sovranità;

— Il divieto di pratiche economiche palesemente non etiche, che sono basate sulla speculazione invece che su attività genuinamente economiche (che sarebbero basate su aspettative razionali). Il brand ‘globalizzato’ del ‘capitalismo casinò’ include metodi come la cosiddetta ‘vendita allo scoperto’ di azioni e ogni genere di transazione legata al mercato dei derivati e alle speculazioni sulle valute; in generale, è evidente come tutte le pratiche che sono basate sulla creazione di ricchezza individuale, causino la perdita di valore delle valute, delle azioni etc. Cioè, nell’ottenere sistematicamente e deliberatamente guadagni speculando sulle perdite degli altri, nei fatti attraverso una vera e propria ‘espropriazione’ degli altri partecipanti, in un gioco non equo. Da non dimenticare in questa lista non esaustiva di pratiche dubbie, tutte le transazioni che si basano sul fondamento logico dell’azzardo, cioè tutte le forme di scommesse finanziarie che vengono ancora considerate, da molti finanzieri, una forma legittima di attività economica.

Riassumendo questo breve decalogo delle conseguenze dei mercati non regolati e di una falsa e artificiale percezione della natura della finanza, si potrebbe dire che in questo momento, siamo testimoni della bancarotta della globalizzazione come epitome della ideologia neoliberale. Apparentemente inattesa – questo è ciò che dicono – dagli ideologi neoliberali, la globalizzazione ha ormai mostrato la sua faccia reale; si è dimostrata un’illusione di ricchezza, guidata dall’avidità individuale. In quanto tale, la dottrina della globalizzazione si è dimostrata irrazionale. La fede nel miracolo della creazione di ricchezza attraverso gli strumenti di un economia basata su scambi non regolati e virtualmente senza confini, ha infatti tutte le caratteristiche dell’isteria di massa.

E’ innegabile il fatto che noi viviamo in un mondo sempre più interconnesso. Il corso della storia e lo sviluppo della tecnologia in particolare, non possono essere invertiti. Ad ogni modo, nelle attuali circostanze, è di massima importanza che i leader e i cittadini che si impegnano per il bene comune, facciano qualsiasi cosa sia nelle loro possibilità per fermare i cicli continui di avidità che hanno rovinato le vite di diverse generazioni, di milioni di persone, nel corso della storia del ‘libero mercato.’

Il casinò globale in cui il mercato finanziario deregolamentato è degenerato, deve essere chiuso una volta per tutte. Non c’è dubbio che questo obiettivo possa essere raggiunto solo dall’azione comune degli stati come attori principali della politica internazionale e, per questo, garanti dell’ordine globale. Solo passi audaci, intrapresi di comune accordo, verso una regolazione responsabile della finanza, renderanno possibile la fondazione di ciò che i membri delle Nazioni Unite avevano immaginato, cioè un nuovo ordine mondiale equo come sistema di relazioni internazionali all’interno del quale, tutte le nazioni possano guidare le proprie politiche economiche ed essere coinvolte negli scambi economici, sulla base di uguali sovranità. Questa era l’idea dietro la risoluzione della Sessione Speciale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1974, e – in vista della crisi globale senza precedenti – oggi essa merita maggiore considerazione.

 

(Traduzione a cura di Massimo Janigro)

 

 

* Hans Koechler è presidente dell’IPO – International Progress Organization (Vienna – Austria). Il presente articolo costituisce la relazione presentata al World Public Forum “Dialogue of Civilizations” and Klub Rusko / Dialogues in Prague, svoltosi aPraga, Repubblica Ceca il 14 maggio 2009.

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Le elezioni in Finlandia e l’ascesa del nazionalismo in tutta Europa

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Fonte: Strategic Culture

Le elezioni parlamentari tenutesi in Finlandia il 17 aprile sono state segnate da un successo senza precedenti dal partito dei True Finns (Veri Finlandesi), che viene considerato come un partito nazionalista. Secondo i risultati iniziali, i True Finns hanno ricevuto il 19% dei voti e hanno aumentato la loro rappresentanza in parlamento da soli 5 seggi a 39, rispetto al 2007. Considerando che la Coalizione Nazionale conservatrice della destra, che ha vinto le elezioni, ha ricevuto poco più del 20% ed i socialdemocratici dell’attuale presidentessa Tarja Halonen hanno preceduto i Veri Finlandesi solo dello 0,1%, possiamo dire che il partito del carismatico Timo Soini è uno dei tre principali partiti politici in Finlandia.

La discussione sulla formazione della coalizione di governo, in cui i Veri Finlandesi hanno intenzione di svolgere un ruolo significativo, può durare per diverse settimane. Ma è già chiaro che questo partito, che protegge i valori nazionali e si oppone al flusso incontrollato di rifugiati e immigrati clandestini, alla moneta unica europea e alla burocrazia dell’UE, sta godendo di un crescente sostegno in Finlandia.

Le posizioni degli altri principali partiti (compreso il Partito di Centro dell’ex Primo Ministro Mari Kiviniemi), si sono indebolite – hanno perso il 3-16% dei voti.  Jan Sundberg, professore all’Università di Helsinki, afferma: “Questo è un grande big bang nella politica finlandese. Questo è un grande, grande cambiamento. Questo cambierà il contenuto della politica finlandese.”

Il giorno successivo alle elezioni parlamentari, uno dei principali quotidiani finlandesi, “Aamulehti”, ha riportato, come titolo, la parola “Rivoluzione”. Il quotidiano centrale di Helsinki, “Helsingin Sanomat”,  ha riportato la citazione di Timo Soini: “Abbiamo vinto le elezioni ed i sondaggi” – un segno che i risultati reali dei True Finns hanno superato le previsioni più inaspettate.

Tenendo conto del duro braccio di ferro tra i Veri Finlandesi, la sinistra tradizionale e i partiti del centro, tali conclusioni rivoluzionarie non devono esser viste come un’esagerazione. In questo momento, possiamo ravvisare simili “rivoluzioni” in tutta l’Europa Occidentale. Austria, Germania, Francia, Svezia, Belgio, Paesi Bassi, Norvegia – è solo un elenco incompleto dei paesi dell’Europa Occidentale, dove i partiti nazionalisti radicali e i movimenti stanno gradualmente rafforzando le loro posizioni. Nel settembre 2010, i Democratici di Svezia (la cui posizione paragonabile a quella dei Veri Finlandesi) hanno ottenuto un successo senza precedenti alle elezioni parlamentari nel loro Paese.

E’ difficile non pensare che la geografia del successo dei partiti di destra nelle elezioni in Europa, coincida con la geografia della diffusione degli immigrati clandestini dai Balcani, Nord Africa e del Medio Oriente. Sebbene l’Italia non sia in questa lista, l’incapacità del governo di Silvio Berlusconi di risolvere la situazione dell’arrivo di più di 20.000 rifugiati dalla Tunisia nell’isola di Lampedusa, ci permette di prevedere la crescita di sentimenti nazionalistici anche in Italia. La Lega Nord separatista non abbandona i suoi piani di formare, sulla base dei distretti settentrionali d’Italia più industrialmente sviluppati, la Repubblica di Padania – lontana da Lampedusa, da Napoli da altre zone povere e disagiate.

Nel febbraio del 2010, in Belgio, è scoppiata una grave crisi – proprio di fronte all’edificio della sede UE. Degli albanesi che sono arrivati ​​a Bruxelles dai Balcani, hanno bloccato le istituzioni statali, chiedendo al governo di dar loro un riparo, un alloggio, un lavoro e un’indennità in denaro. Poi, il Primo Ministro belga Yves Leterme ha esortato le autorità dell’UE a limitare gli effetti negativi della liberalizzazione del regime dei visti europei. Ma non è accaduto ed i rifugiati hanno continuato ad usare con successo il cosiddetto modello  “merry-go-round“, con il quale hanno ricevuto assegni in un Paese, muovendosi verso un altro Paese e ripetendo il tutto.

La situazione dei rifugiati e degli immigrati clandestini è diventata davvero  rivoluzionaria una volta che i contribuenti hanno mostrato la loro ovvia riluttanza a sostenere l’affondamento economico dell’UE. Jane Fowley, analista della International Rabobank, sostiene che “non si paga per gli errori di bilancio degli altri”.

La logica dei finlandesi, svedesi, olandesi, tedeschi è chiara: perché dovrebbero soffrire della crisi in Grecia, Irlanda, Portogallo e sentire le conseguenze di una guerra in una remota Libia, dove la NATO sta combattendo sul campo con Al-Qaeda? Le parole profetiche di Yves Leterme si stanno avverando: ciò che era iniziato come crisi bancaria, economica e sociale, ora è diventata una crisi politica.

I mercati finanziari hanno reagito rapidamente con il calo dell’Euro dopo il successo dei Veri Finaldesi.  A differenza di altri Paesi UE, in Finlandia è il Parlamento, non il Governo, responsabile dell’elaborazione della politica nazionale verso l’UE. Ecco perché gli attuali progetti della burocrazia di Bruxelles, come la preparazione del pacchetto di emergenza per fornire un aiuto finanziario al Portogallo, sono stati sospesi.

“Naturalmente ci saranno dei cambiamenti”: questo è come ha commentato Timo Soini la possibile influenza del successo del suo partito sui colloqui riguardo il Pacchetto Portogallo. In Gran Bretagna, un uomo su posizioni simili a quella dei Veri Finlandesi, Nigel Paul Farage, leader dell’UK Independence Party (UKIP), ha affermato che: “L’euro-scetticismo può vincere e fare grandi vittorie”. Ha confermato che i Veri Finlandesi e i loro alleati proteggeranno fermamente la loro posizione dicendo “no” ai nuovi pacchetti di stabilizzazione dell’UE e “sì” alle democrazie nazionali.

Considerato che non ci sono cambiamenti globali in politica finanziaria, economica ed estera dell’Unione Europea che possono esser visti nell’immediato futuro, la rivoluzionaria “svolta a destra” in Europa continuerà definitivamente.

 

Traduzione a cura di Donatella Ciavarroni

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La distruzione della Libia, una crescente minaccia per la Russia

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http://gazeta-pravda.ru/content/view/8768/34/

Pravda, 1 Settembre 2011

Secondo i media, le forze che cercano di rovesciare il governo della Libia hanno occupato la capitale, Tripoli, e diverse altre città. Ovunque siano commettono omicidi di massa e saccheggi. E’ stato anche saccheggiato l’eccezionale museo nazionale di Tripoli.

Tutto questo parla da se del tipo di persone coinvolte nella lotta contro il governo legittimo. E’ ben noto che l'”opposizione” che si sarebbe ribellata contro la “tirannia” di Gheddafi, sta ricevendo armi dall’estero. Ma ancora, non avrebbero potuto affrontare le truppe del governo libico, senza il sostegno massiccio dell’aviazione della NATO, che ha distrutto i centri di comando, depositi di munizioni e armi e le linee di comunicazione. I “ribelli” appaiono solo dopo che la tempesta di fuoco della NATO ha distrutto ogni cosa sul suo cammino.

Questo è certamente un intervento militare, accuratamente nascosto dietro lo schermo trasparente dei “ribelli”. In Libia, si sta perfezionando una nuova tattica per rovesciare i governi indesiderabili all’Occidente, con ampio uso di eserciti privati e di mercenari come ausiliari alla NATO. Tutto questa orgia si svolge sotto la copertura della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e con l’attuazione del “no-fly zone”, il cui presunto obiettivo era proteggere la popolazione civile della Libia dai bombardamenti. In pratica, gli aerei della NATO ha lanciato attacchi con missili e bombe, non solo contro le posizioni dell’esercito libico, anche contro le strutture civili nelle città. Di conseguenza, essi hanno ucciso migliaia di civili, tra cui anziani e bambini. Fatti come questi sono, secondo il diritto internazionale, un crimine contro l’umanità. Ma la lingua dei Gesuiti della NATO, le vite distrutte vengono chiamate “danni collaterali”.

La Libia è l’ultima vittima dell’intervento globale della NATO, che è diventato possibile dopo la distruzione dell’Unione Sovietica. Proprio in questo momento, con la scomparsa di una forza capace di affrontare l’avventurismo dell’oligarchia mondiale, apparve al nostro attuale “partner” la sensazione dell’impunità. Imposta dall’esterno, ebbe inizio la guerra civile in Jugoslavia, che si è conclusa dopo 78 giorni di bombardamenti di città e cittadine indifese.

Poi gli Stati Uniti ed i suoi alleati hanno invaso l’Iraq, impigliandosi nel filo spinato di quel paese. Poi seguì l’Afghanistan, convertito dalle truppe di occupazione in un ritrovo per la produzione di droga. Nel frattempo, le agenzie d’intelligence dell’Alleanza avviarono le rivolte “arancione” in Georgia, Ucraina e Moldavia. Passando anni a cercare di rovesciare il Presidente bielorusso Lukashenko.

La Siria è prossimo della lista, sottoposta ad attacchi di insorti armati dall’esterno. Assistiamo alla guerra di informazione contro il governo siriano. Prova eloquente dei preparativi per l’intervento della NATO.

Oggi il mondo affronta un nuovo colonialismo, nella sua variante più disgustosa e cinica, proprio come lo era due secoli fa. L’ex potenze coloniali, USA, Regno Unito e Francia ancora rivendicano il diritto di decidere del destino di qualsiasi stato sovrano. Durante questa operazione “umanitaria” hanno calpestato la Carta delle Nazioni Unite e le norme del diritto internazionale. Come risultato, la Libia è stata sommersa nel caos, e potrebbe eventualmente svilupparsi successivamente nello scenario somalo: la divisione in innumerevoli tribù e clan che si combattono tra loro. La Russia è anch’essa responsabile della tragedia in Libia, dal momento che il governo ha dato il via libera alla risoluzione anti-Libia delle Nazioni Unite, non usando il suo potere di veto e, quindi, unendosi alle sanzioni contro la Libia. Questo ha significato non solo che abbiamo perso 20 miliardi di dollari di potenziali benefici dal commercio e della cooperazione economica con questo ricco paese africano, ma abbiamo anche perso uno degli stati amici che avevamo nella regione strategicamente importante del Mediterraneo.

Se non finisce questa orgia del neo-colonialismo, la Russia con i suoi sconfinati territori e le sue enormi riserve di materie prime, diventerà uno degli obiettivi futuri dell’esportazione atlantista della “democrazia”. Indebolito da due decenni di cosciente deindustrializzazione e decadenza, con un esercito demoralizzato e distrutto, il nostro Paese inevitabilmente diventerà un bersaglio per l’intervento.

Il PCRF condanna la pirateria mondiale dell’oligarchia coloniale ed esorta il governo della Federazione Russa a prendere coscienza delle conseguenze più pericolose che comporta la collusione con gli aggressori.

Solo un governo forte e patriottico, in grado di rilanciare l’industria, l’agricoltura, l’istruzione, la scienza e la cultura, il nostro passato di potenza e il ritorno delle nostre Forze Armate, può salvare la Russia dal ripetersi dello scenario libico delle rivoluzioni “colorate”.

Link: [1] http://josafatscomin.blogspot.com/2011/09/destruccion-de-libia-crecela-amenaza.html [2] http://gazeta-pravda.ru/content/view/8768/34/ http://tortillaconsal.com/tortilla/print/9378

Di Gennady Zyuganov leggi il trattato di geopolitica: Stato e Potenza (Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1999)

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru http://www.bollettinoaurora.da.ru http://aurorasito.wordpress.com

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L’anacronismo di Israele

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Mentre i paesi europei si accingevano a chiudere la lunga parentesi coloniale ritirando progressivamente i propri vessilli dai paesi dell’Africa e dell’Asia, un gruppo di ebrei d’Europa si apprestava a dar vita a un impero coloniale nel cuore del mondo arabo, a ridosso delle città sante dell’Islam.

Nel momento in cui i coloni originari del Vecchio Continente si vedevano costretti, volenti o nolenti che fossero, ad abbandonare il mondo arabo, una cospicua schiera di essi occupava progressivamente la Palestina, spingendo coercitivamente quasi 1 milione di indigeni a lasciare le proprie abitazioni al fine di favorire, in fortissima opposizione rispetto alle tendenze dell’epoca, la formazione di uno Stato etnicamente e confessionalmente monolitico.

Mentre il multiculturalismo stava soppiantando, in Europa ed America, la concezione etnica dello Stato, quel nucleo di europei erigeva una nazione etnico – religiosa di cui era possibile divenire cittadini a pieno titolo solo dimostrando la “purezza” originaria della propria stirpe.

Le straordinarie ragioni politiche che produssero questa inedita anomalia storica furono principalmente il declino dell’Impero Britannico, il peso esercitato dalla potente lobby ebraica sulle scelte politiche degli Stati Uniti e la strategia geopolitica dell’Unione Sovietica.

Le Gran Bretagna profuse enormi sforzi nel tentativo di assolvere degnamente ai compiti del mandato e placare la conflittualità tra arabi ed ebrei, nutrita minoranza soggetta però a un forte incremento demografico.

In quello specifico contesto maturarono le condizioni che portarono alla nascita di vari gruppi paramilitari sionisti che innescarono una campagna terroristica finalizzata ad accelerare la fine del protettorato britannico.

Haganah, Palmach, Irgun e banda Stern scatenarono un’efferata offensiva che destrutturò le forze britanniche e annichilì la popolazione palestinese.

Particolare sgomento, tra i tanti attentati commessi, fu suscitato dall’attentato all’hotel King David del 22 luglio 1946 eseguito dall’Irgun (comandato dal futuro Primo Ministro israeliano e Premio Nobel per la Pace Menachem Begin), che provocò la morte di circa un centinaio di persone e spinse la società civile in patria ad esercitare forti pressioni sul governo affinché ritirasse definitivamente la presenza britannica – che ammontava a circa un decimo delle forze armate stanziate all’estero – dalla Palestina.

Dissanguata dagli sforzi bellici profusi durante la Seconda Guerra Mondiale, mal sostentata da un’economia anemica ed incapace di spezzare l’inerzia negativa legata al proprio declinante status imperiale, la Gran Bretagna si rivolse alle Nazioni Unite perché si esprimessero in merito alla questione ebraica.

Nel novembre del 1947 venne approvata la risoluzione 181, che prevedeva la creazione di due Stati e l’applicazione di un regime internazionale su Gerusalemme.

Tale risoluzione intendeva dar vita a uno stato ebraico composto da un nucleo di circa 500.000 ebrei e 325.000 arabi, e a uno arabo formato da circa 800.000 arabi e 10.000 ebrei.

Gerusalemme avrebbe contenuto circa 100.000 ebrei e 100.000 arabi.

Gran Bretagna e i paesi arabi mal digerirono tale verdetto, mentre sia Josif Stalin che Harry Truman videro soddisfatti i propri progetti per quella regione.

Stalin, persuaso di aver colto negli ebrei una sorta di inclinazione culturale favorevole al socialismo, ritenne che appoggiando il progetto finalizzato alla creazione di un’entità sionista nel cuore del Levante avrebbe assestato un duro colpo ai residui imperialistici inglesi.

Truman intendeva invece assicurarsi il sostegno della vasta comunità ebraica degli Stati Uniti in vista delle imminenti elezioni.

Significativo a tal riguardo è il fatto che nel maggio del 1942 all’hotel Biltmore di New York si era tenuto un cruciale convegno che culminò con l’approvazione da parte di circa 600 influenti ebrei americani del “Zionist Biltmore Program”  proposto da Chaim Weizmann e David Ben Gurion.

Il programma in questione traeva ispirazione dal progetto imperiale escogitato all’inizio del’900 da Theodor Herzl finalizzato all’instaurazione di uno Stato ebraico in Palestina e fu adottato dal Consiglio generale dell’organizzazione sionista di Gerusalemme.

All’epoca il movimento sionista degli Stati Uniti era guidato dal rabbino Stephen Wise, il quale seppe raggruppare l’intera comunità ebraica del paese – la più grande del mondo per numero e peso economico – sotto la propria egida al fine di esercitare pressioni politiche sul Congresso e sull’esecutivo statunitense.

Il 30% circa dei senatori, 143 deputati e più di mille eminenti personalità della politica, dell’economia e della cultura degli Stati Uniti accettarono congiuntamente di sottoscrivere un documento a supporto della formazione di un esercito regolare ebraico, mentre mozioni di sostegno al disegno sionista furono sottoposte al voto in ben 33 Stati.

Non stupisce quindi l’accondiscendenza di Truman – e più in generale degli Stati Uniti, pur tra notevoli alti e bassi, fino al giorno d’oggi (e non solo per quanto riguarda i famosi 3 miliardi di dollari che Washington versa annualmente nelle casse israeliane) – nei riguardi del sionismo e della creazione dello Stato di Israele.

Nell’arco di pochi giorni dalla nascita del nuovo Stato la tensione si acuì costantemente finché la Palestina non si trasformò nel principale campo di battaglia del Vicino Oriente.

Sugli eventi che si verificarono negli anni seguenti è stata scritta una vasta bibliografia quasi interamente incardinata sulle tesi che il “popolo senza terra” degli ebrei europei sopravvissuto al genocidio nazista avrebbe individuato nella Palestina quella “terra senza popolo” adatta ad ospitare il nuovo Stato ebraico e che le poche comunità autoctone stanziate nella regione avrebbero abbandonato le proprie case assecondando le esortazioni delle autorità arabe.

Nell’ultimo ventennio è nata però una corrente storiografica revisionista formata da un gruppo di accademici israeliani che hanno usufruito dell’ampia documentazione dell’epoca gradualmente desecretata per smentire questo infondato assunto di base.

Storici come Ilan Pappé, Zeev Sternhell, Tom Segev salirono agli onori della cronaca per aver sostenuto la tesi che nell’arco del triennio 1947 – 1950 sia avvenuta in Palestina una massiccia pulizia etnica delle popolazioni indigene realizzata dalle forze israeliane.

Un’operazione perfettamente organizzata che violò la risoluzione ONU 181 consacrando il carattere ebraico a cemento della neonata nazione di Israele.

L’episodio fondamentale che segnò la nascita della tattica del terrore ebbe luogo il 9 aprile del 1948.

Allora l’Haganah conquistò il villaggio palestinese di Deir Yassin per poi ritirarsi e lasciare che l’Irgun massacrasse tutti i 254 palestinesi che vi abitavano senza badare a sottigliezze come il sesso o l’età anagrafica delle vittime.

“Il massacro non solo fu giustificato, ma non ci sarebbe stato Israele senza la vittoria di Deir Yassin”, affermò Menachem Begin.

Le modalità con cui avvenne la “vittoria” di Deir Yassin furono poi diffuse per radio affinché i palestinesi comprendessero quale destino si celava dietro l’eventuale, malaugurata scelta di resistere alla prorompente avanzata sionista.

Dopo Deir Yassin massacri e stermini svolsero un ruolo cruciale nella diffusione del terrore in seno alla popolazione autoctona e all’induzione della stessa all’esodo.

Nell’arco di pochi anni 474 villaggi arabi furono occupati dalle forze sioniste e 385 di essi furono rasi al suolo e cancellati dalle cartine geografiche.

Stando alle statistiche britanniche, al 31 dicembre del 1947 vivevano in Palestina 589.341 ebrei a fronte di una popolazione totale di 1.908.775 persone.

Un censimento realizzato nel novembre del 1948 rivelò che la popolazione araba di Israele ammontava a non più di 130.000 persone.

Gli analisti sono concordi nello stimare in un minimo di 890.000 e un massimo di 904.000 il totale delle persone vittime della pulizia etnica realizzata dalle forze sioniste.

All’inizio degli anni ’50 la popolazione contenuta all’interno dei confini armistiziali era composta da 1.509.000 ebrei, 118.500 arabi, 39.000 cristiani e 15.000 drusi.

L’enorme squilibrio demografico favorito dalle scelte del Primo Ministro David Ben Gurion e dai suoi successori consolidò politicamente, economicamente, socialmente e militarmente il paese.

In sostanza, lo Stato di Israele si affermò sul piano internazionale cacciando gli indigeni dalle loro terre e rifacendosi a motivazioni di carattere biblico – religioso per adottare nei confronti degli arabi una prassi analoga a quella impiegata in altre epoche dai puritani anglosassoni nei confronti dei Pellerossa, dai cecoslovacchi e dai polacchi nei confronti dei tedeschi dei Sudeti e della Polonia occidentale, degli jugoslavi verso gli italiani d’Istria e di Dalmazia e dei croati a danno dei serbi della Kraijna.

A differenza degli altri casi, tuttavia, era la filosofia che aveva animato pochi anni prima la pulizia etnica eseguita dai nazisti nei primi territori occupati a presentare analogie con quella perpetrata dai sionisti contro le popolazioni indigene, i cui tratti comuni furono delineati efficacemente dal Ministro degli Esteri del primo governo israeliano guidato dal padre della patria David Ben Gurion.

Si tratta di Moshe Sharett, il quale affermò che:

“I rifugiati troveranno il loro posto nella diaspora. Grazie alla selezione naturale, certi resisteranno, altri no. La maggioranza diventerà un rifiuto del genere umano e si fonderà con gli strati più poveri del mondo arabo”.

I palestinesi espulsi furono costretti a rifugiarsi lungo la striscia di Gaza, in Giordania, Siria e Libano, dove vennero confinati in numerosi campi profughi appositamente creati affinché non alterassero i fragili equilibri demografici e politici della regione.

Il nazionalismo palestinese incarnato dalla figura di Yasser Arafat trasse linfa vitale proprio dalla rabbia per i torti subiti – oltre che dall’orgoglio connaturato alla religione islamica  – e dalle precarie condizioni in cui versava la popolazione dislocata nei campi profughi.

La volontà di riscatto palestinese favorì poi la formazione delle classi dirigenti imbevute di religione musulmana come la Jihad islamica e soprattutto Hamas, movimento politico di grande diffusione popolare dotato di una struttura portante simile a quella di Hezbollah e capace di adempiere ai compiti militari, economici e assistenziali.

Fu nella miseria e nel disagio che maturarono le condizioni per la reazione palestinese, che si dispiegò mediante numerosi sommovimenti popolari che innescarono una colossale concatenazione di eventi.

Settembre Nero, invasione israeliana del Libano, attentato a Bashir Gemayel, efferata ritorsione di Sabra e Chatila, Prima Intifada,  seconda guerra del Libano, provocazione di Ariel Sharon lungo la Spianata delle Moschee, Seconda Intifada, omicidio di Rafik Hariri, Rivoluzione dei Cedri, ascesa di Hezbollah, terza guerra del Libano, Piombo Fuso, allontanamento della Turchia; tutti eventi connessi direttamente o indirettamente alle tensioni israelo – palestinesi.

L’altra ripercussione sortita dalla nascita e (soprattutto) dalle modalità in cui si affermò Israele fu l’endemico sentimento di frustrazione e subalternità che opprime ancora oggi le popolazioni arabe dovuto all’atteggiamento tenuto dagli israeliani nei loro riguardi.

Dalla pulizia etnica della Palestina, alla relegazione degli arabi a cittadini di secondo livello si è giunti all’innalzamento di una “barriera di separazione”, un muro suscettibile di produrre l’annessione israeliana di Gerusalemme Est oltre a parte dei territori occupati della Cisgiordania e di garantire una segregazione forzata sospingendo verso est le popolazioni arabe stanziate nell’area.

La costruzione della barriera in questione iniziata nel 2003 avvenne a più di un decennio dal significativo abbattimento del Muro di Berlino e dalla liberazione di Nelson Mandela che preluse alla fine dell’Apartheid, il regime di segregazione razziale che gli afrikaner sudafricani avevano applicato per mantenere una separazione forzata dai cittadini autoctoni di pelle nera.

Si tratta di un anacronismo che alla prova dei fatti tende a minare le ambizioni palestinesi relative al riconoscimento di uno Stato nazionale.

Abu Mazen ha annunciato pubblicamente che a settembre si rivolgerà alle Nazioni Unite per chiedere il riconoscimento di uno Stato palestinese imperniato sulla centralità indiscutibile di Gerusalemme, città che non a caso Israele sta accingendosi ad accorpare per mezzo del muro.

Molti paesi – specialmente dell’America Indiolatina – hanno già riconosciuto lo Stato palestinese ed altri – come la Norvegia – attenderanno il voto di settembre per fare altrettanto.

Israele, per bocca del Primo Ministro Benjamin Netanyahu e del Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, ha pubblicamente invitato i paesi europei a guardarsi dall’accogliere le richieste avanzate unilateralmente da Abu Mazen, laddove riconoscere uno Stato per i palestinesi è una necessità che solo un numero assai contenuto di paesi e uomini politici ha osato mettere in discussione.

I governanti di Tel Aviv, tuttavia, perseverano nel far ricorso ai medesimi, logori e stereotipati clichés impiegati negli anni passati per edulcorare l’immagine di Israele.

L’opinione pubblica internazionale, infatti, non accetta più che vengano rievocati gli orrori del nazismo per giustificare i coprifuoco, i check – point, le esecuzioni selettive, le umiliazioni pubbliche di cui le autorità israeliane si sono ripetutamente rese responsabili.

Esiste, beninteso, una sparuta minoranza che si ostina a considerare gli israeliani delle vittime, laddove sono però incontestabilmente i palestinesi – vessati, umiliati e privi di uno Stato – ad aver sostituito gli ebrei nell’immaginario collettivo.

“Le contraddizioni – scrive lo storico Tony Judt – insite nel modo in cui Israele si presenta – “siamo molto forti/siamo molto vulnerabili”; “decidiamo del nostro destino/siamo noi le vittime”; “siamo uno Stato normale/pretendiamo un trattamento speciale” – non sono nuove: fanno parte dell’identità distintiva del paese quasi dall’inizio. E l’insistente enfasi sull’isolamento e sulla unicità che lo caratterizzano, oltre alla pretesa di essere allo stesso tempo eroe e vittima, un tempo formavano parte del vecchio fascino alla Davide contro Golia”.

L’assiduità ossessiva con cui viene impiegato l’antisemitismo per trasferire il terreno della discussione dal politico all’irrazionale e per trasformare gli imputati in giudici è indice del fatto che rimangono ben pochi argomenti per giustificare le mosse di Tel Aviv.

Si tratta dell’ultimo, logoro asso nella manica che i sostenitori acritici di Israele utilizzano per fregiare di nobili crismi legittimatori i colpi di coda di una nazione che non comprende di aver perso da tempo ogni diritto alla solidarietà internazionale, che si ostina ad ignorare il fatto che gli Stati Uniti non si mostreranno sempre accondiscendenti (Zbigniew Brzezinski non lo è stato mentre John Mearsheimer e Stephen Walt hanno documentato ampiamente i danni provocati agli interessi statunitensi dall’appoggio a Israele, subendo pesanti attacchi dalla lobby ebraica e delle sue influenti ramificazioni) che muri e fortezze non preserveranno il paese più di quanto abbiano fatto con la Repubblica Democratica Tedesca e il Sud Africa, con Troia e Sebastopoli, con Atene e Yorktown.

Attualmente l’immane tragedia costituita dalla nascita di Israele e dalle modalità che segnarono la sua graduale affermazione internazionale sono tappe storiche di quella viene eufemisticamente definita come “questione palestinese”.

A differenza di ciò che accade oggi in Israele e ovunque si trovino gli entusiasti difensori del sionismo, l’ipocrisia che sta alla base di tale espressione non avrebbe presumibilmente trovato l’approvazione di David Ben Gurion stesso, principale artefice e ideatore della pulizia etnica della Palestina che descrisse la natura intrinseca del colossale problema nei seguenti termini:

“Se fossi un arabo non firmerei mai la pace con Israele. E’ ovvio: abbiamo preso il loro paese. Ci era stato promesso da Dio, certo, ma perché ciò dovrebbe interessarli? Il nostro Dio non è il loro. E’ vero che siamo originari di Israele, ma è un fatto che risale a duemila anni fa. In che modo può riguardarli? Ci sono stati l’antisemitismo, il nazismo, Hitler, Auschwitz. Ma è stata forse colpa loro? Essi vedono una sola cosa: siamo venuti e abbiamo preso la loro terra”.

Giacomo Gabellini è collaboratore di Conflitti & Strategie

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La Global Security dalla Guerra del Golfo all’aggressione alla Libia

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“The brutal aggression launched last night against Kuwait illustrates my central thesis: Notwithstanding the alteration in the Soviet threat, the world remains a dangerous place with serious threats to important U.S. interests wholly unrelated to the earlier patterns of the U.S.-Soviet relationship. These threats, as we’ve seen just in the last 24 hours, can arise suddenly, unpredictably, and from unexpected quarters. U.S. interests can be protected only with capability which is in existence and which is ready to act without delay. The events of the past day underscore also the vital need for a defense structure which not only preserves our security but provides the resources for supporting the legitimate self-defense needs of our friends and of our allies. This will be an enduring commitment as we continue with our force restructuring”.

George Bush, 2.08.1990, Aspen, Colorado

Con queste parole, a poche ore dall’invasione irachena del Kuwait, George Bush introduce le basi della nuova linea estera statunitense. La fine del Patto di Varsavia spinge gli Stati Uniti a ridefinire la propria posizione nell’ordine internazionale correggendo gli obiettivi del nuovo sistema mondiale. Nell’ottica dei suoi promotori, la strategia delineata individuerebbe l’emergere di nuove sfide nel tramonto della presunta minaccia sovietica. Infatti, la possibile anarchia del Terzo Mondo, resa più visibile nel rinnovato scenario internazionale, nasconderebbe gravi preoccupazioni. Pertanto, in virtù delle parole del Presidente, gli Stati Uniti, a partire da questo frangente storico, avrebbero il doveroso compito di modellare gli equilibri internazionali secondo la propria impostazione ideologica. Per raggiungere questo scopo, la manovra non esclude la violazione del principio di non interferenza negli affari interni dello stato: è la dottrina della global security.

Rivista più volte sotto differenti vesti, la manovra Bush rappresenta una costante della politica occidentale dalla Prima Guerra del Golfo ad oggi. In Kosovo, in Afghanistan, in Iraq ne abbiamo osservato i risvolti concreti. Una sua versione, rivista da NATO e Unione Europea, dirige oggi l’aggressione contro la Libia del Colonnello Mu’ammar al-Qadhdhāfī.

Lo Stato delle masse

Nel 1969, l’ascesa al potere del Movimento dei Liberi Ufficiali Unionisti, sancì il declino delle politiche strategiche occidentali in linea con le manovre del Presidente egiziano Gamāl ‘Abd al-Nāsir. Qadhdhāfī, leader del Movimento, assunse presto il titolo di “guida della rivoluzione”. Nei primi anni di governo creò nuove formule amministrative e, per limitare l’influenza dell’élite, diede vita ad un’organizzazione di massa, l’Unione Socialista Araba. Nel 1973, ai comitati popolari, eletti nei villaggi, nelle scuole e nelle organizzazioni, fu permesso di giocare un ruolo di rilievo nel governo locale e provinciale. Due anni più tardi, le loro attività trovarono espressione a livello nazionale nel Congresso Generale del Popolo. Questa struttura rappresentativa pose le basi per la jamahiriyyah, la “Repubblica delle masse”. Sebbene responsabile, in ultima analisi, davanti al Colonnello, la  nuova struttura burocratica includeva il Congresso, i comitati rivoluzionari e gli esponenti degli “uffici del popolo”. Sintesi tra partecipazione e controllo amministrativo, la formula  di Qadhdhāfī non aveva eguali in tutto il mondo arabo. La sua rappresentatività e le sue peculiarità lo qualificavano come una vera e propria autentica alternativa politica.

La manovra riformatrice del Colonnello venne accompagnata dall’attacco contro i privilegi economici, realizzato attraverso un programma di nazionalizzazione delle imprese private. Dopo aver dato vita a una grande impresa di ingegneria idraulica, che rispondesse al problema della siccità, elaborò un sistema finalizzato all’approvvigionamento del petrolio e del gas. In questo programma, Qadhdhāfī perseguì il suo progetto con una determinazione e una lungimiranza tale da guadagnare un ruolo di primo piano nella rispettabilità antimperialista.

L’aggressione al Colonnello

Negli ultimi anni, Qadhdhāfī era tornato nello scenario dell’onorabilità internazionale tanto da essere ricevuto con grandi onori dai governi di tutta Europa. Poi, è giunta la cosidetta “primavera araba”. E, quindi, la protesta del popolo libico.

Allo stato attuale, le manifestazioni anti-governative sembrano essere guidate, in parte, da fattori esterni i quali avrebbero approfittato del malcontento popolare allo scopo di soffocare l’autodeterminazione di un paese ricco di risorse preziose.

Per realizzare questo compito, la comunità internazionale ha redatto una fonte di legittimazione approvando la risoluzione ONU 1973, ratificata il 17  marzo del 2011. In questo modo, l’ONU ha autorizzato l’uso della forza militare allo scopo di proteggere i civili imponendo una no fly zone sui cieli libici. Ancora una volta, lo spirito alla base di questa operazione è riconducibile alla dottrina Bush. Oggi, mentre la NATO compie i suoi massacri indistintamente sui civili libici, le manifestazioni a favore di Qadhdhāfī si sono trasformate in azioni di resistenza che dipingono lo stesso come padre dell’antimperialismo e vittima del complotto NATO.

Dopo l’assassinio di Abdul Fatah Younis, comandante militare del Consiglio Nazionale di Transizione-CNT, sembrerebbe che la NATO, temendo un insuccesso della missione, abbia assunto in prima persona la direzione della rivolta attraverso l’uso di mercenari occidentali e ribelli islamisti. Il CNT, costituito da svariate componenti, è stato identificato come legittimo rappresentante del popolo libico in maniera del tutto discrezionale dalla comunità internazionale. Tuttavia, come esporrò in seguito, a queste condizioni, non sembra essere l’attore adatto a guidare la transizione in Libia.

Il Post-Qadhdhāfī visto dagli USA

Intanto, gli Stati Uniti preparano il loro post-Qadhdhāfī. Il Council of Foreign Relations[1] ha recentemente diffuso un documento, dal titolo Post-Qadhdhāfī Instability in Libya, che prospetta gli scenari possibili del futuro libico. Posto che il rapporto non ammette una continuità con il regime precedente, il think tank statunitense espone un insieme di opzioni che non sembra proiettare verso una transizione pacifica. All’interno vengono contemplate diverse possibilità: Qadhdhāfī potrebbe essere definitivamente estromesso, oppure, potrebbe giungere ad un accordo che permetta ad alcuni elementi del suo regime di partecipare al suo post o, infine, potrebbe negoziare un ruolo, più limitato, per sè o per i suoi figli. Il documento, analizzate le ipotesi, riferisce che, il persistere della presenza di  Qadhdhāfī, o dei membri della sua famiglia, potrebbe ridurre il rischio di instabilità del paese.

A tal proposito, lo studio si sofferma sulle fonti di precarietà politica che potrebbero presentarsi nel caso in cui la transizione estrometta completamente la figura del Colonnello: insurrezioni, saccheggi, guerre fratricide, criminalità diffusa. Tra queste, inoltre, non è esclusa la possibilità che i lealisti continuino la resistenza. Il documento, quindi, riconosce alle forze vicine a Qadhdhāfī un peso non indifferente. Altra questione, che fa discutere sulle posizioni attuali della NATO, è la credibilità del CNT. Lo stesso rapporto, infatti, menziona, tra gli elementi di instabilità, l’alta frammentazione interna al Consiglio, costuito da liberal-democratici, islamisti, berberi, emigrati e jihadisti.

Sulla base dell’esame del documento, l’intervento sotto l’egida NATO rappresenterebbe una possibilità per gestire il passaggio politico e per la ripresa delle esportazioni di petrolio e gas. Eppure, continua il rapporto, esistono diverse opzioni di successo. Una di queste potrebbe vedere una Libia non democratica raggiungere una condizione di stabilità. Tuttavia, la transizione potrebbe fallire producendo uno stato di confusione politica o conducendo all’instaurazione di regimi ostili all’interesse statunitense. Al riguardo, è valutata anche l’eventualità che i possibili rifugiati creino ulteriori disordini nei paesi limitrofi amplificando il clima di precarietà regionale.

Secondo quanto esposto, la tutela delle infrastrutture e delle risorse del paese, il problema delle armi e il mantenimento dell’ordine pubblico rappresentano dei doveri prioritari in tutte le possibili alternative transitorie. A tale scopo, nel documento è inclusa la possibile creazione di un governo ad interim, riconosciuto sul piano internazionale, o, ancora, un’operazione di peacekeeping. Tuttavia, qualora si presenti la necessità di soffocare un’insurrezione e prevenire possibili regimi dittatoriali, la comunità internazionale dovrebbe provvedere prendendo in esame anche l’ipotesi dell’intervento militare.  Infine, non è esclusa l’ipotesi della piena occupazione in caso di sfacelo dell’ordine pubblico e di conseguente crisi umanitaria.

In sintesi, la forma mentis delle recenti operazioni, si inserisce nel solco della global security. Il documento, infatti, non nega che il post-Qadhdhāfī possa comportare una situazione politica estremamente problematica. Il Colonnello, conquistando consensi di una buona parte della popolazione, che oggi porta avanti la resistenza contro l’occupazione NATO e inneggia a lui come ad un perseguitato delle politiche occidentali, rappresenta un elemento di stabilità per il paese. Lo stesso rapporto descrive un futuro scenario pieno di insidie e di precarietà politica, sociale ed economica. Non solo, ma ammette anche che il coinvolgimento del Colonnello nel futuro politico della Libia sia una delle poche possibilità in grado di attenuare questa fragilità. Infatti, la sua figura, in qualche modo, fornirebbe delle garanzie al popolo libico. Tanto è vero che il rapporto, nel momento in cui si spinge ad analizzare il riscontro di alternative di transizione che escludono la sua partecipazione, giunge a valutare l’ipotesi di interventi armati e di vere e proprie occupazioni Il CNT, dunque, rappresenterebbe solamente uno strumento formale per facilitare la presenza delle forze occidentali in Libia. Per tale ragione, si riconosce l’incapacità del Consiglio nel gestire la transizione attribuendo ruoli di rilievo alla comunità internazionale che, in caso di emergenza, si presenterebbe come necessaria. La situazione libica non sembra differire molto dall’attacco scatenato contro Saddām Husayn. Anche in questa occasione, infatti, si assistette ad una dura campagna demonizzatrice del raìs che intendeva giustificare l’aggressione contro la popolazione civile. L’allarme scatenato contro Saddām ricorda lo stesso copione libico. Anche le dinamiche di preparazione alla transizione non sembrano differire molto. Fonti recenti, infatti, riferiscono che la Casa Bianca abbia attivato il Libyan Information Exchange Mechanism (LIEM), un organismo simile all’Office of Reconstruction and Humanitarian Assistance (ORHA) di Baghdad. Quest’ultimo istituto, di natura privata, venne istituito sotto la coordinazione del Pentagono e fu presto assorbito dall’Autorità Provvisoria della Coalizione (CPA). A tal proposito lascia perplessi il fatto che, allo stato attuale, in Libia, si ignori la natura giuridica del CNT libico e del LIEM. Queste considerazioni dovrebbero indurci a vagliare le differenti sfaccettature delle operazioni, mascherate dalla targa diritti umani”, dove i presunti interventi umanitari sono stati responsabili di massacri e violenze. Per queste ragioni, il documento del think tank statunitense è prova del fatto che, a venti anni di distanza, lo spirito della tradizione Bush continua a forgiare la politica internazionale a difesa dello status quo dominante.


[1] Il Council on Foreign Relations-CFR è una think tank statunitense, è un’associazione privata che si occupa delle analisi della politica estera statunitense facendo da supporto al governo statunitense.

Laura Tocco è dottoranda presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Cagliari.

 

 

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A chi giova la tesi della cosiddetta “unicità” del genocidio ebraico?

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1. Faccio riferimento a due pagine del Corriere della Sera del 31 agosto e del 1° settembre 2011, con interviste di Stefano Montefiori a Pierre Nora e Claude Lanzmann, e commento dell’intellettuale di regime Pierluigi Battista. Essi si indignano per il fatto che sui manuali francesi di storia la parola “Shoah” sia stata sostituita da termini come genocidio, sterminio ed annientamento, perché temono che dietro questa vaga terminologia ci sia una strategia non certo di “negazionismo”, ma anche soltanto di relativizzazione e di “banalizzazione” (termine usato in Francia) della cosiddetta “unicità” del genocidio ebraico.

Il lettore intenda bene. Qui non si ha a che fare con una giusta, legittima e sacrosanta reazione alle tesi “negazioniste”. Qui si intende affermare la tesi mistico-religiosa della cosiddetta Unicità e Imparagonabilità del genocidio ebraico. Si è dunque all’interno di quella costellazione ideologica che a suo tempo Domenico Losurdo definì “giudeocentrismo”, che in quanto tale non ha nulla a che fare con la giudeofilia né con la giudeofobia (termine da preferire a quello di antisemitismo, visto che anche gli arabi musulmani sono semiti).

A chi giova questa follia? Non certamente alla memoria storica per le vittime innocenti. Certamente non alla prevenzione di crimini di questo tipo, prevenzione che sarebbe molto più facilitata dalla comparabilità e dall’analogia storica piuttosto che da una mistica unicità. E allora a chi giova?

2. Leggo che la parola “Shoah” in ebraico significa catastrofe, ed indica il genocidio degli ebrei ad opera dei nazisti. E’ preferito al termine “Olocausto” per le implicazioni religiose di quest’ultima parola. Nella lingua armena il termine corrispondente a Shoah, olocausto e genocidio è connotato come Metz Yeghern (Grande Male). Si può visitare il memoriale a Erevan, così come lo Yad Vashem in Israele. Nessun armeno si inquieterà se per caso il termine di genocidio non viene connotato come Metz Yeghern. Ciò che conta è che il genocidio armeno sia riconosciuto come tale, ma gli armeni non pretendono l’Unicità. Perché gli ebrei la pretendono?

3. Una risposta cerca di darla la giornalista ebrea israeliana Amira Hass (Cfr. “Internazionale” n. 582, marzo 2005). Scrive la Hass: “Non ho guardato alla televisione la cerimonia per l’inaugurazione del nuovo museo dell’Olocausto a Gerusalemme. Per quanto potesse essere commovente ascoltare testimonianze così simili a quelle dei miei genitori, ho preferito vedere un film. Non volevo assistere al modo in cui lo stato di Israele ha sfruttato la storia della mia famiglia e del mio popolo per una grande campagna di pubbliche relazioni … la morte di sei milioni di ebrei è la più grande risorsa diplomatica di Israele”.

Non si poteva dire meglio. Esattamente come Amira Hass, quando cominciano alla televisione le cerimonie sulla Memoria cambio immediatamente canale, e spero che questa onesta ammissione non venga presa per una manifestazione di antisemitismo latente, inconscio, eccetera. Riconosco totalmente il “fatto” del genocidio ebraico. Riconosco le tesi storiografiche sulla distruzione dell’ebraismo europeo. Come molti della mia generazione, mi sono formato moralmente su “Se questo è un uomo” di Primo Levi. E’ quasi umiliante dover ribadire queste ovvietà. Non sopporto, e ho il diritto di non sopportarlo, la cerimonializzazione religiosa della legittimazione del sionismo fatta passare per rispetto della memoria storica.

E tuttavia, l’impostazione di Amira Hass non mi convince del tutto. Possibile che tutto questo ambaradan sia rivolto solo a legittimare la costruzione di numerose colonie sioniste in Cisgiordania, la cacciata di contadini palestinesi e la distruzione dei loro ulivi? Non si spara con un cannone contro una mosca. Ci deve essere dell’altro. Vediamo cosa, ma prima apriamo due parentesi.

4. A fine Ottocento, la corrente filosofica chiamata “storicismo” stabilì la differenza fra discipline dette nomotetiche e discipline dette idiografiche. Le discipline nomotetiche (fisica, chimica, biologia, eccetera) stabiliscono “leggi” matematizzabili e sperimentabili, e quindi falsificabili, nei rapporti tra fenomeni. Le discipline idiografiche (storia, storiografia, eccetera) indagano il particolare storico irripetibile (in greco idion), per cui ogni avvenimento è unico e fa storia a sé.

In questa sede non ci interessa discutere se e in che misura gli storicisti avessero ragione o torto contro i loro avversari positivisti e marxisti positivisti. Qui interessa solo ricordare che ogni fenomeno storico per principio è unico, e quindi idion. Anche il genocidio ebraico, come del resto quello armeno, è quindi unico, in quanto avvenuto con modalità uniche (ad esempio il carattere industriale delle deportazioni e l’accompagnamento ideologico razzista, eccetera). Ma non è questa l’unicità storiografica cui vanno in cerca Nora e Lanzmann, ed il loro schiavetto ideologico Battista. Per costoro Unico significa Superiore a qualunque altro, Imparagonabile, così come per i religiosi Mosè, Gesù e Maometto sono unici e imparagonabili. A chi giova?

5. A suo tempo, mi sono occupato analiticamente del genocidio degli armeni, che ho studiato con cura (Cfr. “Eurasia”, 3, 2009). Non ho qui lo spazio per motivarlo, ma assicuro il lettore che si tratta di un genocidio al 100%, qualunque siano le categorie e i parametri concettuali usati per definire il fenomeno.

Il testo principale di riferimento è quello di Vahakn N. Dadrian, Storia del genocidio armeno, Guerini e Associati, 2003. Anche molti storici turchi concordano con la tesi del genocidio, fino a poco tempo fa ancora punita per legge in Turchia. Ebbene, c’è anche un testo di un certo Guenter Lewy (Il massacro degli armeni. Un genocidio controverso) che con mille artifici sofistici estratti dalla storiografia turca (lingua che peraltro Lewy non conosce, come non conosce l’armeno – immaginiamoci uno storico americanista che non legge l’inglese!) nega in tutti i modi che ci sia stato un genocidio armeno, e parla solo di massacro o di serie di massacri. Che cosa succederebbe se uno storico europeo negasse il genocidio ebraico, e concedesse soltanto che ci sono stati una serie di massacri? Si griderebbe all’antisemitismo e si farebbe anche appello a leggi contro il negazionismo. Invece questo signore può scrivere quello che vuole ed essere pubblicato da Einaudi, semplicemente perché gli armeni non sono protetti dalla diffamazione.

Si può andare avanti così? A mio avviso no. Vittime possono diventare a lungo termine gli ebrei stessi. La palese adozione di due pesi e due misure non può che ingenerare fastidio, irritazione, ed infine rivolta contro il Politicamente Corretto. Oggi il Politicamente Corretto dispone di un vantaggio basato sul silenziamento conformistico e totalitario di tutte le voci dissenzienti, ma questo non potrà durare per sempre. Ma arriviamo al cuore del problema.

6. Ho ricordato poco sopra che secondo ebrei onesti ed illuminati come Amira Hass o l’americano Norman Finkelstein, il genocidio ebraico è ideologicamente utilizzato per legittimare non solo il sionismo in sé (fu anche una tesi di Roger Garaudy, ingiustamente accusato di antisemitismo), ma anche la continua violazione del diritto internazionale (insediamenti in Cisgiordania, eccetera). Questo mi sembra ovvio, e può essere negato soltanto dal cinismo, dalla malafede e dalla disinformazione. E tuttavia, non sta ancora qui il cuore della tesi religiosa della Unicità Imparagonabile.

Ci può aiutare il corsivista del Corriere della Sera Pierluigi Battista. Non dimentichiamoci che il Corriere della Sera, in piena continuità tra Ferruccio De Bortoli e Paolo Mieli, è stato all’origine della santificazione dell’anti-islamismo di Oriana Fallaci, fenomeno simile (anche se ovviamente non eguale, idion) alle campagne anti-ebraiche di Giovanni Preziosi degli anni Trenta in cui si scrisse che, anche ammesso che i Protocolli dei Savi di Sion fossero un falso commissionato dalla polizia zarista, questo non conta nulla, perché il contenuto resta vero!

Scrive Battista, nel contesto della sua approvazione dello sdegno di Nora e Lanzmann: “Il rimpicciolimento simbolico di Auschwitz è l’esito doloroso e paradossale di un’Europa che dimentica facilmente l’orrore da cui è venuta”. Riflettiamo su questa frase assiro-babilonese, basata sulla concezione assiro-babilonese (e nazista) di responsabilità collettiva, lontanissima dalla concezione greca di responsabilità individuale (ogni persona ha infatti un’anima propria, psychè).

Di quale Europa va cianciando Battista? Personalmente ho 68 anni, essendo nato nel 1943, e non mi considero assolutamente responsabile per l’orrore hitleriano e per altri orrori consimili. Io non vengo da nessun “orrore”, per usare il linguaggio ieratico di Battista. Ognuno è responsabile solo per le proprie azioni. Gli ultimi nazisti vivi sono novantenni. Solo chi è condannato all’ergastolo ha scritto: “Fine Pena, Mai”. Quando finirà l’espiazione per l’Europa? Settant’anni non sono sufficienti? I mongoli a Baghdad ottocento anni fa hanno passato a fil di spada mezzo milione di persone. Forse che sbarcando a Ulan Bator devo ricordarlo al doganiere facendogli abbassare il capo?

Lo scopo di Battista è quello di inchiodare per sempre l’Europa al suo presunto “peccato originale”, in modo che venga punita in saecula saeculorum con le basi nucleari americane e con la perdita di ogni indipendenza politica e culturale. Fatto che con la memoria storica propriamente detta non ha nessun rapporto.

Torino, 2 settembre 2011

 

* Costanzo Preve è un filosofo e saggista italiano, frequente contributore alla rivista “Eurasia”

 

 

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