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Capire le rivolte arabe

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Si è tenuta a Torino venerdì 8 luglio 2011, alle ore 21.15, la conferenza “Capire le rivolte arabe” presso il Centro Culturale Italo-Arabo “Dar Al Hikma” di Via Fiochetto 15. Sono intervenuti come relatori: Daniele Scalea (segretario scientifico dell’IsAG, redattore di “Eurasia”, co-autore di Capire le rivolte arabe. Alle origini del fenomeno rivoluzionario), Enrico Galoppini (redattore di “Eurasia”, per anni ha insegnato Storia dei paesi islamici nelle università italiane), Giovanni Andriolo (ricercatore dell’IsAG). 

L’organizzazione è stata a cura dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG), in collaborazione col Centro Culturale Italo-Arabo “Dar Al Hikma”. L’evento rientra nel Ciclo 2010-2011 dei Seminari di Eurasia.

 


Economia e politica portoghese nel contesto europeo

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Gli effetti della crisi economica mondiale si stanno riversando sul Portogallo con particolare veemenza, provocando conseguenze gravi sia a livello finanziario sia politico, in un contesto nel quale al rischio di bancarotta, si è aggiunta una crisi politica che ha messo in pericolo la fragile stabilità del Paese più occidentale d’Europa. Dopo le dimissioni del governo socialista a seguito della bocciatura parlamentare dell’ultimo piano di risanamento economico, le elezioni anticipate di giugno hanno trasmesso un primo segnale di speranza: la creazione di un governo che può contare sulla maggioranza in Parlamento. Nel frattempo Lisbona, così come Atene e Dublino in precedenza, ha chiesto l’assistenza finanziaria dell’Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale (FMI). Ora spetta al nuovo governo socialdemocratico, eletto nel corso delle consultazioni anticipate, l’arduo compito di gestire l’attuazione del programma connesso agli aiuti, di dare stabilità al Paese, di riconquistare la fiducia dei mercati internazionali, e soprattutto quella dei cittadini portoghesi.

 

Lo status dell’economia portoghese e gli aiuti

Per comprendere la gravità della situazione è necessario specificare brevemente i dati economici di maggiore rilievo, che riportano l’immagine di un’economia messa in ginocchio dalla difficile congiuntura economica mondiale e da una fragilità intrinseca del sistema, resa evidente dalla scarsa produttività, dall’elevato debito pubblico e dalla mancanza di competitività dell’economia portoghese. E in effetti, la crescita dell’economia lusitana ha conosciuto negli ultimi tre anni un rallentamento vertiginoso, tale da raggiungere quota zero nel primo trimestre del 2011, mentre il debito pubblico registrato nel 2010 era pari all’86% del PIL, dunque nettamente oltre il limite del 60% fissato dall’Unione Europea nel Patto di Stabilità e Crescita (PSC). Solo il deficit di bilancio, assestatosi lo scorso anno al 7,3% del PIL, è diminuito rispetto ai valori registrati nel 2009 (9,4%), ma rimane tuttavia superiore alle disposizioni del Patto, che prevede un tetto massimo del 3%. Particolarmente allarmante è anche la situazione del mercato del lavoro, con la disoccupazione che si aggira intorno al 10% soprattutto tra i giovani delle regioni a Nord e a Sud del Paese; mentre il declassamento del rating del Portogallo e la perdita di valore dei titoli di Stato documentano i gravi problemi finanziari, in un momento nel quale, oltretutto, i problemi di politica interna rischiano di approfondire ancor più la sfiducia delle istituzioni e dei mercati finanziari nei confronti del Portogallo. Ad aggravare una crisi già così radicata e diffusa nelle diverse maglie del sistema economico, si aggiunge infine il fatto che anche l’economia spagnola versa in condizioni critiche, circostanza preoccupante dal momento che è proprio Madrid il principale partner commerciale di Lisbona e proprio presso le banche spagnole è depositato circa un terzo dei titoli di Stato portoghesi.

L’assistenza finanziaria richiesta dal premier dimissionario dopo la bocciatura della manovra di risanamento presentata in Parlamento, coincide ora con l’ultima possibilità, a lungo rimandata, di risanare i conti pubblici e rilanciare la crescita del Paese. Gli aiuti ammontano complessivamente a 78 miliardi di Euro, una parte, pari a 26 miliardi, finanziata dal FMI, a cui il Portogallo ha chiesto aiuto già due volte in passato, e la restante quota fornita dall’Unione Europea nell’ambito del Meccanismo Europeo di Stabilizzazione Finanziaria, istituito nel maggio 2010 al fine di offrire assistenza agli Stati membri che subiscono gravi perturbazioni finanziarie.

Ascesa e declino di Sócrates

José Sócrates, premier uscente, governava il Portogallo da sei anni: una prima legislatura a partire dal 2005, anno in cui il Partito Socialista conquistò il 45% dei voti alle elezioni legislative; un secondo mandato, non concluso, dopo la conferma elettorale nel 2009. Le linee fondamentali dei governi guidati da Sócrates si rifacevano fondamentalmente a obiettivi quali l’equità sociale, la modernizzazione del Paese, la promozione della crescita, la riduzione dei costi della Pubblica Amministrazione, il tutto unito a un orientamento generale molto vicino a quello adottato in Spagna da Zapatero. Tra le altre, le riforme attuate da Sócrates che più rimarranno incise nella storia del Portogallo sono la legalizzazione dell’aborto nel 2007 e dei matrimoni omosessuali nel 2010: segnali di svolta molto netti per un Paese per certi versi molto conservatore e di grande tradizione cattolica.

Il piano che, respinto dal Parlamento, ha provocato le dimissioni dell’ex capo dell’esecutivo, era l’ultima versione del Programma di Stabilità e Crescita (PEC), elaborato per risollevare l’economia nazionale e varato inizialmente nel 2010 per poi essere modificato per tre volte nel corso dell’ultimo anno, fino a giungere alla sua quarta versione (PEC IV). Inizialmente sostenuta dalle forze di opposizione, la manovra era stata accolta dalle contestazioni dei sindacati, sfociate nello sciopero generale del 24 novembre 2010 e in numerose altre azioni di protesta condotte soprattutto dai lavoratori del settore dei trasporti. Con le misure di austerità contenute nel piano anticrisi, il Partito socialista aveva sperato di dimezzare il deficit di bilancio ed evitare il ricorso ai programmi di assistenza finanziaria previsti nel quadro europeo.

Nella crisi politica seguita alla bocciatura del Programma, oltre alla responsabilità dell’esecutivo socialista, in primis per non aver saputo creare consenso intorno al piano di risanamento, va considerata anche la condotta di quelli che fino a poche settimane fa erano i principali partiti di opposizione. Con questi ultimi ci si riferisce in particolare al Partito Socialdemocratico (PSD) e al Centro Democratico e Sociale – Partito Popolare (CDS-PP), che hanno votato contro il programma PEC IV, giudicandolo ingiusto nei confronti dei cittadini, dopo avere appoggiato le precedenti manovre del governo, di cui quest’ultima era solo una rielaborazione. Alcuni critici hanno attribuito tale scelta a un calcolo politico, piuttosto che a reali motivazioni connesse con la linea seguita dal governo, accusando Passos Coelho (leader del PSD) e Portas (leader del PP) di aver fatto leva su un diffuso sentimento di insoddisfazione nei confronti dell’austerity, aggiungendo alla lista delle difficoltà del Paese una crisi politica che si pone come un ulteriore, ennesimo elemento di destabilizzazione.

 

Il governo Passos Coelho

La vittoria dei partiti di destra ha portato alla costituzione di un governo di coalizione tra il PSD, che ha ottenuto il 39% dei voti, e il CDS-PP, che con l’11,7% delle preferenze conquistate, consente al governo di avere la maggioranza assoluta dei seggi nel Parlamento monocamerale portoghese. Ed è proprio questo un primo segnale positivo in un momento nel quale più che mai la stabilità, la coesione e la condivisione degli obiettivi fondamentali sono esigenze irrinunciabili in un Paese che ha bisogno di solide intese parlamentari e di stabilire tra le forze politiche un rapporto di collaborazione costruttivo. Nel perseguire questi scopi, Passos Coelho ha già due circostanze favorevoli dalla sua parte: la maggioranza assoluta in Parlamento su cui può contare il governo e la presenza di un Presidente della Repubblica di orientamento socialdemocratico, e dunque politicamente affine all’esecutivo. Si tratta di vantaggi non di poco conto, di cui Sócrates non godeva, e che possono potenzialmente fare la differenza rispetto alla precedente gestione del governo.

Il nuovo premier, mantenendo le promesse fatte durante la campagna elettorale, ha formato un governo a ranghi ridotti: undici ministri contro i sedici della precedente amministrazione, una scelta, almeno sulla carta, coerente e adeguata al momento storico che il Portogallo sta vivendo, nel quale il taglio dei costi della politica rappresenta un segnale importante. Il Consiglio dei Ministri così costituito annovera tra i suoi membri quattro tecnici indipendenti, ai quali sono stati affidati Ministeri di assoluta rilevanza, tra cui il Ministero delle Finanze, che è stato assegnato a Vítor Gaspar, personalità di spicco nel mondo economico per essere stato consigliere della Commissione Europea e della Banca Centrale Europea (BCE).

 

Il sistema politico portoghese

Con le recenti consultazioni elettorali, i due principali partiti lusitani si danno un’altra volta il cambio: infatti, sin dal 1976, anno dell’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Portoghese e dell’inizio della Terza Repubblica, il PS e il PSD dominano il panorama politico nazionale, avvicendandosi alla guida del governo e alla Presidenza della Repubblica. Un’alternanza favorita dal metodo elettorale vigente in Portogallo, il quale essendo proporzionale senza soglia di sbarramento assicura sì la rappresentatività, nel senso di una composizione parlamentare quanto più possibile fedele all’orientamento degli elettori. Allo stesso tempo però, il metodo adottato per tramutare i voti in seggi, denominato “metodo d’Hondt”, ha l’effetto di sovra-rappresentare i grandi partiti, conseguenza che può agevolare il delinearsi di un sistema bipolare.

Al di là delle divergenze che oggi le oppongono, le due principali formazioni politiche portoghesi di fatto condividono una comune estrazione socialdemocratica, che del resto il nome di entrambi denota palesemente, nonché un sostrato comune di valori. Fondati tra il 1973 e il 1974, nel periodo immediatamente successivo alla fine dell’Estado Novo, sia il PS sia il PSD si posero inizialmente come partiti di sinistra, per poi successivamente spostarsi su altre posizioni. Il PS ha assunto poi nel corso degli anni un orientamento di sinistra più moderato e centrista, mentre il PSD, per lo più di natura conservatrice e liberale, vide nel consolidamento dello Stato democratico a seguito della Rivoluzione dei Garofani del 25 aprile 1974, il rafforzarsi dei movimenti marxisti e comunisti e assunse un’identità di centro-destra. Le due forze politiche non si scontrano quanto ai fondamenti della politica estera del Paese e vedono entrambe nell’Unione Europea e nello sviluppo delle relazioni con i Paesi lusofoni i punti di riferimento per rafforzare il peso del Portogallo a livello internazionale.

 

Le sfide del nuovo governo

Il nuovo esecutivo giunge al potere in un contesto di austerità, vincolato al rispetto del programma stilato dalla Commissione Europea, dalla Banca Centrale Europea e dal FMI – la cosiddetta troika -, le cui rigide disposizioni il Portogallo è chiamato a rispettare nel corso dei prossimi anni, al fine di garantire il risanamento dell’economia e il regolare rimborso del debito. Il piano mira sostanzialmente a ridurre il deficit fiscale, fino a giungere al 3% del PIL nel 2013, a stimolare la crescita, stabilizzare il sistema finanziario e ridurre il debito pubblico, attraverso riforme strutturali e interventi quali la privatizzazione di alcune imprese a partecipazione statale, prima fra tutte la compagnia aerea nazionale TAP e le società elettriche EDP e REN.

Passos Coelho è quindi di fatto limitato nella propria di libertà di elaborare strategie e politiche proprie, essendo stato eletto in un momento nel quale i cittadini hanno scelto sostanzialmente quale parte dovesse gestire il programma connesso agli aiuti e dunque guidare il Portogallo attraverso un percorso per molti versi prestabilito, se non altro dal punto di vista delle riforme economiche. La sfida che Passos Coelho dovrà affrontare è proprio quella di riuscire a presentare il programma stabilito dalla troika come un sacrificio ineluttabile non soltanto per superare l’emergenza, ma anche e soprattutto, ragionando in un’ottica di lungo periodo, per modificare le strutture economiche in modo da garantire stabilità e crescita, condizioni centrali prima di tutto per il benessere della popolazione. La riuscita del piano e l’impatto che a lungo termine avrà sui cittadini, in termini di fiducia nella politica, dipenderanno dalla bravura che dimostrerà il governo nel presentare le manovre in maniera comprensibile, chiarendone le conseguenze ed evitando di strumentalizzare a fini politici una questione dalla quale dipende il futuro dell’intero Paese. Non solo, la chiarezza su questi punti avrebbe anche l’effetto di smorzare un’eventuale retorica euroscettica, che consiste nell’imputare alle politiche scelte a Bruxelles e all’introduzione dell’Euro l’origine dei problemi del Paese.

Nonostante il netto successo conseguito, Passos Coelho dovrà fare i conti anche con un fenomeno, quello dell’astensionismo elettorale, che ha raggiunto una percentuale pari al 53,48% durante le elezioni presidenziali di febbraio e del 41,09% alle legislative di giugno. In quest’ultimo caso, l’astensionismo ha superato la percentuale di voti ottenuta dal PSD, formazione più votata: una situazione per descrivere la quale alcuni giornali hanno parlato di vittoria del “partito dell’astensione”. Si tratta di dati particolarmente allarmanti, che  attestano l’approfondirsi della distanza tra rappresentanti e rappresentati, quasi a far pensare a una diffusa sfiducia nelle capacità della politica di far fronte ai problemi concreti della popolazione.

 

L’affermazione delle destre in Europa

Il risultato elettorale portoghese va analizzato inoltre anche alla luce di quanto sta avvenendo nella grande maggioranza degli Stati membri dell’Unione Europea, dove si registra una sempre più netta avanzata dei partiti di destra. A ben vedere, infatti, i Paesi ancora guidati da esecutivi di centro sinistra si contano sulle dita di una mano: Spagna, Grecia, Slovenia, Malta e Cipro. Un così netto cambio di rotta è testimoniato da quanto sta avvenendo in Ungheria, dallo scorso anno guidata da un governo di destra che ha dalla sua parte due terzi dei seggi del Parlamento nazionale, e in Finlandia, dove le recenti consultazioni hanno segnato un successo senza precedenti per il partito dei Veri Finlandesi, antieuropeista di estrema destra, che per altro è stato il maggiore ostacolo all’approvazione degli aiuti comunitari al Portogallo. In entrambi i casi, l’elettorato ha punito i governi precedenti, a dimostrazione del fatto che sia nei Paesi dell’Euro debole, come l’Ungheria, sia nei Paesi stabili dal punto di vista finanziario, come la Finlandia, prevale un atteggiamento di rifiuto nei confronti delle limitazioni stabilite da Bruxelles. Nei primi, il rifiuto si fonda sull’idea secondo la quale le imposizioni che l’Unione Europea pone in materia economica consistano in un’ingerenza nelle questioni nazionali, che impedisce un autonomo sviluppo del Paese e costringe a ricorrere ad aiuti con conseguenti sacrifici per la popolazione. Quanto invece agli Stati virtuosi, il risentimento origina allo stesso modo dagli obblighi derivanti dalla membership comunitaria, in particolare dall’onere di partecipare allo sforzo di salvataggio dei partner in difficoltà. Al tempo della crisi economica, in definitiva, i membri dell’Unione Europea sembrano riscoprire i confini nazionali: chi per difendersi da possibili contagi, chi per tentare di deviare le responsabilità della crisi verso entità esterne. Resta tuttavia il fatto che la riuscita della manovra di risanamento, come dimostra ciò che sta accadendo in Grecia, dove è stata recentemente approvata un’altra tranche di aiuti, non è affatto una certezza. Per scongiurare il rischio di seguire Atene in fondo al baratro, il nuovo governo dovrà dare prova di stabilità e coerenza, una sfida davvero difficile soprattutto dopo che in questi giorni le agenzie di rating hanno declassato ulteriormente il debito del Portogallo. Ciò a cui deve aggrapparsi Lisbona nel momento attuale è soprattutto alla fiducia nelle istituzioni nazionali ed europee e al fatto che, nonostante la crisi politica appena conclusa, i risultati elettorali abbiano  creato le condizioni oggettive per poter rispettare gli impegni presi con Fmi e Unione Europea e per poter dare un nuovo slancio a un Paese che sembra quasi essersi rassegnato al suo destino.

 

* Martina Franco è Dottoressa in Scienze Internazionali e Diplomatiche (Università di Trieste)

 

Il mondo arabo e le rivolte: eterogeneità e complessità

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La sera di venerdì 8 luglio si è tenuta presso il Centro Culturale Italo-Arabo “Dar Al Hikma” la conferenza “Capire le rivolte arabe”, organizzata dall’IsAG nell’ambito del Ciclo 2010-2011 dei Seminari di Eurasia. Sono intervenuti come relatori Daniele Scalea (segretario scientifico IsAG e co-autore del libro Capire le rivolte arabe), Enrico Galoppini (redattore di “Eurasia”) e Giovanni Andriolo (ricercatore IsAG). Si riporta di seguito la trascrizione del suo intervento.

 

 

Capire le rivolte arabe è un proposito ambizioso.

Ed è un proposito così ambizioso poiché per capire le rivolte arabe è necessario un requisito fondamentale: l’aver capito i paesi arabi.

Le rivolte arabe infatti esplodono nel 2011, ma in realtà esse nascono nei decenni precedenti, nascono nei decenni precedenti i fenomeni e le dinamiche che danno origine oggi alle rivolte arabe.

 

Da quando le rivolte arabe sono scoppiate, i mezzi di informazione hanno viaggiato su due binari: alcuni, hanno enfatizzato il carattere eroico e quasi romanzesco delle rivolte, dipingendole come movimenti popolari spontanei che attraverso l’autorganizzazione e l’uso di mezzi tecnologici (twitter?) hanno rovesciato o stanno rovesciando i regimi tirannici che da decenni li opprimono.

 

Un altro filone battuto dalla maggior parte dei canali d’informazione ha seguito la linea della diffusione di notizie esagerate di proposito, dai caratteri grotteschi, in modo tale da favorire una clima di opinione pubblica favorevole alle rivolte e ai rovesciamenti di regime. (Un esempio, la notizia della pratica, da parte degli ufficiali di Gheddafi, di distribuire alle truppe dosi di Viagra, in modo tale da risvegliare gli istinti dei combattenti e spingerli ad effettuare stupri punitivi sulla popolazione femminile degli insorti.) Su questo punto, anche giornali arabi molto noti hanno le proprie responsabilità.

 

Alla luce di tutto questo, occorre fare ordine sulla questione, e soprattutto, occorre approcciare l’analisi delle rivolte arabe attraverso due filtri importantissimi.

Per cominciare, occorre avere ben chiara in mente la nozione di paesi arabi, prima di parlare delle rivolte arabe.

I paesi arabi infatti non sono, come spesso i mezzi d’informazione o alcuni analisti sottintendono, un blocco unico, omogeneo. Al contrario, l’insieme dei paesi arabi costituisce un micro (macro) cosmo dai confini e dalle caratteristiche inquadrabili e definibili a fatica.

Convenzionalmente, i paesi arabi sono ventidue, distesi su due continenti e su almeno tre regioni del mondo. Sono accomunati da una lingua quasi comune, da maggioranza di popolazione aderente ad un credo religioso, l’Islam, ma con fortissimi frazionamenti al suo interno, e dalla condivisione, almeno teorica o di facciata, di alcune cause comuni (la più importante, la liberazione della Palestina). Di contro, le differenze sono molte, e sono di tipo storico, culturale, climatico e ambientale, economico, talvolta linguistico.

Le società dei paesi arabi sono diverse da paese a paese, hanno composizioni differenti, sono plasmate su esperienze storiche e culturali in alcuni casi profondamente differenti.

Ne deriva che le rivolte che in diversi di questi paesi stanno infuriando o si sono già consumate nell’anno in corso, possono essere difficilmente accomunate, se non raggruppandole per semplicità di analisi con un aggettivo, “arabe”, che diventa quasi arbitrario come arbitraria può essere considerata la definizione di “paesi arabi”. Per questo motivo, risulta difficile, impossibile, capire adeguatamente le rivolte arabe senza scinderle l’una dall’altra, senza premettere che si tratta di un insieme di rivolte, ognuna nata da caratteristiche intrinseche del paese in cui si svolge, ognuna comprensibile soltanto se inquadrata nel suo proprio contesto politico sociale.

 

Ad un secondo livello di lettura, poi, capire i paesi arabi, e conseguentemente le rivolte arabe, presuppone di avere ben chiaro anche quale sia l’intreccio di legami, influssi, dinamiche che operano all’interno dei singoli paesi ancor prima che le rivolte nascano, e come questi influenzino non soltanto la vita di ogni singolo paese arabo, ma anche il nascere (o il non nascere) di eventi critici come una rivolta. Bisogna inoltre aver chiaro per ogni paese come le dinamiche interne si svolgano in accordo con l’insieme di interessi e ambizioni che forze esterne fanno valere e pesare nel contesto dei singoli stati. Bisogna aver chiaro, in ultima analisi, quale ruolo ogni singolo paese arabo giochi all’interno dello scacchiere geopolitico globale, e di come il nascere o il non nascere di una rivolta, così come le caratteristiche che la plasmano, possa mutare questo ruolo e, di conseguenza, l’intero sistema del micro (o macro) cosmo arabo.

In questo senso, può essere utile individuare dei gruppi di paesi a seconda del posizionamento che ognuno di essi ha assunto a livello internazionale, nei confronti delle maggiori potenze globali, in primis gli Stati Uniti e il sistema NATO da questi diretto. L’allineamento o il disallineamento con un tale sistema finora dominante caratterizza e plasma indubbiamente il ruolo che i singoli paesi detengono a livello globale, la loro fama internazionale, i loro governanti, i loro interscambi commerciali e la loro economia.

La divisione del mondo in paesi buoni e cattivi, i cosiddetti “Stati canaglia”, espressione coniata negli Stati Uniti, e in uso da più di trent’anni, indica in ultima analisi questo: una suddivisione arbitraria dei paesi arabi (e non solo) a seconda del loro grado di allineamento con le potenze euroatlantiche dominanti.

Pertanto, le rivolte arabe assumono motivazioni e significati totalmente diversi a seconda dell’allineamento dei singoli paesi precedente alla rivolta stessa.

 

Così in Tunisia, il regime di Ben Ali, voluto e sostenuto dal sistema euroatlantico (e in cui l’Italia ha giocato a suo tempo un ruolo fondamentale), non è riuscito a resistere al malcontento della popolazione, sempre più spossata da disoccupazione e crescenti costi dei generi alimentari di prima necessità.

 

In Egitto la situazione è più complessa. L’Egitto era una pedina fondamentale nel sistema di sicurezza edificato dagli Stati Uniti nell’area. Il Rais Mubarak, definito spesso il “Faraone”, metafora che rende bene l’idea sia degli smisurati poteri che egli esercitava sia della vetustà del suo governo, era tra i buoni, e dai buoni riceveva miliardi di dollari l’anno per mantenere in piedi l’apparato militare che dal 1952, anno della rivolta dei Generali Liberi, detiene di fatto il potere nel paese. Le proteste in Egitto, da qualunque fonte abbiano tratto origine, hanno suggerito all’entourage militare, aiutato nella decisione dall’Amministrazione Obama, la soluzione di una transizione pacifica: cambiare poco affinché non cambi nulla. In attesa delle elezioni presidenziali di settembre, il potere è ancora saldamente in mano ai generali, gli stessi che avevano favorito, trent’anni fa, la salita al potere del “Faraone” e gli stessi che, probabilmente, agevoleranno l’elezione di un nuovo “buono” con cui perpetrare il proprio potere.

 

In Libia invece la situazione è totalmente diversa. La rivolta infatti non ha carattere popolare (o non pretende di dimostrarsi tale) come in Egitto e Tunisia, ma si innesta nelle dinamiche locali di un frazionamento regionale non ancora superato. Le due facce della Libia, la Tripolitania e la Cirenaica, non sono mai state, malgrado gli sforzi del governo libico, un solo paese. Su questo solco, su questa spaccatura si insinua la radice del caso libico. Inoltre, la presenza pluridecennale sulla scena di un personaggio controverso come Muammar Gheddafi non può che complicare un simile scenario. Gheddafi, da sempre, è tra i cattivi. Gheddafi è un personaggio scomodo, sia per le potenze euroatlantiche sia per i paesi arabi loro alleati. Indipendente da tutti, smanioso di potenza, forte degli introiti garantiti dalle risorse naturali di cui il suo paese è ricco, Gheddafi resta al potere per quarant’anni senza mai piegarsi al volere euroatlantico. Nessuna occasione migliore, per il sistema dei buoni, di un’ondata di rivolte su tutta la regione per fomentare i movimenti indipendentisti della Cirenaica alla ribellione. E quando questi si dovessero trovare in difficoltà di fronte alla strenua resistenza del Colonnello, ecco in soccorso il sistema, con campagne mediatiche, minacce e tanto di risoluzioni ONU a giustificare internazionalmente un intervento diretto. Perché, a ben vedere, l’intervento diretto si è avuto contro una persona, Gheddafi, che non poteva essere convinto dal sistema a mollare, come Mubarak e Ben Ali, e la cui successione, soprattutto, non poteva essere stabilita dal sistema stesso, come in Egitto e in Tunisia.

In Libia, quindi, stiamo assistendo al tentativo, da parte del sistema dei buoni, di risolvere un problema, Gheddafi, che da quarant’anni incombe e di ottenere contemporaneamente il controllo su altre riserve di gas e petrolio, quelle libiche appunto.

Non bisogna certo dimenticare che i sistemi di Gheddafi sono stati negli ultimi decenni tutt’altro che democratici e non sanguinari, ma, a quanto sembra, nemmeno Ben Ali o Mubarak risultano esenti da simili critiche.

 

E per restare in tema, passando al versante asiatico del mondo arabo, si arriva alla Penisola Araba. L’Arabia Saudita costituisce il secondo pilastro su cui si basa (o si basava) il sistema di sicurezza euroatlantico nel Vicino Oriente. Dei buoni, insomma, i cui metodi di governo erano secondi, in quando a chiusura e repressione, soltanto all’Afghanistan dei Talebani. Con la caduta di questi, i Saud ottengono la prima posizione in questa speciale classifica. Eppure, il sistema euroatlantico non sembra particolarmente scandalizzato da questo notevole primato. Anche perché l’Arabia Saudita, oltre ad essere un buono, è pure un buono ricco, di risorse, di investimenti nei posti giusti, e di liquidità. Anche in Arabia Saudita, a marzo, ci sono state delle proteste. Questa volta, però, non di tipo popolare né regionalistico, bensì di tipo settario. La comunità sciita, minoranza all’interno del paese, ha effettuato alcune dimostrazioni in diverse città. La copertura mediatica internazionale degli eventi non è stata così capillare come avvenuto altrove, e le rivolte sembrano per il momento placate dagli apparati di sicurezza dei Saud. Non contenti di questi successi, i Saud hanno poi deciso di intervenire nel vicino Bahrein, un altro paese governato da buoni, dove la rivolta degli sciiti, qui maggioranza nel paese, contro il governo sunnita sembrava prendere piede. L’intervento dell’esercito saudita in Bahrein ha evitato il collasso della famiglia regnante, ma non ha certamente sopito gli animi. Eppure, la diffusione di filmati, che ritraevano le forze governative dal Bahrein abbattere a colpi d’arma da fuoco manifestanti disarmati, non ha generato lo stesso moto di sdegno, nel mondo euro atlantico, né lo stesso intervento delle Nazioni Unite.

 

L’Arabia Saudita, poi, si è impegnata nella composizione, tramite il GCC, della crisi yemenita. Qui, elementi di malcontento interno, così come le spinte al rovesciamento del governo di Saleh da parte delle diverse tribù che compongono questo frastagliato paese, hanno portato al dilagare di proteste e rivolte. Anche in questo caso, siamo sicuri che l’Arabia Saudita, divenuta una specie di NATO della Penisola Araba, saprà conservare lo status quo, anche qualora ci dovesse essere una transizione dei poteri.

 

Infine la Siria della famiglia Assad, un altro dei cattivi, uno “Stato canaglia” tra i più preoccupanti per il sistema euroatlantico. Con una duplice aggravante: da un lato la sua vicinanza politica con l’Iran, la “canaglia” per eccellenza, dall’altro lo stato di conflitto, nonché la vicinanza geografica, con lo Stato di Israele, e la presenza di ferite ancora aperte dai tempi della Guerra dei Sei Giorni (Alture del Golan). La Siria è un altro paese scomodo, al pari della Libia, ma, per sua fortuna, privo di preziose risorse naturali. L’origine delle rivolte in Siria ha aspetti non del tutto chiari, e le notizie che arrivano da Damasco sono tutt’altro che attendibili. Certamente, il regime degli Assad conta all’interno del paese diversi nemici, ma anche all’esterno le forze ostili sono capaci e determinate. Un quadro della situazione può essere solamente desunto dall’insieme di notizie e testimonianze che fuoriescono quotidianamente, e la verità può essere attualmente soltanto abbozzata attraverso la confutazione, quando le contraddizioni siano palesi, delle notizie diffuse dai mezzi d’informazione.

 

Si sono verificate rivolte e manifestazioni di diversa entità, nel 2011, anche in Marocco, Algeria, Oman, Kuwait, Giordania, Libano e Iraq, senza gravi conseguenze, ognuna con la sua storia e le sue motivazioni.

 

Nel frattempo, il Sudan sta affrontando una gravissima e sanguinosa crisi, che ha portato il paese alla definitiva divisione; in Somalia continua lo sforzo di stabilizzazione di un governo fragile contro i tentativi di colpo di stato da parte di gruppi di ispirazione religiosa fondamentalista; la Costa d’Avorio ha visto in questi mesi l’atroce recrudescenza di un conflitto civile che dura da dieci anni.

Eppure di questo non si è parlato più di tanto: i paesi africani non hanno ancora un ruolo importante sullo scacchiere globale.

 

E’ molto più facile invece parlare di rivolte arabe, esaltarne i caratteri eroici e libertari contro un sistema repressivo, molto spesso favorito dal sistema euroatlantico, che in Europa ci vantiamo di aver superato. Senza considerare, purtroppo, che i paesi arabi, come le rivolte arabe, non vanno giudicate con parametri europei. Piuttosto, le rivolte arabe vanno analizzate alla luce dei diversi contesti in cui i paesi arabi interessati si muovono. Le rivolte arabe, di qualunque natura esse siano, non cambieranno il mondo arabo, non lo renderanno più democratico o, peggio, più simile all’Europa: non potrebbero e non sarebbe giusto. Le rivolte arabe tuttavia, daranno uno scossone al sistema che fino al 2010 vigeva nell’area, e solo quando il fumo dei mortai si sarà abbassato, il mondo potrà vedere quali paesi hanno cambiato il proprio ruolo, o il proprio allineamento, e quali invece saranno rimasti nella posizione precedente.

 

Capire le rivolte arabe, si diceva, è un proposito ambizioso.

I nostri due autori, con questo libro, ci danno un grande aiuto in questo senso.

Neo-cons USA e neo-revisionisti israeliani a confronto: prossima uscita

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Uscirà nella seconda metà di luglio, dai tipi delle Edizioni all’Insegna del Veltro (edizione curata da Stefano Bonilauri), il libro Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto. L’autore, Francesco Brunello Zanitti, è ricercatore dell’area Asia Meridionale presso l’IsAG e frequente contributore alla rivista dell’Istituto, “Eurasia”. Il volume esce col marchio dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) ed una prefazione a firma del segretario scientifico dello stesso, Daniele Scalea.

L’opera consta di 160 pagine e costerà 18 euro.

Per ordinare il libro, scrivere a:
Edizioni all’insegna del Veltro
insegnadelveltro1@tin.it

Riportiamo di seguito la quarta di copertina e l’indice:

A seguito della vittoria di Bush nel 2000 e soprattutto dopo gli attentati dell’11 settembre i neocons statunitensi hanno influenzato considerevolmente la politica estera della Casa Bianca: la scelta di una politica estera unilateralista, dominata dal concetto di guerra preventiva agli Stati considerati fiancheggiatori del terrorismo; lo scetticismo nei confronti delle istituzioni internazionali e verso alcuni alleati europei; l’invasione dell’Iraq, collegata all’ideale di esportazione della democrazia e alla difesa della supremazia statunitense a livello globale, sono tutti elementi che testimoniano l’ascendenza neoconservatrice sull’amministrazione repubblicana.

Allo stesso tempo l’ultimo decennio della politica israeliana è stato caratterizzato dal rafforzamento della destra, in particolare del Likud, partito erede del neorevisionismo, movimento politicio basato su alcuni concetti già espressi dal sionismo revisionista e dal suo leader, Vladimir Jabotinsky: l’idea di un’inevitabile lotta tra ebrei ed arabi, il diritto per il popolo ebraico dell’intera Eretz Israel per la costruzione dello Stato d’Israele e il primato della forza sulla diplomazia nelle relazioni internazionali.

Gli Stati Uniti e Israele hanno avuto fin dal 1948 una speciale alleanza, ritemprata dalla recente egemonia neoconservatrice negli Stati Uniti. Si può parlare in questo contesto di un singolare legame tra i neocons e gli esponenti del Likud? Il neoconservatorismo e il neorevisionismo, pur essendo due movimenti nati in ambienti politici e geografici lontani e molto differenti, hanno elementi in comune nelle loro ideologie sottostanti? L’analisi del pensiero dei due movimenti politici e le azioni intraprese in politica estera dagli appartenenti a queste correnti una volta raggiunto il potere nei rispettivi paesi possono offrire un’ideale chiave di lettura per comprendere le similitudini e le differenze tra neoconservatorismo statunitense e neorevisionismo israeliano.

INDICE

PREFAZIONE (di Daniele Scalea)

INTRODUZIONE

Capitolo 1
I NEOCONS STATUNITENSI E I NEOREVISIONISTI ISRAELIANI
1.1 I caratteri generali della questione
1.2 Le caratteristiche principali del neoconservatorismo statunitense
1.3 Le caratteristiche principali del neorevisionismo israeliano
1.4 La speciale alleanza tra Stati Uniti e Israele

Capitolo 2
I NEOCONSERVATORI AMERICANI
2.1 Alle origini del neoconservatorismo
2.1.1 Alcove 1
2.1.2 Il Vital Center
2.1.3 Leo Strauss
2.2“Commentary”, “The Public Interest” e l’importanza dei media
2.3 I neoconservatori e la politica estera americana
2.3.1 L’eccezionalismo americano
2.3.2 I neocons, il Terzo Mondo, le organizzazioni internazionali e l’Europa
2.3.3 I neocons e Israele

Capitolo 3
I NEOREVISIONISTI ISRAELIANI

3.1 Alle origini del neorevisionismo: Vladimir Jabotinsky
3.2 Le caratteristiche del neorevisionismo
3.2.1 L’utilizzo di simboli e miti neorevisionisti
3.2.2 Israele e il resto del mondo. Il ruolo dell’“Olocausto”
3.2.3 Il rapporto con il mondo arabo
3.2.4 Il neorevisionismo tra anni ’90 e 2000. Benjamin Netanyahu
Capitolo 4
NEOCONSERVATORISMO E NEOREVISIONISMO A CONFRONTO
4.1 Le origini
4.2 Il nazionalismo
4.3 Il conservatorismo e il radicalismo
4.4 Tendenze espansionistiche e militariste
4.5 L’eccezionalismo
4.6 L’unilateralismo in politica estera e la guerra preventiva
4.7 Homo homini lupus, pessimismo e ottimismo
4.8 «The road to Jerusalem leads through Baghdad»

Capitolo 5
CONCLUSIONI

FONTI E BIBLIOGRAFIA

Ricordiamo ai lettori che sono già disponibili in libreria altre pubblicazioni dell’IsAG: il volume di Pietro Longo e Daniele Scalea Capire le rivolte arabe e l’ultimo numero della rivista “Eurasia”, La cerniera mediterraneo-centrasiatica.

Il nodo nucleare

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Come è noto, la controversia internazionale legata al programma nucleare iraniano è salita agli onori della cronaca fin dal 2003 e da allora gli organi di informazione occidentali hanno rigorosamente funto da cassa di risonanza ai malumori statunitensi ed israeliani relativi alla sua messa a punto.

Meno noto è indubbiamente il fatto che furono gli stessi Stati Uniti a fornire all’Iran i primi cinque reattori nucleari.

Correva l’anno 1967 e sul trono di Teheran era saldamente assiso lo Shah Reza Pahlavi che l’anno seguente scelse di aderire al Trattato di Non Proliferazione nucleare contando sul pieno appoggio del governo di Washington.

Lo stesso Henry Kissinger si fece promotore di un partenariato nucleare con Teheran i cui termini vennero fissati con la ratifica di un accordo sottoscritto da entrambe le parti nel 1975.

All’epoca Iran e Israele erano gli unici paesi stanziati nel Vicino e Medio Oriente a sposare la causa statunitense ed ottennero sostanziosi aiuti economici e forte sostegno politico affinché assurgessero – la Persia in particolare, in virtù della sua posizione geografica strategicamente fondamentale – a bastioni dell’atlantismo contro le mire egemoniche sovietiche sul Golfo Persico e sull’Asia meridionale.

Tuttavia la fuga dello Shah e la prorompente ascesa dell’Ayatollah Ruollah Khomeini, protagonista assoluto della Rivoluzione Islamica, scompaginarono tutti i rapporti diplomatici tessuti negli anni precedenti alla luce della marcata ostilità nei confronti degli Stati Uniti mostrata fin dagli inizi dal leader spirituale iraniano.

Di conseguenza, i vincoli dell’accordo con gli Stati Uniti decaddero e il programma nucleare iraniano subì una brusca battuta d’arresto che perdurò proprio fino al 2003, anno in cui si ravvivò l’interesse del governo di Teheran per l’energia atomica che attirò le ben note attenzioni internazionali.

Malgrado il Presidente Mohammed Khatami avesse chiarito che “Gli sforzi dell’Iran nel campo della tecnologia nucleare sono focalizzati sull’applicazione civile e su nient’altro che questo, come è suo legittimo diritto”, il Ministro degli Esteri israeliano Sylvain Shalom rivolse ugualmente nei confronti dell’Iran l’accusa di “Voler sviluppare un’arma nucleare”, ponendo l’accento sul fatto che “Ciò costituisce una minaccia non solo per Israele ma per il mondo intero”.

Apparve immediatamente paradossale ed indifendibile la posizione su cui stava arroccandosi il governo di Tel Aviv, che si arrogava il diritto di lanciare accuse e non troppo velate minacce verso un paese firmatario del Trattato di Non Proliferazione Nucleare come l’Iran pur essendo l’unica nazione dell’area del Vicino Oriente a disporre di un arsenale nucleare e, a differenza dell’Iran, a non accettare le ispezioni dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica.

Al di là delle strumentali accuse mosse da Israele, occorre sottolineare il fatto che l’interesse dall’Iran nei confronti dell’energia nucleare fu manifestato in corrispondenza di una congiuntura storica resa particolarmente incandescente dall’aggressione statunitense all’Afghanistan del 2001 e all’Iraq del 2003, oltre all’ acuirsi della tensione tra Israele e Palestina maturata in seguito alle posizioni oltranziste assunte dal Primo Ministro Ariel Sharon.

In questo particolare contesto reso estremamente caotico dalle molte frizioni internazionali di intensità variabile è andato dunque ad inserirsi il programma nucleare  iraniano, finito immediatamente nell’occhio del ciclone in seguito alle accuse mosse contro il governo di Tehran, accusato di averlo avviato i lavori per soddisfare l’ambizione di affermare il paese al rango di potenza di pari grado rispetto ai propri concorrenti regionali quali India, Pakistan ed Israele, nazioni che sono state lasciate pressoché indisturbate mentre ultimavano la costruzione degli ingenti arsenali nucleari di cui dispongono attualmente.

Ben altro trattamento è stato riservato invece all’Iran, in specie dall’elezione di Mahomoud Ahmadinejad (2005), personaggio assai meno conciliante rispetto ad alcuni suoi predecessori come Akbar Rafsanjani o lo stesso Mohammed Khatami.

Non a caso, mentre nei confronti di Khatami solo Israele aveva alzato il tiro facendo ricorso ai consueti toni apocalittici per convincere Teheran a desistere dalla prosecuzione del programma nucleare, verso Ahmadinejad si è invece scatenata l’ira congiunta di numerose potenze occidentali che non hanno esitato ad allinearsi alla posizione oltranzista israeliana.

Nel settembre 2007 il Ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner dipinse pubblicamente (in un’intervista rilasciata a un’emittente televisiva) di tinte a dir poco fosche lo scenario iraniano, sottolineando l’imminenza di un attacco contro i suoi impianti nucleari.

L’ex generale statunitense Wesley Clark – uomo assai influente e molto ammanicato con gli ambienti del Dipartimento di Stato – si spinse oltre, non solo ammettendo esplicitamente l’esistenza di piani militari di attacco all’Iran, ma scendendo addirittura nei particolari strategici delle operazioni: “Per evitare che il prezzo del petrolio nel mondo vada alle stelle si dovrà cercare di proteggere ogni stazione di pompaggio del greggio e del gas, nonché i porti e le zone di carico. Anche Israele ha preparato diversi piani: può attaccare obiettivi iraniani sia con le bombe sganciate da aerei sia con missili Cruise a lungo raggio lanciati da sottomarini”.

Nei confronti dell’Iran di Ahmadinejad sono state inoltre adottate ben due risoluzioni ONU:

La 1737 del 27 dicembre 2006 impose al governo di Teheran di bloccare qualsiasi attività di arricchimento dell’uranio e dispose un rigido embargo sulle forniture di qualsiasi materiale legato al settore nucleare.

La 1747 del 24 marzo 2007 inasprì ogni misura prevista nella risoluzione precedentemente approvata allargando il campo dei divieti anche a personalità e rappresentanti istituzionali.

Tuttavia la prospettiva di una guerra contro l’Iran apparve insostenibile anche a influenti membri dell’Unione Europea tradizionalmente restii a mostrarsi in disaccordo con Washington e Tel Aviv.

La stessa Italia (coadiuvata dalla più rigorosa Germania) avanzò critiche aperte alla posizione assunta da Kouchner che spinsero il governo di Parigi ad assestarsi su una linea comune europea ostile all’interventismo e contraria all’apertura di un terzo fronte di guerra che sarebbe andato a sommarsi a quelli afghano e iracheno.

Gli Stati Uniti, dal canto loro, presero atto della posizione europea e tornarono a caldeggiare l’ipotesi diplomatica, abbandonando la via dell’oltranzismo gradita ad Israele.

Tale marcia indietro fu probabilmente ingranata dalle potenze occidentali non solo in ragione dell’ostinata e sfrontata resistenza di Ahmadinejad, che non aveva ceduto nonostante fortissime pressioni e minacce, ma anche (e soprattutto) in virtù della discesa in campo di Vladimir Putin, che si era recato di persona a Teheran nell’ottobre 2007 in qualità di (massimo) rappresentante della Russia alla conferenza sulla sicurezza per far fronte alla situazione.

Al tavolo delle trattative sedevano, oltre a Putin e ad alti rappresentanti iraniani, esponenti di Kazakistan, Turkmenistan e Azerbaigian, i quali raggiunsero un accordo in base al quale i paesi da essi rappresentati si impegnavano a garantire che dal loro territorio non sarebbe stato sferrato alcun attacco contro uno qualsiasi degli altri paesi sottoscriventi.

Raggiunto l’accordo, Putin dichiarò apertamente che “L’utilizzo della forza nella regione non deve essere neppure contemplato”.

Di fronte al monito lanciato da Putin il Presidente George W. Bush colse immediatamente l’occasione per acuire i toni dello scontro non limitandosi a ribadire la ferma e imprescindibile intenzione di impedire all’Iran di portare avanti il proprio programma nucleare ma, riallacciandosi ad esso, paventando l’ipotesi (alquanto lontana) che un Iran assurto a potenza nucleare non avrebbe trovato ostacoli per minacciare persino Stati Uniti ed Europa.

Tale ipotesi, per quanto fantasiosa e strumentale, funse da sponda a Bush non tanto (ma anche) per enfatizzare la natura del problema quanto (e soprattutto) per fregiare dei dovuti crismi legittimatori e per pubblicizzare ad hoc la propria linea oltranzista riguardante l’ultimazione del programma ABM (Anti Ballistic Missile) fortemente avversato dalla Russia.

Le sinistre deduzioni relative alla questione iraniane snocciolate dal Mossad, da Bush e da alcuni influenti membri del suo nutrito e “autorevole” entourage di analisti ed esperti entrarono però in rotta di collisione con le conclusioni contenute nel National Intelligence Estimate reso pubblico il 3 dicembre 2007, secondo le quali l’Iran non stava affatto portando avanti alcun programma nucleare militare.

I passi salienti del National Intelligence Estimate vennero quindi legittimamente utilizzati da Ahmadinejad per rivendicare la propria correttezza e per sollecitare la comunità internazionale affinché si unisse all’Iran nell’esigere che Stati Uniti ed Israele comparissero sul banco degli imputati dinnanzi alla comunità internazionale per rispondere del loro atteggiamento immotivatamente aggressivo e irrispettoso tenuto nei riguardi dell’Iran.

La tensione subì un relativo abbassamento dovuto alla sostanziale vittoria politica riportata da Ahmadinejad il quale, essendo riuscito nell’impresa di smascherare l’inconsistenza delle accuse israeliane e statunitensi e ottenendo l’appoggio della Russia, pose l’Iran nelle condizioni di mantenere la propria autonomia decisionale nelle questioni fondamentali inerenti la politica interna e quella estera.

Pare assodato il fatto che l’intelligenza politica di Ahmadinejad sia stata effettivamente solleticata dall’idea di affermare il proprio paese al rango di potenza nucleare in specie dopo la sorte toccata all’Iraq, bombardato nel marzo del 2003 e poi invaso dagli Stati Uniti malgrado gli ispettori dell’ONU non avessero reperito alcun ordigno del presunto arsenale attribuito a Saddam Hussein.

Allora gli Stati Uniti di Geroge W. Bush ben emulati dai loro alleati britannici guidati da Tony Blair  ripiegarono, di fronte all’evidente assenza di armi di distruzione di massa, sull’esibizione di prove palesemente false fabbricate a tavolino (si ricordi la sceneggiata del Segretario di Stato Colin Powell al Palazzo di Vetro) mediante le quali contavano di convincere la comunità internazionale dell’esistenza di un non meglio specificato arsenale chimico in dotazione all’esercito iracheno.

L’escalation degli eventi ha indotto un paese come la Corea del Nord a trarre un duro insegnamento al riguardo, ovvero che dal momento che una semplice accusa di detenere illegalmente armi di distruzione di massa non suffragata da alcuna prova si era rivelata condizione sufficiente per aggredire violentemente un paese sovrano come l’Iraq, tanto valeva accelerare i tempi per la costruzione di un arsenale nucleare che avrebbe almeno garantito un discreto margine di deterrenza in grado di scoraggiare gli aggressori.

La Corea del Nord si ritirò infatti dal Trattato di Non Proliferazione nucleare nel 2003 e attivò parallelamente la centrale di Yongbyon.

Il 10 febbraio 2005 il governo di Pyongyang annunciò pubblicamente di aver ultimato la costruzione di un numero non specificato di testate nucleari per far fronte all’aggressività mostrata dagli Stati Uniti.

Allora anche la linea oltranzista propugnata da George W. Bush dovette scontrarsi contro la realtà geopolitica della regione, assai favorevole alla Corea del Nord.

Un ipotetico atto di forza contro la Corea del Nord avrebbe infatti spinto Pyongyang a rivolgersi ai vicini alleati cinesi, che sarebbero indubbiamente intervenuti per sventare una pericolosa crisi internazionale dai risvolti potenzialmente catastrofici lungo i propri confini.

L’Iran paga invece il suo sostanziale isolamento regionale, dovuto principalmente alla storica ostilità del paese verso quelli limitrofi e alle differenze di natura etnica (persiana) e religiosa (sciita) che lo contraddistinguono dalle nazioni vicine, arabe e sunnite in larghissima maggioranza.

L’elezione di Barack Obama ha inoppugnabilmente sortito rilevanti ricadute sui rapporti tra Stati Uniti ed Israele, che aveva trovato in Bush un interlocutore di rara disponibilità e assai bendisposto ad accogliere le richieste avanzate da Tel Aviv.

Tra i prestigiosi nominativi scelti per formare lo staff di Obama spiccano elementi noti, ma il più “pesante” sponsor dell’attuale Presidente americano non occupa alcun incarico di governo e risponde al nome di Zbigniew Brzezinski, che in passato non ha mancato di opporsi ad Israele e di esprimersi aspramente sull’operato dei governi di Tel Aviv, sulla potente Israel lobby e sull’atteggiamento – definito “maccartistico” – dell’establishment ebraico – americano nei confronti dei critici di Israele.

Costui non ha esitato a richiamarsi alle gerarchie internazionali e ai rapporti di forza che le regolano per riaffermare il primato indiscusso degli interessi statunitensi su quelli degli alleati nel corso di un’intervista rilasciata al The Daily Beast, nell’ambito della quale ebbe a sostenere che qualora i caccia israeliani si fossero azzardati a sorvolare lo spazio aereo iracheno per attaccare l’Iran, gli Stati Uniti non avrebbero dovuto esitare ad abbatterli, così come l’esercito israeliano non aveva indugiato dinnanzi alla possibilità di affondare la nave USS Liberty nel giugno 1967, in piena Guerra dei Sei Giorni.

Forte dell’appoggio della Russia e potendo contare sul parziale inasprimento dei rapporti tra Stati Uniti ed Israele, Ahmadinejad si è sentito sufficientemente coperto per portare avanti il programma nucleare sfidando l’embargo disposto dalle potenze occidentali.

Di fronte all’audacia mostrata da Ahmadinejad numerosi analisti si sono limitati ad agitare nuovamente il consolidato spauracchio legato alla bomba atomica che avrebbe giustificato l’altrimenti inspiegabile, accanito ricorso al nucleare da parte del governo di un paese come l’Iran che dispone di ingenti risorse petrolifere e gasifere.

Una lettura superficiale e sbrigativa della situazione porterebbe in effetti ad appoggiare una spiegazione simile, ma alla prova dei fatti risulta che le cose stiano in maniera ben diversa da come vengono comunemente narrate.

Da diversi anni l’Iran è soggetto a una prorompente crescita economica accompagnata dal classico aumento dei consumi interni ma non dispone delle tecnologie necessarie per ottimizzare la propria produzione di petrolio e gas.

A ciò vanno sommati i tesissimi rapporti con i paesi occidentali in possesso delle conoscenze richieste e l’embargo disposto mediante l’applicazione delle due risoluzioni ONU.

Queste condizioni critiche obbligano il governo di Teheran ad adottare misure drastiche per venire a capo della situazione.

Mantenendo inalterate le quantità di greggio esportate occorrerebbe razionare i consumi interni, frenando la spontanea crescita del paese.

Qualora si decidesse di aumentare la produzione si renderebbe necessaria la partecipazione delle compagnie occidentali, che non avrebbe in alcun caso luogo in assenza di una drastica revisione preliminare dei rapporti con gli Stati Uniti e con i loro alleati, con le relative ripercussioni sull’autonomia decisionale del governo.

L’altra via percorribile riguarda invece la differenziazione delle fonti energetiche che adeguatamente sostenuta alleggerirebbe la dipendenza diretta del paese da risorse quali petrolio e gas, le quali mantengono un peso assai consistente sulla bilancia commerciale degli stati e costituiscono un fattore suscettibile di sortire forti ripercussioni di carattere geopolitico sugli equilibri mondiali.

L’Iran, puntando forte sul nucleare, ha intrapreso questa ultima strada ed è attualmente oggetto di fortissime pressioni esercitate dalle potenze occidentali interessate a far si che il governo di Teheran desista nel perseguire tale obiettivo.

I soverchianti strumenti coercitivi a cui gli Stati Uniti e i loro alleati hanno fatto ricorso hanno però portato i dirigenti iraniani ad intensificare ulteriormente i rapporti con la Russia, che oltre ad essere un robusto e affidabile alleato militare aveva tutte le carte in regola per fungere da partner in ambito energetico.

Così, dall’intesa militare raggiunta nel 2007 prese vita una sinergia tra i due paesi che si finì per allargarsi, coinvolgendo il colosso energetico Gazprom e conferendo in tal modo credibilità al progetto finalizzato alla creazione di un’OPEC del gas formata dai primi tre produttori a livello mondiale, ovvero Russia, Iran e Qatar.

In passato Putin ha riconosciuto apertamente (si pensi al discorso pronunciato a Monaco nel corso della Conferenza sulla Sicurezza del 10 febbraio 2007) di considerare la prospettiva di integrazione tra Europa e Russia uno dei principali obiettivi da perseguire negli anni, ma le opposizioni delle burocrazie di Bruxelles (Unione Europea) storicamente legate a Washington hanno finora mandato a monte ogni tentativo operato per realizzare tale progetto.

Di conseguenza Putin ha adottato un modus operandi particolare, volto a tenere l’Unione Europea al di fuori delle trattative privilegiando il dialogo con i singoli paesi europei, che nel frattempo hanno fatto massiccio ricorso agli idrocarburi provenienti dall’Iran.

Le trame diplomatiche tessute negli anni dal Cremlino hanno prodotto effetti sorprendenti, culminati con la nomina dell’ex cancelliere tedesco Gerard Schroeder a presidente della società Noth Stream AG, che si occupa della realizzazione del gasdotto concepito per far approdare il gas russo ai terminali tedeschi aggirando l’Ucraina, soggetta alle ben note turbolenze politiche.

Sul versante meridionale, l’interesse della Russia è esaurientemente riassunto nelle linee guida del progetto finalizzato alla realizzazione del gasdotto South Stream che, parallelamente al North Stream, consentirebbe il flusso del gas russo attraverso le acque territoriali turche fino allo snodo centrale situato in Bulgaria, da cui si diramerebbero due corridoi opposti, l’uno diretto verso l’Austria e l’altro verso la Puglia.

Gli Stati Uniti hanno pesantemente avversato la realizzazione ti tale progetto patrocinandone, coadiuvati dall’Unione Europea, uno alternativo comprendente la costruzione del gasdotto Nabucco, concepito per sottrarre i paesi europei alla dipendenza energetica dalla Russia rifornendoli parzialmente di gas iraniano.

La costruzione del progetto in questione è parso utopica fin dai primordi, principalmente in virtù dei cattivi rapporti vigenti tra Iran e Stati Uniti.

E’ logico quindi che Putin preferisca ridurre la concorrenza sul mercato occidentale spingendo l’Iran ad orientare la propria attenzione verso est, ovvero verso quei paesi – come India e Cina – attualmente protagonisti di una esorbitante crescita economica e quindi affamati di energia.

La Russia ha perciò sostenuto attivamente la costruzione del cosiddetto “gasdotto della pace”, un corridoio energetico che dall’Iran, snodandosi lungo il territorio pakistano, approderebbe ai terminali indiani.

Ulteriori diramazioni di tale condotto potrebbero garantire approvvigionamento anche alla Cina, favorendo una distensione dei rapporti all’interno del temibile triangolo nucleare Pakistan – India – Cina potenzialmente dirompente in chiave euroasiatica.

La realizzazione di tali progetti presuppone però che il programma di differenziazione delle fonti energetiche venga portato avanti con successo e che lo sfruttamento di queste ultime riesca a coprire un’ampia fetta del fabbisogno iraniano.

In tal modo il governo di Teheran potrebbe non esser costretto a dover ricorrere forzatamente né al razionamento dei consumi interni né all’abbassamento delle esportazioni.

Tenendo conto che nell’arco di qualche decennio il problema si espanderà a macchia d’olio – soprattutto a fronte del costante aumento della domanda internazionale di idrocarburi della Cina e di altri paesi emergenti – fino a costringere paesi ricchi di idrocarburi come l’Arabia Saudita a battere la via della differenziazione, si evince che non esiste alcuna “minaccia iraniana”, se non per Israele che mira ad imporre la propria egemonia sul Vicino e Medio Oriente e trova effettivamente nell’Iran un pericoloso avversario.

Esiste, di converso, la possibilità che un Iran in piena ascesa economica in grado di ovviare ai propri momentanei deficit tecnologici concernenti l’estrazione degli idrocarburi mediante l’energia nucleare utilizzi le proprie materie prime per rompere, supportato da una potenza come la Russia, l’accerchiamento di cui è vittima e stringere alleanze o intensificare rapporti diplomatici in grado di innescare un processo di distensione panasiatica in grado di compattare l’intero continente e che, sempre mediante intervento decisivo della Russia, integrerebbe gradualmente anche l’Europa.

Alla luce di tutto ciò, non dovrebbe risultare un compito particolarmente arduo quello di soppesare le ragioni che spingono i ben noti centri di potere ad impegnare enormi sforzi nella lotta contro il nucleare iraniano.

Giulietto Chiesa, Pino Cabras, BARACK OBUSH

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Giulietto Chiesa, Pino Cabras

BARACK OBUSH

Edizioni Ponte alle Grazie, 2011
Pagine: 208
€ 13.00

Il Libro
Che significa e come si è svolta l’oscura uscita di scena di Osama bin Laden? Che fine ha fatto Al-Qa’ida, ed è mai stata come ci hanno raccontato? Chi sta andando al potere in Egitto e altrove, dopo le primavere arabe, e in che modo gli Stati Uniti tentano di controllare la riorganizzazione del potere? Chi sono i cirenaici a sostegno dei quali gli USA e noialtri abbiamo deciso di far guerra a Gheddafi? Eroici difensori della libertà o i complici di turno dell’impero? Che svolgimento avranno i tesissimi rapporti con Iran e Siria? In che modo la crisi dei Paesi europei più deboli è legata alla guerra euro-dollaro? E che cosa stanno tentando di fare gli Stati Uniti, segretamente o meno, per controbilanciare lo strapotere cinese?

Tante questioni che i nostri media lasciano irrisolte, trovano qui, grazie alla penna acuminata di Giulietto Chiesa e Pino Cabras, una luce nuova. Se non rasserenante, almeno molto chiara: sullo sfondo di una guerra globale per il momento a (relativamente) bassa intensità, il ruolo degli Stati Uniti di Obama – oramai non diverso dai predecessori, e in fondo espressione più correct degli stessi interessi reali – è quello di un impero al declino, gravato dall’immenso debito, dallo svuotamento della democrazia e dalla feroce concorrenza internazionale, che tuttavia dovrà vender cara la pelle. Il più cara possibile: e a pagare potremmo essere tutti noi.

Un brano del libro
“Ma quante volte è morto Osama bin Laden nei dieci anni post 11 settembre? Gli annunci e le ipotesi sulla sua dipartita si sono regolarmente susseguiti, con svariate fonti — giornalisti, leader politici, agenti o ex agenti di servizi segreti, funzionari di ogni livello nelle amministrazioni occidentali, inclusa quella americana, ecc. — che lo davano per molto malato, quasi morto, poi morto e rimorto.

Il mainstream, all’unanimità, imperterrito, lo dava ancora in vita. Nessuna stranezza in questo: il mainstream è lì esattamente per questo: per raccontare quello che vuole l’Impero. Ha funzionato sempre, perfettamente, la «legge delle ventiquattro ore». Che si manifesta così: la notizia esce, in quache modo, a caldo. C’è sempre un passacarte distratto, che non capisce, raccoglie la voce dal sen fuggita a qualcuno (o che qualcuno ha intenzionalmente fatto filtrare) e la pubblica. Poi qualcun altro, meno distratto o più furbo, se ne rende conto. E la notizia sparisce per sempre dalle pagine dei giornali e dei telegiornali. Solo gli specialisti se ne ricorderanno. Il grande pubblico la ignorerà.”

Gli Autori
Giulietto Chiesa
Già dirigente del PCI e corrispondente da Mosca per l’Unità e La Stampa, Giulietto Chiesa collabora con il quotidiano torinese. E’  stato parlamentare europeo (2004-2009) e ha fondato l’associazione Megachip, e il sito corrispondente, www.megachip.info. Nel 2010 ha costituito il movimento politico-culturale “Alternativa”. Tra i suoi numerosi libri:  Zero (2007) e La guerra infinita (2003); con Vauro, Il libretto rosso (2006) e Afghanistan anno zero (2001); con Marcello Villari, Superclan (2003). È stato promotore e co-sceneggiatore del film Zero, inchiesta sull’11 settembre (2008).

Pino Cabras
Laureato in Scienze politiche, lavora in una finanziaria d’investimento, per la quale ha curato diversi programmi negli Stati Uniti e in Asia. Ha pubblicato Balducci e Berlinguer, il principio della speranza (La Zisa, 1995), e Strategie per una guerra mondiale (Aisara, 2008). Da novembre 2008, dirige il sito www.megachip.info.

Dove acquistarlo
info@ponteallegrazie.it

Come si conquista un Paese: l’attacco della finanza internazionale all’Italia

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Fonte: “Clarissa

 

L’attacco della speculazione che venerdì 8 luglio 2011 è stato diretto dalla finanza internazionale contro la Borsa italiana, provocando un ribasso del 3,47% pari a una perdita di 14,1 miliardi di capitalizzazione, non è una semplice operazione finanziaria. Chi continua a parlare dei “mercati finanziari” come di una divinità che organizza la vita delle società contemporanee sa perfettamente che questi anonimi “mercati finanziari” hanno nomi e cognomi. Sono uomini e gruppi che hanno precisi interessi e chiari obiettivi. Come in ogni operazione di destabilizzazione di un intero Paese, cioè, vi sono degli scopi ed essi sono oggi chiaramente individuabili.
L’Italia viene attaccata perché in realtà è uno dei Paesi dell’Occidente che meglio ha retto fino ad oggi la crisi finanziaria del 2007, grazie al fatto che i suoi cittadini e la rete delle sue piccole e medie imprese non hanno mai completamente dato ascolto alle sirene della globalizzazione finanziaria. Alcune sue imprese, le sue banche e le sue compagnie assicurative rappresentano quindi oggi un appetitoso obiettivo per chi spera di poterle ricomprare fra qualche mese a prezzi stracciati.
L’Italia viene attaccata perché un suo tracollo economico-finanziario rappresenterebbe il colpo definitivo all’euro e quindi al processo di unificazione europea che sulla moneta unica ha puntato (erroneamente) tutta la propria credibilità; e non vi sono dubbi che, senza l’ultimo presidio del Vecchio Continente, una visione sociale dei rapporti economici verrebbe definitivamente seppellita dalle forze montanti del capitalismo finanziario, da un lato, e dei nuovi capitalismi di Stato, come quello cinese, che, dall’altro, stanno avanzando senza freni sullo scenario mondiale.
L’Italia viene attaccata perché il nostro Paese ha una posizione determinante rispetto ai futuri assetti del Mediterraneo e del Medio Oriente e la confusa ma ancora in qualche modo persistente difficoltà italiana ad allinearsi completamente ad una politica forsennatamente filo-israeliana e di democracy building all’americana nei Paesi arabo-islamici, rappresenta oggi un ostacolo che deve essere rimosso in breve tempo.
Infine, l’Italia viene attaccata perché la sua classe dirigente, di destra centro sinistra, ha dimostrato di non intendere minimamente quale sia la posta in gioco, essendo strutturalmente impegnata in basse lotte di potere, nella difesa di interessi personalistici e nella copertura di vaste reti di corruzione, condizionamento e compromesso che ne minano alla radice qualsiasi capacità operativa e strategica.
Il potere politico che il capitalismo finanziario mondializzato ha acquisito attraverso la capacità di destabilizzare in modo diretto interi Stati, come dimostrato ampiamente negli ultimi anni, dall’Argentina alla Grecia, dipende da una premessa fondamentale che è stata acriticamente accettata da economisti e politici, vale a dire che proprio gli strumenti della finanza (credito, debito, moneta, assicurazioni, con tutti i loro molteplici derivati moderni) siano i migliori mezzi per garantire la maggiore efficienza nella raccolta e nell’allocazione dei capitali. Il classico concetto dell’economia capitalista della efficienza dei meccanismi auto-regolatori del mercato, grazie al gioco di domanda ed offerta, è stato allargato dal mercato dei beni a quello dei capitali, nonostante costituisca uno dei presupposti del capitalismo, scientificamente e storicamente, dimostratosi del tutto insufficiente, quando non addirittura errato.
Nel caso dei mercati dei beni, questa arcaica interpretazione del rapporto fra domanda, offerta e formazione dei prezzi sostiene, come si sa, che all’aumentare del prezzo di un prodotto, giacché i produttori ne accrescono la produzione in vista di maggiori ricavi, i consumatori riducono la loro domanda, determinando una riduzione e dunque un riequilibrio fra domanda e offerta, che si rifletterebbe positivamente sui prezzi stessi. Per quanto questa presunta legge sia, già nel caso del mercato “tradizionale” dei beni, come è stato dimostrato a suo tempo da Rudolf Steiner, un’arbitraria semplificazione di un meccanismo assai più complesso ed articolato(1) – nel caso dei mercati finanziari, si tratta di una vera e propria falsificazione. Scrivono infatti alcuni economisti “non allineati”:
“Quando i prezzi [delle azioni] crescono, è comune osservare non una riduzione ma una crescita della domanda! Infatti, prezzi crescenti significano un più alto profitto per coloro che possiedono azioni, a motivo dell’incremento di valore del capitale investito. La salita del prezzo attrae in questo modo nuovi acquirenti, cosa che rafforza ulteriormente la tendenza iniziale all’aumento. La promessa di dividendi spinge i trader ad incrementare ulteriormente il movimento. Questo meccanismo funziona fino a quando la crisi, che è non prevedibile ma è inevitabile, si verifica. Questo determina l’inversione delle aspettative e quindi la crisi. Quando il processo diventa di massa, determina un “contraccolpo” che peggiora gli iniziali squilibri. Una bolla speculativa consiste quindi di un aumento cumulativo dei prezzi, che si auto-alimenta. Un processo di questo tipo non produce prezzi più convenienti, ma al contrario prezzi sperequati”(2).
La visione del mercato finanziario come potere regolatore di ultima istanza degli assetti economici mondiali, ha conferito alle forze speculative in esso presenti la possibilità di esercitare un potere di condizionamento politico: non vi è più alcun Paese al mondo che non dipenda in qualche modo da questa ristrettissima élite di signori del denaro, i quali dispongono di uno strumento ideale di controllo, costituito dalle agenzie di rating che, a livello mondiale, sono soltanto cinque, delle quali tre hanno un monopolio di fatto del settore.
Moody’s e Standard&Poor’s hanno rappresentato nell’attacco all’Italia, come già avvenuto nel caso della Grecia un anno fa e in tanti altri ancora prima, la vera e propria “voce del padrone”. Sono stati infatti gli outlook (previsioni) di queste due agenzie di rating, emanati a fine giugno, a dare al mondo della speculazione il segnale che si poteva e si doveva colpire ora l’Italia. Personaggi come Alexander Kockerbeck, vice-presidente di Moody’s, o come Alex Cataldo, responsabile Italia della stessa agenzia, emettono nelle loro interviste vere e proprie sentenze sul presente e sul futuro destino economico del nostro Paese, senza essere dotati di alcuna autorità per poterlo fare.
La fonte del loro potere, che non ha precedenti nella storia, sta infatti semplicemente nel fatto di essere emanazione di società finanziarie internazionali, che ne possiedono interamente il capitale societario, le stesse società finanziarie di cui dovrebbero valutare obiettivamente prodotti e performance.
“Il primo azionista di Moody’s, con il 13,4% del capitale, risultava a fine dicembre del 2009, secondo rilevazioni Reuters, Warren Buffett, il guru di Omaha con il suo fondo Berkshire Hathaway. Al secondo posto con il 10,5% ecco comparire Fidelity, uno dei più grandi gestori di fondi del mondo. E poi è un florilegio di gente che di mestiere compra e vende titoli: si va da State Street a BlackRock a Vanguard a Invesco a Morgan Stanley Investment. Insomma i più grandi gestori di fondi a livello mondiale sono azionisti di Moody’s. E guarda caso lo stesso copione si riproduce in Standard&Poor’s: ecco nell’azionariato comparire in evidenza, a fine 2009, i nomi di Blackrock, Fidelity, Vanguard. Gli stessi nomi. Il che pone una domanda. Che ci fanno gestori di fondi nel capitale di chi dà i voti ai bond emessi dalle stesse società che abitualmente un gestore compra e vende?”(3).
Queste agenzie non hanno alcuno status giuridico, nemmeno negli Stati Uniti; il loro ruolo è stato reso possibile semplicemente dal fatto che il governo degli Stati Uniti le ha definite Nationally Recognized Statistical Rating Organizations (NRSRO) e lo stesso ha fatto la Securities and Exchange Commission (SEC), agenzia governativa che vigila sui mercati azionari(4). Nonostante le numerose inchieste e audizioni tenutesi negli Usa, proprio come pochi giorni fa è avvenuto in sordina anche presso la Consob italiana, senza che il pubblico sia edotto di quanto emerso, Moody’s, Standard&Poor’s e Fitch continuano da anni a macinare profitti incredibili, sebbene le loro previsioni si siano dimostrate semplicemente ridicole, come mostrano il caso del crollo della Enron o quello di Lehman Brother’s, quando di queste aziende le agenzie in questione hanno continuato a dare fino ad un minuto prima del crack valutazioni di altissima affidabilità. In merito ai loro profitti, diamo di nuovo la parola al già citato giornalista de Il Sole 24 Ore:
“Moody’s, solo nel 2009, per ogni 100 dollari che ha fatturato ne ha guadagnati sotto forma di utile operativo ben 38. Su 1,8 miliardi di ricavi fanno un margine di 680 milioni. Ma attenzione, quel 38% di redditività è un mix tra i servizi di analisi e quelli di assegnazione dei rating. Solo sul mestiere più remunerativo, quello appunto dell’assegnare pagelle, la redditività balza al 42% sui ricavi. Un exploit il 2009? Niente affatto. Gli anni d’oro sono stati altri: nel 2007 il margine operativo era al 50% dei ricavi e
nel 2006 si è toccato il picco del 62% di utili operativi sul fatturato. Un’enormità: 1,26 miliardi di margine su 2 miliardi di fatturato. Se poi si va all’utile netto la musica non cambia. Dal 2005 al 2009 Moody’s ha generato profitti per complessivi 2,8 miliardi”(5).
Si dà quindi il caso del tutto unico che i nostri Paesi siano soggetti a valutazioni di valore internazionale da parte di agenzie che da tali valutazioni traggono direttamente profitto e che sono per di più di proprietà di società finanziarie che da quelle valutazioni possono trarre a loro volta direttamente profitto! Quale affidabilità possano avere e quale valore di regolazione giuridica di mercato, lo lasciamo facilmente dedurre al lettore.
“Stimare il valore di un prodotto finanziario non è paragonabile al misurare una grandezza oggettiva, come, ad esempio, stimare il peso di un oggetto. Un prodotto finanziario è un titolo su di un reddito futuro: per valutarlo, si deve stabilire in anticipo quale sarà questo futuro. Si tratta di una stima, non di una misura obiettiva, dato che nel momento “t” il futuro non è in alcun modo determinato. Negli uffici dei trader è ciò che gli operatori si immaginano che accadrà. Il prezzo di un prodotto finanziario è il risultato di una valutazione, una opinione, una scommessa sul futuro: non vi sono garanzie che questa valutazione dei mercati sia in alcun modo superiore a qualsiasi altra forma di valutazione.
Prima di tutto, la valutazione finanziaria non è neutrale: influisce sull’oggetto che intende valutare, dà avvio e costruisce il futuro che essa immagina. Per questo, le agenzie di rating svolgono un ruolo importante nel determinare il tasso di interesse sui mercati dei bond, assegnando pagelle che sono altamente soggettive, se non addirittura guidate dal desiderio di accrescere l’instabilità come fonte di profitti speculativi. Quando queste agenzie tagliano il rating di uno Stato, accrescono il tasso di interesse richiesto dagli attori finanziari per acquistare titoli del debito pubblico di questo stesso Stato e in tal modo accrescono il rischio della stessa bancarotta che hanno annunciato”(6).
Se dunque il mito dell’efficienza dei mercati finanziari rappresenta il presupposto ideologico di queste operazioni e le agenzie di rating l’incredibile strumento di coordinamento della speculazione, capace di rendere auto-realizzantesi le proprie profezie, occorre mettere in giusta evidenza il fatto che alla base dell’attuale critica situazione dei Paesi europei sta uno specifico elemento, assai poco noto al largo pubblico, vale a dire che il Trattato di Maastricht, nel quadro delle politiche iper-liberiste allora di gran moda, ha fatto un oggettivo regalo ai poteri del capitale finanziario internazionalizzato, allorché ha sancito le modalità che gli Stati membri devono seguire per approvvigionarsi di moneta.
“A livello di Unione Europea, la finanziarizzazione del debito pubblico è stata inserita nei trattati: a partire dal trattato di Maastricht, le banche centrali hanno il divieto di finanziare direttamente gli Stati, i quali devono quindi trovare prestatori sui mercati finanziari. Questa “punizione monetaria” è accompagnata dal processo di “liberalizzazione finanziaria”, che è l’esatto opposto delle politiche adottate dopo la Grande Depressione degli anni Trenta, che prevedeva la “repressione finanziaria” (vale a dire severe restrizioni alla libertà di azione della finanza) e “liberazione monetaria” (con la fine del gold standard). Lo scopo dei trattati europei è di assoggettare gli Stati, che si presuppone siano per natura troppo propensi allo sperpero, alla disciplina dei mercati finanziari, che sono ritenuti per natura efficienti ed onniscienti”(7).
Ecco quindi come, dal livello filosofico-ideologico che santifica i “mercati finanziari”, accolto acriticamente ma interessatamente dalle élite dei tecnocrati comunitari, si sia aperto per legge il varco in Europa all’uso politico del potere del denaro, giungendo a condizionare in modo diretto la vita di intere comunità nazionali: il fatto che gli Stati (e, come loro, regioni, provincie e comuni) siano dovuti andare a cercare i soldi sui mercati finanziari, proprio mentre il credito veniva, come in Italia, trasformato per legge da funzione sociale ad attività esclusivamente lucrativa, pone i nostri Paesi in completa soggezione ai signori della moneta.
Questo non significa affatto voler sorvolare sulle oggettive responsabilità di classi dirigenti, tra cui quella italiana, che non vogliono affrontare radicalmente la questione dell’efficienza delle pubbliche amministrazioni, per il semplice fatto che il pubblico impiego rappresenta un gigantesco serbatoio clientelare che di fatto perpetua la loro sopravvivenza politica, altrimenti inspiegabile. Significa semplicemente dire, in modo chiaro e definitivo, che l’inefficienza delle amministrazioni pubbliche, che continuano a sprecare somme enormi senza alcuna contropartita sul piano collettivo, non è una valida giustificazione per tollerare le ripetute aggressioni della speculazione internazionale.
Quando giornalisti, che per mestiere dovrebbero disporre di informazioni e dati assai più completi e articolati di quelli che arrivano al largo pubblico, scrivono ancora, su autorevoli quotidiani nazionali, che “quella che continuiamo a chiamare speculazione internazionale in realtà non è altro che la logica di mercato che cerca di sfruttare le occasioni”, non è sciocco chiedersi se si tratta di mala fede o di semplice ottusità: abbiamo infatti già visto che la cosiddetta “logica di mercato” è una logica ideologica e politica. Il mercato, come sacro regolatore dell’economia, non esiste, mentre esistono attori che nel mercato operano, tra i quali, non certo sacri ma a quanto pare intoccabili, sono gli speculatori e le agenzie di rating di loro emanazione: di tutti costoro si sa ormai perfettamente da anni chi sono, cosa fanno e perché.
Se fossero semplicemente i deficit e le cattive amministrazioni pubbliche a giustificare le “ghiotte occasioni” per la speculazione, questi giornalisti dovrebbero allora chiedersi come mai la speculazione finanziaria colpisca l’Europa e non gli Stati Uniti, il cui debito pubblico è assai più alto di quello medio europeo, e come mai gli attacchi si dirigano contro l’Italia o la Grecia e non contro la California, uno stato americano che è in conclamata bancarotta da anni! Se fossero semplicemente il debito pubblico e la cattiva amministrazione a giustificare questi attacchi, ci si dovrebbe chiedere come mai siano sotto tiro grandi imprese bancarie e assicurative italiane, che hanno applicato alla lettera da anni i più avanzati dettami del capitalismo finanziario globalizzato. Qualcuno dei responsabili di queste aziende sembra cominci ad accorgersene, ora che si trova sotto tiro, stando almeno a quanto ha dichiarato il 9 giugno Giovanni Perissinotto, amministratore delegato del gruppo Generali:
“C’è necessità di una risposta centralizzata e coordinata a livello europeo contro attacchi speculativi, anch’essi coordinati, che stanno investendo alcuni Paesi mediterranei ma che si propongono anche di mettere in discussioni la stessa stabilità dell’euro. (…) Nei ribassi di questi giorni le imprese sono impotenti. Noi siamo disciplinati, promuoviamo l’efficienza, tagliamo i costi. In tutti i Paesi seguiamo una politica di investimenti coerente con gli impegni assunti con gli assicurati. Ma non possiamo continuare ad essere così duramente colpiti dai mercati perché difendiamo il nostro Paese. In una parola perché continuiamo ad investire in titoli di Stato italiani dove sono residenti una parte significativa dei nostri clienti”(8).
Viene quindi finalmente in evidenza, ed è forse l’unico aspetto positivo della tempesta che si annuncia nei prossimi mesi sull’Italia, la necessità di sottrarre i nostri Paesi radicalmente al condizionamento del capitale finanziario internazionalizzato, riaffermando il principio che, nelle nostre democrazie, la gestione della cosa pubblica è demandata a rappresentanti eletti dal popolo. In questa prospettiva, la liberazione delle nostre economie passa per alcuni punti fondamentali, la cui comprensione non necessita delle spericolate alchimie degli economisti di mestiere: in primo luogo, le imprese devono tornare a rendere conto non agli azionisti ma ai consumatori ed ai lavoratori e la loro efficienza si deve misurare su questo piano, non su quello della loro attività in borsa; in secondo luogo, le pubbliche amministrazioni devono essere snellite a livello territoriale e basate su principi di semplificazione burocratica, efficienza di gestione, qualificazione del personale, spirito di servizio; in terzo luogo, il credito deve tornare ad essere considerato primariamente funzione sociale e quindi deve essere posto sotto il controllo delle forze della produzione economica e non della speculazione e, di conseguenza, lo stesso deve avvenire per la creazione della moneta e dei correlati strumenti finanziari; questi ultimi devono essere in chiara e proporzionata relazione con i beni ed i servizi effettivamente sottostanti e la loro commercializzazione deve potere seguire percorsi chiaramente tracciabili; le attività finanziarie devono essere tassate in modo proporzionale ai volumi posseduti ed all’ampiezza della loro utilizzazione.
Come segnale inequivoco della strada da intraprendere, è a nostro avviso oggi necessario richiedere con urgenza l’apertura di un’inchiesta internazionale sulla condotta delle agenzie di rating, da promuovere presso le Nazioni Unite, allo scopo di verificarne composizione azionaria, conflitti di interesse, liceità delle attività svolte ed effetti diretti ed indiretti della loro condotta sulle economie dei singoli Paesi negli ultimi venti anni; nel frattempo, le attività di rating di queste agenzie, in quanto parti interessate, dovrebbero essere sospese a tempo indeterminato. Si porrebbe in tal modo, in definitiva, all’attenzione dei popoli la questione della sovranità economica delle comunità nazionali che deve essere oggi considerata l’irrinunciabile presupposto per intraprendere il risanamento dei nostri Paesi. Dubitiamo che le attuali classi dirigenti, tra le quali quella italiana, possano oggi porsi alla testa in Europa di un simile orientamento: ma è questa la sola via per riscattare i nostri popoli dalla schiavitù del debito.

1) R. Steiner, I capisaldi dell’economia, Milano, 1982, pp. 110-111.
2) Aa.Vv., “Crisis and debt in Europe: 10 pseudo “obvious facts”, 22 measures to drive the debate out of the dead end”, Real-world economics review, Issue no. 54, 27 September 2010, p. 19.
3) F. Pavesi, “Moody’s, S&P e Fitch, ecco chi comanda nelle agenzie di rating”, Il Sole 24 Ore, 9 maggio 2010.
4) F. William Engdahl, “The Financial Tsunami: Sub-Prime Mortgage Debt is but the Tip of the Iceberg”, Global Research, November 23, 2007.
5) F. Pavesi, loc. cit.
6) Aa.Vv., “Crisis and debt in Europe”, cit., p. 23.
7) Ivi, p. 26.
8 ) G. Perissinotto, “Serve una risposta europea agli attacchi”, Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2011

Washington pianifica nuove azioni contro il Venezuela

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Fonte: “Global Research

 

Il governo statunitense sta progressivamente intensificando le azioni offensive nei confronti dell’amministrazione di Chavez nel tentativo di isolare il grande produttore di petrolio e di riuscire a indebolire il presidente venezuelano.

 

Lo scorso 24 giugno durante un’audizione alla Camera della Commissione Esteri riguardo l’ipotesi di ‘procedere a sanzionare nuove attività in Venezuela’, democratici e repubblicani hanno chiesto all’amministrazione Obama di intraprendere nuove azioni offensive contro il governo di Hugo Chavez. Il capo della Sotto Commissione Affari Esteri per l’emisfero occidentale, Connie Mack, repubblicano della Florida, si è riferito al governo venezuelano con l’appellativo ‘terrorista’ sostenendo che “è giunto il momento di agire per contenere la pericolosa influenza di Hugo Chavez e ridimensionare le sue relazioni con l’Iran”.

 

Mack è noto per la sua decisa posizione anti Chavez. E per quanto lui possa sembrare ‘ossessionato’ dal presidente venezuelano, la sua posizione al vertice della Commissione Esteri lo rende effettivamente in grado di influenzare l’attività legislativa. I suoi sforzi, assieme a quelli del capo della Commissione, un’altra repubblicana della Florida, Ileana Ros-Lehtinen, hanno già convinto la Casa Bianca a imporre sanzioni contro l’azienda petrolifera statale del Venezuela, la Petroleos de Venezuela SA (PDVSA) lo scorso 24 maggio. Mack ha dichiarato che il suo unico obiettivo di quest’anno è quello di stringere il cerchio intorno a Hugo Chavez.

 

L’audizione di due settimane fa, dedicata interamente al Venezuela, è stata seguita da alcuni alti funzionari del Dipartimento di Stato, del Tesoro e dell’Ufficio per il Controllo degli Assets Stranieri. In una dichiarazione che aveva preceduto l’audizione, l’assistente Sotto Segretario di Stato per l’America Latina, Kevin Whitaker, aveva rivelato che l’amministrazione Obama starebbe “seriamente considerando” di inserire ufficialmente il Venezuela tra gli ‘Stati Terroristici’. “Ancora nessuna ipotesi concreta è stata messa sul tavolo ma il Dipartimento continuerà a studiare con attenzione quali mosse potrebbero rendersi necessarie nel prossimo futuro”, ha continuato Whitaker.

 

Le sanzioni unilaterali imposte alla compagnia petrolifera venezuelana sono state inserite nel US Iran Sanctions Act e includono il divieto di firmare contratti diretti di approvvigionamento con il Governo degli Stati Uniti, di chiedere prestiti alla US Import-Export Bank e di ottenere specifiche tipologie di licenze tecnologiche. In realtà questa mossa ostile non ha provocato alcun tipo di conseguenza economica nel paese sudamericano dal momento che l’azienda in questione già da tempo non stringe contatti con il governo degli Usa, né tanto meno ha in sospeso prestiti finanziari con banche nordamericane. Per di più queste sanzioni non hanno minimamente intaccato né le importanti forniture di petrolio che dal Venezuela partono verso gli Stati Uniti né le operazioni della filiale statunitense della compagnia venezuelana, la Citgo.

 

Le sanzioni hanno invece avuto effetti negativi sulla diplomazia tra Caracas e Washington, deteriorandone ulteriormente le relazioni. Dopo le ultime mosse degli Usa, infatti, il governo venezuelano ha dichiarato ‘congelato’ il rapporto tra i due stati.

 

 

Fare affari con la PDVSA è pericoloso

 

Secondo il Dipartimento di Stato, nonostante le sanzioni contro la Pdvsa non abbiano registrato alcun tipo di impatto negativo sull’economia del Venezuela, “sottolineano a tutto il mondo la pericolosità di stringere rapporti commerciali con il Paese sudamericano e con la compagnia petrolifera in questione”, lasciando ipotizzare eventuali ritorsioni di Washington contro coloro che stringessero accordi o sottoscrivessero trattati con aziende venezuelane.

 

 

Sanzioni contro Conviasa

 

I funzionari Usa hanno inoltre chiesto al Dipartimento di Stato di imporre sanzioni contro la compagnia aerea venezuelana Conviasa per sospetto ‘appoggio al terrorismo’, basando la loro ipotesi sui collegamenti che questa compagnia effettua tra Caracas, Siria e Iran. Senza nemmeno uno straccio di prova i membri del Congresso degli Usa sostengono che i voli incriminati, che in realtà non sono nemmeno più operativi, avrebbero trasportato materiale radioattivo, armi, droga e noti terroristi iraniani e collegati ad Hezbollah.

 

A sostegno di questa accusa i deputati nordamericani avevano citato un articolo apparso nei giorni scorsi sul quotidiano tedesco Die Welt, in cui si sospettava che Iran e Venezuela stessero collaborando alla costruzione di una nuova base missilistica nella regione occidentale del paese sudamericano da cui attaccare gli Usa. In tutta risposta il presidente Chavez ha mostrato le foto di una fattoria a mulini a vento che si troverebbe esattamente nella stessa posizione che le fonti avevano indicato come sede della fittizia base militare.

 

Più sanzioni

 

Il Congresso ha inoltre chiesto con insistenza al Dipartimento di Stato di considerare l’ipotesi di varare ulteriori sanzioni contro il Venezuela, tra cui il divieto di importare prodotti dagli Usa e di effettuare transazioni in dollari. Ma i rappresentanti della Casa Bianca hanno dichiarato che nonostante l’amministrazione stia effettivamente valutando l’applicabilità di nuove azioni offensive contro il governo di Hugo Chavez, considerato ufficialmente come un ‘governo nemico’, dovranno tenere in considerazione il fatto che il Venezuela continua a fornire il 15% del petrolio che gli Stati Uniti importano dall’estero. Solo qualche giorno fa il presidente Obama ha autorizzato l’estrazione di greggio in una nuova area protetta dell’Alaska, lasciando intendere che prima di rompere del tutto le relazioni con il paese sudamericano, Washington intende assicurarsi la propria autosufficienza energetica.

 

 

Sanzioni fino ad oggi

 

Oltre alle sanzioni imposte a maggio contro la Pdvsa, già in precedenza gli Usa avevano intrapreso azioni aggressive contro il governo venezuelano. Nel giugno del 2006, infatti, dopo aver inserito il Venezuela nella lista dei paesi che ‘non cooperano sufficientemente alla lotta contro il terrorismo’, gli Stati Uniti vietarono la vendita al Paese di armi statunitensi o provenienti da qualsiasi altra azienda che utilizzasse tecnologia nordamericana.

 

Per di più già nel 2005 Washington aveva inserito il Venezuela nella lista dei paesi che non collaborano proficuamente alla lotta contro il traffico di droga, facendo scattare automaticamente delle sanzioni economiche contro il paese sudamericano. Di contro il governo degli Usa ha chiarito che allo stato attuale nessuna banca statunitense ha in sospeso prestiti finanziari con Caracas e di conseguenza gli unici finanziamenti che potrebbero essere tagliati consisterebbero nei milioni di dollari che ogni anno gli Usa ‘donano’ ai gruppi di opposizione che lavorano per indebolire il governo di Chavez. E per aggirare questa clausola gli Usa hanno varato insieme alle sanzioni un emendamento secondo il quale è escluso dal provvedimento il supporto americano alle organizzazioni civili che sostengono lo sviluppo della democrazia, assicurandosi così di poter continuare ad appoggiare la destabilizzazione politica del Venezuela.

 

Nel 2007 il Dipartimento di Stato sanzionò tre alti funzionari venezuelani con l’accusa di collegamento al terrorismo internazionale e al traffico di droga e anche in quel caso le accuse si rivelarono infondate. Tra i funzionari ‘incriminati’ figuravano il direttore dei servizi militari, il generale Hugo Carvajal, ex direttore dell’intelligence bolivariana (SEBIN), il generale Henry Rangel e l’ex ministro degli Interni e della Giustizia, Ramon Rodriguez Chacin.

 

L’anno successivo, il Dipartimento del Tesoro indicò due venezuelani di origine siriana, Fawzi Kan’an e Ghazi Nasr al Din, come fornitori di materiale di supporto al terrorismo basandosi su loro presunti collegamenti con Hezbollah, considerato un gruppo terroristico dagli Stati Uniti.

 

Tutte le mosse di Washington lasciano intendere che il governo continuerà ad aumentare l’offensiva contro il Venezuela e attraverso nuove sanzioni tenterà di demonizzare, isolare e screditare l’amministrazione di Chavez.

 

Traduzione di Matteo Finotto


L’Eredità di Obama e i conti con la Libia

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Le guerre degli  ultimi anni nel Vicino Oriente presentano oggi a Obama un conto piuttosto salato da pagare. La guerra civile in Libia, infatti, sta sollevando negli Stati Uniti un confuso dibattito sul ruolo che il Paese dovrebbe ricoprire nella missione della NATO. Le recenti proposte di legge sull’impegno militare statunitense  e sui finanziamenti alla missione libica testimoniano le decisioni (indecisioni) del Congresso statunitense. La confusione e il senso di smarrimento che ne derivano acuiscono la crisi istituzionale tra potere esecutivo e potere legislativo. Una crisi che, oggi, non può che andarsi a collocare  all’interno di un dibattito più ampio,  tutt’altro che archiviato, riguardo al probabile declino della supremazia nordamericana.

 

Lo scorso 3 giugno la Camera dei Rappresentanti esprimeva un giudizio  negativo riguardo all’immediato ritiro di tutte le forze statunitensi dalla Libia. Poche settimane dopo, più precisamente lo scorso 24 giugno, la Camera votava contro l’autorizzazione delle operazioni militari in Libia ma, allo stesso tempo, rigettava una misura volta alla limitazione dei finanziamenti della missione. Confusione pressoché analoga emerge anche all’interno del Senato.

 

Le (sup)posizioni del Congresso

 

Diversi e numerosi sono i fattori che contribuiscono alla confusione in seno al Congresso. Il precedente impegno nei conflitti in Afghanistan e in Iraq  potrebbe essere, in parte, la causa di questa riluttanza verso una politica estera più attiva e assertiva in Libia. Sono conflitti che, con il passare del tempo, raccolgono sempre meno consensi sia a livello internazionale che a livello interno. Alle ormai consolidate esigenze di sicurezza interna, infatti, oggi gli USA aggiungono nuove preoccupazioni legate alle difficoltà che una delle più aspre crisi economiche degli ultimi tempi sta comportando. La crisi economica e i problemi derivanti dal forte indebitamento statunitense hanno permesso di affiancare al consueto approccio internazionalista-ottimista una buona dose di pragmatismo, che ha portato inevitabilmente il Paese a interrogarsi sui suoi limiti e i rischi di un imperial overstretch.

 

Il Congresso sembra quindi farsi portavoce di queste criticità. Le continue divisioni tra un atteggiamento più attivo, interventista e multilaterale (sebbene solo di fatto), come aspirerebbe d’altronde ad essere la politica estera di Obama e una posizione più isolazionista che non ha ancora ben chiaro come gestire le nuove dinamiche internazionali, animano il dibattito interno. Intanto nel Partito Repubblicano, qualcosa sembra cambiare. Vi è una sorta di transazione dalle passate posizioni neoconservatrici della dottrina di Bush a un isolazionismo che sembra aspirare ad una strategia di offshore balancing. Questa strategia, nonché un sempre maggiore impegno selettivo nei conflitti del Vicino Oriente, portano inevitabilmente a chiedersi quali siano gli interessi strategici statunitensi in Libia, quale minaccia possa rappresentare per gli Stati Uniti il regime dei Gheddafi e soprattutto con quali risorse, dopo l’Iraq e l’Afghanistan, si intenda procedere. Domande che, alla luce dei recenti avvenimenti, anche lo stesso partito democratico inizia a porsi, mettendo inevitabilmente in discussione la politica estera di Obama. In particolare per il repubblicano Tom McClintock votare a favore del disegno di legge che prevede un maggior finanziamento alla missione significherebbe semplicemente entrare ugualmente nel conflitto libico, solo che questa volta l’entrata avverrebbe dalla «porta sul retro». Un piccolo gruppo di Liberal democratici e Repubblicani conservatori ha affermato la necessità di opporsi alle posizioni assunte da Obama il più aspramente possibile, per evitare un ‘accentramento di potere nelle mani del Presidente’ e impedire che il Congresso venga messo da parte riguardo alle decisioni cruciali per il Paese.

 

Le posizioni di Obama

 

Obama ha dichiarato di non aver bisogno dell’autorizzazione del Congresso per l’intervento, sostenendo che il War Power Act del 1973 non si applica a ciò che sta avvenendo in Libia. La risoluzione prevede infatti che il Presidente possa inviare forze armate in azione all’estero solo previa autorizzazione del Congresso o in caso di emergenza nazionale. In quest’ultimo caso, le forze dispiegate su autorizzazione del Presidente non potrebbero, comunque, restare più di 60 giorni. Il termine quindi sarebbe ormai scaduto per le forze statunitensi in supporto alla crisi libica. Tralasciando il dibattito sulla  costituzionalità o meno del War Power Act, Obama non sembra tuttavia essere un caso sui generis, dato che in passato altri presidenti hanno volontariamente ignorato la War Power Resolution. Si riapre così un vecchio dibattito che indigna  il Congresso e anima lo scontro tra poteri istituzionali.

Hilary Clinton ha recentemente affermato che gli Stati Uniti devono stare con i Paesi amici e i suoi alleati, tutti uniti contro Gheddafi, evidenziando la volontà di Obama di affrontare la crisi libica con un approccio multilaterale. Il segretario generale della NATO Rasmussen dichiara che la guerra avrebbe già fatto 15 mila morti e oltre 30 mila prigionieri, ragion per cui l’intervento della NATO in Libia risulta cruciale per una risoluzione favorevole, almeno dal punto di vista Occidentale, del conflitto. Resta tuttavia da chiedersi quanta armonia ci sia oggi all’interno della NATO stessa, che sta portando avanti una missione in Libia senza veder coinvolti molti dei suoi membri. Ma soprattutto resta da chiedersi in che misura l’Organizzazione atlantista abbia contribuito al benessere reale della popolazione libica.

 

 

 

Il dibattito

 

La crisi libica di questi giorni rappresenta solo la punta di un iceberg. L’iceberg in questo caso simboleggia la tanto decantata crisi del primato statunitense. E’ un dibattito che nel corso del tempo torna in modo ciclico e puntuale ogni volta che gli Stati Uniti si trovano in un punto cruciale della loro storia. Tuttavia Obama non sembra aver avuto alcuna esitazione su quale approccio adottare a livello di politica estera. I dubbi e le incertezze però non hanno risparmiato il Congresso che è tornato a dividersi tra una concezione del  ruolo del proprio Paese come messianico e salvifico, e una visione di Realpolitik caratterizzata da una strategia di offshore balancing. Il dibattito tra declinisti e anti-declinisti è in corso, le motivazioni a supporto sembrano essere piuttosto plausibili da entrambe le parti, quale sarà allora il futuro di quella che, per quasi un ventennio, è stata spesso  definito come ‘iperpotenza solitaria’? La sfida per Obama è aperta, il successivo banco di prova saranno le prossime elezioni presidenziali. Non resta quindi che aspettare e vedere se, anche in questo caso, gli Stati Uniti saranno in grado di confrontarsi con le nuove dinamiche internazionali e soprattutto se saranno in grado di pagare i salati conti che la Libia presenta oggi.

 

 

 

 

 

*Fabrizia Di Lorenzo (laureanda in Scienze internazionali e diplomatiche – Università di Bologna)

 

La NATO e l’ingratitudine dei Libici

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Fonte: “Reseau Voltaire

 

La Coalizione dei volenterosi era giunta in Libia per salvare la popolazione civile della repressione del tiranno Gheddafi. Quattro mesi dopo, le folle libiche hanno disertato il territorio liberato di Bengasi e si sono ammassate in grandi manifestazioni contro la NATO. Di fronte a una realtà politica inaspettata, l’armada dell’Alleanza Atlantica non ha più una strategia. Gli italiani hanno iniziato il loro ritiro, i francesi cercano la via d’uscita.

 

Il governo libico sperava di raccogliere un milione di persone il 1° luglio 2011 a Tripoli, per protestare contro la NATO. Per la sorpresa delle autorità, così come dell’Alleanza Atlantica, erano 1,7 milioni.

111 giorni dopo l’inizio dell’intervento della coalizione dei volenterosi in Libia, nessuna soluzione militare è in vista e gli esperti sono tutti d’accordo che il tempo è a favore del governo libico, ad eccezione della fortuna e dell’omicidio di Muammar al-Gheddafi.

Il 7 luglio, il Consiglio dei Ministri italiano ha dimezzato l’impegno del paese nello sforzo bellico e ha ritirato la sua portaelicotteri. Il presidente Silvio Berlusconi ha detto che era sempre stato ostile a questo conflitto, ma è stato costretto dal Parlamento a parteciparvi.

Il 10 luglio il ministro della difesa francese, Gérard Longuet, ha evocato una soluzione politica che comporterebbe la partenza di Gheddafi “in un’altra ala del suo palazzo e con un altro titolo“. Dato che non c’è più un palazzo, la prima condizione è puramente formale, quanto alla seconda, nessuno ne capisce il significato, se non che si tratti di una scappatoia semantica.

Le strutture politiche e sociali libiche provengono dalla cultura locale e sono ovviamente difficili da comprendere per molti occidentali. Si tratta di un sistema unicamerale di democrazia partecipativa, che funziona molto bene a livello locale, insieme a un forum tribale che non è una seconda camera, un senato, in quanto non ha potere legislativo, ma integra la solidarietà dei clan nella vita politica. A questo dispositivo, si combina la figura della “Guida“, che non ha alcun potere legale, ma autorità morale. Nessuno è obbligato a obbedirgli, ma la maggior parte lo fa, come agirebbero nelle loro famiglie nei confronti di un anziano, benché nulla li costringa. Nel complesso, questo sistema politico è tranquillo e le persone non mostrano paura della polizia, tranne durante i tentativi di presa del potere, o durante l’ammutinamento nel carcere di Abu Salim (1996) che furono repressi in modo particolarmente sanguinoso.

Questi dati permettono di percepire l’assurdità degli obiettivi della guerra della Coalizione dei volenterosi.

Ufficialmente si tratta dell’appello del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a proteggere le vittime civili della repressione di massa. Ma oggi, i libici sono convinti che la repressione non è mai esistita e che la forza aerea libica non ha mai bombardato i quartieri di Bengasi e Tripoli. La parte del popolo libico che credeva alle informazioni diffuse dalle reti televisive internazionali, ha cambiato idea. Le persone, che hanno tutte parenti e amici sparsi in tutto il paese, hanno avuto il tempo di conoscere i pericoli che corrono le loro famiglie, e hanno concluso che sono stati ingannati.

Su questo tema, come su molti altri, il mondo è ora diviso tra coloro che credono alla versione degli Stati Uniti e quelli che non ci credono. Per parte mia, attualmente risiedo a Tripoli nella zona considerata ostile a Gheddafi, che si sarebbe sollevata contro di lui e che sarebbe stata bombardata dalla sua aviazione, all’inizio del conflitto. Posso attestare che non vi è alcuna traccia di tali eventi, ad eccezione di una macchina bruciata. Gli unici edifici che sono stati bombardati sono gli edifici pubblici che sono stati distrutti dai missili della NATO.

In ogni caso, i principali leader della NATO hanno pubblicamente citato un altro scopo della guerra, che alcuni membri della Coalizione non sembrano condividere: le dimissioni di Gheddafi, il “cambio di regime“. Si sprofonda quindi in una confusione inestricabile. Da un lato, questo non ha alcuna base giuridica ai sensi delle pertinenti risoluzioni delle Nazioni Unite, e non è connesso con l’obiettivo dichiarato di proteggere le popolazioni represse. D’altra parte, le dimissioni di Gheddafi non hanno senso, dal momento che non ha alcun ruolo istituzionale, ma solo un’autorità morale che emerge dalle strutture sociali e non politiche. Infine, non vediamo con quale diritto i membri della NATO si oppongono al processo democratico e decidono al posto del popolo libico che deve mettere da parte uno dei suoi leader.

Inoltre, questa confusione conferma che questa guerra ha dei secondi fini, che non sono condivisi da tutti i membri della Coalizione dei volenterosi.

Il principio di un attacco simultaneo alla Libia e alla Siria, è stato attivato dagli Stati Uniti nella settimana successiva agli attacchi dell’11 settembre 2001. Fu per la prima volta esposta pubblicamente da John Bolton, allora Assistente del Segretario di Stato, nel suo discorso del 6 maggio 2002 dal titolo “Oltre l’Asse del Male“. E’ stato confermato dal generale Wesley Clark, in una famosa intervista televisiva, il 2 marzo 2007. L’ex comandante della NATO presentò la lista degli stati che sarebbero stati successivamente attaccati dagli Stati Uniti, negli anni successivi.

Gli straussiani [1] avevano inizialmente pianificato di attaccare l’Afghanistan, l’Iraq e l’Iran come parte della ‘ridefinizione del Medio Oriente’ e poi, nella seconda fase, di attaccare la Libia, Siria e Libano per estendere il processo di ridefinizione del Levante e del Nord Africa, e ancora, una terza fase per attaccare la Somalia e il Sudan, per rimodellare l’Africa orientale.

L’attacco all’Iran è stato rinviato per ovvie ragioni militari, e siamo entrati direttamente nella fase II, non correlata agli eventi reali o immaginari di Bengasi. La Coalizione dei volenterosi si trova imbarcata in un processo che non voleva e che la sovrasta.

La strategia degli Stati Uniti, attuata da Francia e Regno Unito – associate, come ai bei vecchi tempi della spedizione di Suez-, era basata su una analisi particolarmente fine del sistema tribale in Libia. Sapendo che i membri di alcune tribù -soprattutto i Warfallah- sono stati esclusi da posizioni di responsabilità, a seguito del colpo di stato fallito del 1993, la NATO aveva alimentato le loro frustrazioni, li aveva armati e usati come leva per rovesciare il regime e installare un governo filo-occidentale. Secondo Berlusconi, Sarkozy e Cameron avevano indicato, in una riunione degli alleati del 19 marzo, che “la guerra sarebbe finita se ci fosse stata, come prevedevano, una rivolta della popolazione di Tripoli contro il regime attuale“.

Questa strategia ha raggiunto il suo zenit il 27 aprile, con l’appello di 61 capi tribali a favore del Consiglio Nazionale di Transizione. Si noti che in questo documento, non c’è più la questione dei massacri attribuiti al “regime” a Bengasi e a Tripoli, ma la sua presunta intenzione di commetterli. I firmatari ringraziavano la Francia e l’Unione Europea per aver impedito un massacro annunciato, e non di aver fermato un massacro in corso.

Dopo quell’appello, in modo continuo e senza interruzioni, le tribù dell’opposizione si sono unite, una dopo l’altra, al governo di Tripoli e i loro leader hanno fatto pubblicamente giuramento di fedeltà a Muammar Gheddafi. In realtà questo processo è iniziato molto prima ed è stato messo in scena l’8 marzo, quando la “Guida” aveva ricevuto l’omaggio dei leader tribali al Rixos Hotel, tra i giornalisti occidentali trasformati in scudi umani e storditi da questa nuova provocazione.

Questo può essere spiegato semplicemente: l’opposizione interna a Gheddafi non aveva alcun motivo di rovesciare il regime, prima degli eventi di Bengasi. L’appello del 27 aprile si basava sulle informazioni che i firmatari considerano, oggi, un inganno. Pertanto, ognuno di loro si si è unito al governo nazionale nella lotta contro l’aggressione straniera. Secondo la cultura musulmana, i ribelli che hanno dimostrato la loro buona fede sono stati perdonati e automaticamente incorporati nelle forze nazionali.

Non importa, nella nostra analisi, sapere se la repressione del regime di Gheddafi sia una realtà storica o un mito della propaganda occidentale, ciò che conta è sapere a cosa oggi credono i libici come popolo sovrano.

Qui dobbiamo rispettare l’equilibrio delle forze politiche. Il Consiglio nazionale di transizione (CNT) non è riuscito a crearsi una base sociale. La sua capitale provvisoria, Bengasi, era una città di 800.000 abitanti. Centinaia di migliaia di loro hanno celebrato la sua creazione a febbraio. Oggi la “città liberata dai ribelli” e “protetta dalla NATO” è in realtà una città fantasma con poche decine di migliaia di persone, spesso si tratta di persone che non possono permettersi di andarsene. I bengasini non sono fuggiti dai combattimenti, sono fuggiti al nuovo regime.

Al contrario, il “regime di Gheddafi” è stato in grado di mobilitare 1,7 milioni di persone durante la manifestazione a Tripoli del 1° luglio, e sta impegnandosi nell’organizzazione di eventi regionali ogni Venerdì. La scorsa settimana, erano ben più di 400000 a Sabha (Sud) e si aspetta una folla simile Venerdì ad az-Zawiyah (ovest). Si noti che queste manifestazioni sono dirette contro la NATO, che ha ucciso più di mille dei loro compatrioti, distrutto infrastrutture non petrolifere del paese e tagliato tutti i rifornimenti con un blocco navale, e ruotano attorno al supporto alla “guida” come leader anti-coloniale, ma ciò non significa necessariamente l’approvazione a posteriori di tutti gli aspetti della sua politica.

In definitiva, il popolo libico ha parlato. Per lui, la NATO non è venuto a proteggerlo, ma a conquistare il paese. È Gheddafi che lo protegge dall’aggressione occidentale.

In queste condizioni la NATO non ha una strategia. Nessun “Piano B”. Niente. Le defezioni nel Consiglio nazionale di transizione sono così numerose che, secondo la maggior parte degli esperti, i “ribelli” non vanno oltre agli 800-1000 combattenti, anche se pesantemente armati dall’Alleanza, ma incapaci di svolgere un ruolo significativo, senza un sostegno popolare. E’ probabile che i commando delle forze speciali impiegati dalla NATO sul terreno, sono più numerosi dei combattenti libici che inquadrano.

Il ritiro dell’Italia e le dichiarazioni del ministro della difesa francese non sono sorprendenti. Nonostante la sua potenza di fuoco senza eguali nella storia, l’armada della NATO ha perso questa guerra. Non certo sul piano militare, ma perché ha dimenticato che “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi” e che politicamente è sbagliata. Le urla di Washington, che ha ammonito il ministro francese e rifiuta di perdere la faccia, non cambieranno nulla.

 

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio

http://www.aurora03.da.ru

http://www.bollettinoaurora.da.ru

http://aurorasito.wordpress.com

 

Alberto Justo Sosa, Alianza Argentina-Brasil e Integración Suramericana

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Alberto Justo Sosa

Alianza Argentina-Brasil e Integración Suramericana

Editorial Biblos – Buenos Aires 2011

Il Libro
Nell’opera vengono analizzati momenti distinti della relazione tra il Brasile e l’argentina, ad esempio le tappe Perón-Vargas; Alfonsín-Sarney; Menem-Collor de Mello, Menem-Cardoso; e quella Néstor e Cristina Kirchner-Lula Da Silva.

Il libro riporta un prologo del prof. Luiz Alberto Moniz Bandeira, importante storico del Brasile, membro del Comitato scientifico di Eurasia (altro…)

Il successo della Turchia non si spiega con la sola economia

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Fonte: Global Research

http://www.globalresearch.ca/index.php?context=viewArticle&code=BAR20110624&articleId=25382

 

Molti commentatori stanno basando il successo del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo della Turchia (AKP) nelle scorse elezioni del 12 giugno in gran parte sulla sua capacità di guidare il Paese attraverso un decennio di notevole crescita.

Gli indicatori economici sono spesso visti come fattori necessari dietro la stabilità economica – la cui assenza, invece, incide in maniera inversa. Tuttavia, solo questi non sono sufficienti per dare giudizi così definitivi.

In un articolo intitolato: “Guardare oltre l’economia della Turchia per comprendere la rielezione di Erdogan”, Ibrahim Ozturk afferma: “Dal 2002 al 2007, la Turchia ha conosciuto il più lungo periodo di ininterrotta crescita economica, in media il 6-7% l’anno, mentre l’inflazione annua è scesa in maniera considerevole. Inoltre, l’economia ha resistito alla prova della crisi finanziaria globale, recuperando attraverso una crescita rapida” (commento apparso sul libanese ”The Daily Star”, del 18 giugno).

Secondo la puntuale analisi di Ozturk, il successo del Partito AKP nel recuperare i pezzi di un’economia in frantumi (come conseguenza della grave crisi economica del 2001), e la grande popolarità del Primo Ministro Recep Tayyip Erdogan “sembrano aver assicurato il controllo politico e democratico della burocrazia e dei militari in Turchia. Il potente esercito turco aveva ripetutamente interferito, in passato, nella politica del Paese, guidando tre colpi di stato militari che d’altronde non sono riusciti a minare seriamente la democrazia turca”.

La molto promettente esperienza politica turca, ormai bollata come il “Modello Turco”, ha dovuto affrontare numerose sfide. E’ stato necessario che si formasse una nuova generazione di leader turchi per garantire al Paese un ruolo di potenza regionale politicamente stabile e con una economia in crescita (il PIL ha registrato un incremento del 9% nel 2010).

Pertanto, sono state delle politiche disinvolte a generare un’economia forte, o è stata una crescita economica responsabile a favorire una stabilità politica (tanto da placare l’attivismo dei militari e consolidando così ulteriormente l’esperienza democratica della Turchia)?

La Libia è un interessante esempio da prendere in considerazione per riflettere sulla questione. Il Paese nordafricano, che è attualmente coinvolto in una rivolta armata, subendo le conseguenze di una guerra guidata dall’Occidente, ha potuto beneficiare di indicatori numerici molto elevati. Grazie alle rendite del petrolio e ad una popolazione ridotta, la Libia ha il più alto PIL pro capite dell’Africa. La sua crescita economica è stata relativamente stupefacente a partire dal 2000. Nel 2010, il PIL è cresciuto di oltre il 10%.

Per molti libici però, la giustizia sociale, la redistribuzione della ricchezza, la libertà politica e altre questioni rappresentano temi di maggiore rilevanza rispetto a qualsiasi gratificante dato del PIL.

Anche in Egitto, nonostante la consistente povertà che tocca gran parte della popolazione (diversamente dalla Libia), i giovani della rivoluzione del 25 gennaio provenivano da vari ambienti economici. Per molti di loro, la libertà pareva essere prioritaria rispetto alla mera sussistenza economica.

Il caso della Turchia non è dissimile da questi. Infatti, una riflessione sul successo della Turchia non può essere ridotta ad un decennio di crescita economica e stabilità politica. Inoltre, la “moderna Turchia” non può essere considerata solo in merito ai successi palpabili conseguiti dall’AKP. È dunque necessario risalire alle precedenti generazioni, a cominciare da Mustafa Kemal Ataturk, il fondatore della Repubblica di Turchia. La più importante figura pubblica agli occhi di diverse generazioni di turchi, Ataturk è riuscito ad ottenere l’indipendenza della Turchia – risultato, questo, non facile, considerando le sfide del tempo. Tuttavia, né lui, né il suo stile politico hanno risolto la questione dell’identità culturale e politica della Turchia intesa come un Paese a maggioranza musulmana che definiva la “modernità” basata quasi esclusivamente su valori occidentali. Questa considerazione, in realtà, è stata dibattuta nel Paese per decenni.

Si potrebbe sostenere che collocare la Turchia in un adeguato contesto socio-economico, culturale e politico sia stata una delle maggiori sfide contemporanee per la politica turca.

Per decenni, la Turchia è stata divisa tra i suoi legami storici con Paesi musulmani e arabi, da un lato, e la spinta verso un’impulsiva occidentalizzazione, dall’altro. Quest’ultimo fattore è sembrato molto più influente nel formare la nuova identità turca nelle sue manifestazioni individuali, collettive, e quindi anche nelle sue prospettive di politica estera.

Anche durante questo “tira e molla” tra diverse tendenze, la Turchia è cresciuta di importanza come attore politico ed economico. Si è dunque trasformata in una nazione ricca di senso di sovranità, di orgoglio e di audacia per affermarsi quale potenza regionale.

Durante gli anni ’70, quando l’Islam politico era in ascesa in tutta la regione, la Turchia stava ripensando il proprio ruolo. Vari gruppi politici hanno iniziato ad affrontare l’idea di ridefinire l’Islam politico ad un livello completamente nuovo.

In effetti, fu il compianto dott. Necmettin Erbakan, Primo Ministro della Turchia tra il 1996 e il 1997, ad iniziare la sfida nei riguardi del concetto convenzionale di Turchia quale membro di seconda classe della NATO profondamente impegnato a favorire un’idea tutta occidentale del Paese.

Alla fine degli anni ’80 il Rafah Party (Partito del Benessere) di Erbakan ottenne il successo in Turchia. Il partito diede limitate spiegazioni circa le sue radici islamiche e il suo atteggiamento politico. La sua ascesa al potere a seguito delle elezioni generali del 1995 aveva sollevato alcune preoccupazioni, come l’idea che la solida Turchia “filo-occidentale” stesse deviando dal suo rigido copione originario che l’aveva disegnata quale potenza regionale “lacchè della NATO”, (una frase usata lo scorso anno da Salama as-Salama in un articolo apparso su Al-Ahram Weekly).

I giorni di Erbakan potrebbero essere del tutto andati, ma la sua eredità non si è mai estinta nella coscienza nazionale turca. Egli iniziò un processo di riposizionamento della Turchia – politico, oltre che economico – con la creazione del Developing Eight (D-8), che raggruppava al suo interno i Paesi arabi e musulmani più rilevanti. Quando Erbakan fu costretto a dimettersi in seguito ad un colpo di stato militare “postmodernista”, ciò fu inteso come la fine del breve esperimento politico.

Ma la vittoria elettorale dell’AKP, nel 2002, ha ridato vita alle idee di Erbakan attraverso gli sforzi di una giovane e sapiente nuova leadership politica. Questo progetto è stato, da poco, premiato con un terzo mandato per proseguire il programma di crescita economica e di riforme politiche e costituzionali.

Oggi la Turchia sembra poter offrire molto più che la sola stabilità interna. Essa si sta dimostrando un interessante modello regionale da emulare per i suoi vicini, fornendo un contributo importante in un’epoca delle rivolte arabe e di potenziali trasformazioni politiche.

E’ essenziale che l’esperienza turca non venga ridotta ad una semplice sfilata di numeri e grafici che delineano una crescita economica. Si pensi al fatto che alcuni Paesi molto ricchi siano tuttavia politicamente inquieti. Il successo del “modello turco” sostituisce la stessa economia a favore di una equilibrata governance politica, a vantaggio della democrazia e della rivitalizzazione della società civile e delle sue numerose istituzioni.

Indicatori economici positivi possono essere promettenti, ma senza una leadership responsabile che riesca a guidare la crescita e a distribuire ricchezza, la stabilità politica del Paese non può essere garantita.

(Traduzione di Giuseppe Dentice)

 

* Ramzy Baroud (www.ramzybaroud.net) è un giornalista internazionale di varie agenzie di stampa e direttore di “PalestineChronicle.com”. È inoltre un consueto collaboratore di Global Research.

 

 

Aldo Braccio: “La Turchia sta diventando un Paese sovrano”

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Aldo Braccio, redattore di “Eurasia”, è stato intervistato da Fabrizio di Ernesto per l’Agenzia Stampa Italia a proposito dell’imminente uscita del suo nuovo libro, Turchia ponte d’Eurasia (Fuoco Edizioni, Roma 2011). Nell’intervista Braccio discute il ruolo internazionale della Turchia, il difficile avvicinamento all’Unione Europea, le rivolte arabe e la politica interna del paese anatolico. Riportiamo il testo integrale dell’intervista, che si può leggere in originale cliccando qui.

 

(ASI) Proprio in questi giorni sta uscendo il suo saggio TURCHIA PONTE D’EURASIA. Che ruolo svolge Ankara in questo momento sullo scenario mondiale, ed in particolare all’interno del blocco eurasiatico?

Per la verità in questo particolare momento la Turchia sta giocando un ruolo di basso profilo, suscettibile di diverse interpretazioni. Infatti sia nel caso libico che in quello siriano – due Paesi arabi che hanno costituito interlocutori importanti, specie il secondo, per Ankara – il governo si è un po’ rimesso alle decisioni e alle pretese della cosiddetta “comunità internazionale”, ossia del mondo atlantico/occidentale a guida statunitense. Tuttavia, esaminato in un contesto temporale più ampio, il ruolo della Turchia appare senza dubbio innovativo e decisamente responsabile: un Paese sovrano e non più semplice “sentinella dell’Occidente”, che vuole essere protagonista di nuovi e più stabili equilibri e che dà anche sostanza a un discorso eurasiatico.

Il libro esamina la “questione turca” da un punto di vista storico (il suo passato imperiale e poi “kemalista”, gli ultimi e più recenti anni di svolta), geopolitico e culturale (i suoi rapporti con l’Europa, ad esempio), cercando di sfatare determinati luoghi comuni su un mondo affascinante ma spesso incompreso.

 

La Turchia è posta a cavallo tra Europa ed Asia, troppo orientale agli occhi dell’occidente e troppo europea per gli asiatici. Quale è a suo giudizio la giusta collocazione del paese e perché?

La risposta, in un certo modo, viene dalla Storia, e in particolare dalla storia delle grandi formazioni imperiali poste tra Europa e Asia: l’impero di Alessandro, quello romano, quello bizantino e quello ottomano comprendevano tutti terre europee e terre asiatiche, e in tutti figurava – come elemento intermedio e di collegamento – l’Anatolia. Questa è la giusta collocazione della Turchia, rappresentata sinteticamente da Istanbul/Costantinopoli/Bisanzio.

 

Ritiene allora che un certo spirito imperiale possa trovare corrispondenza e riscontro  nella Turchia, e che ciò possa giovare all’Europa ?

Quando si parla di suggestioni imperiali o neottomane della Turchia si esprime, con una formulazione magari imprecisa, una verità di cui bisognerebbe tener conto: nel senso che la Turchia tende ormai a mettere da parte l’orientamento rigidamente nazionalistico perseguito dal kemalismo per recuperare una visione più organica, sia all’interno (rispetto dell’identità curda, di quella religiosa, ecc.) sia all’esterno (ad esempio apertura e dialogo con i Paesi arabi e interventi di mediazione in diverse situazioni critiche internazionali). L’Europa ha sicuramente da avvantaggiarsi da tutto ciò, perché trova un interlocutore attivo e “creativo”,  al centro di una rete di incontri e di alleanze importanti: ma bisogna che anch’essa abbia una politica internazionale forte e indipendente.

 

La Turchia è un mirabile esempio di come possa convivere la laicità dello stato, la modernità e la religione islamica. Può diventare il modello politico di riferimento per le nazioni arabe in rivolta? Sempre in base a questa premessa, in una Europa sempre più mussulmana la Turchia può rappresentare un esempio da seguire?

Considero il termine “modernità” come un disvalore, legato alla “moda” e all’effimero di una società priva di gerarchie e di effettivi vincoli personali e comunitari. Se invece parliamo di Stato (con la s maiuscola), magari di Stato sociale che si sottrae all’accumulazione capitalistica, e di religione islamica (o di religione tout court), e dei rapporti che possono intercorrere fra queste due realtà, allora penso che l’attuale Turchia di Erdoğan possa effettivamente rappresentare un modello interessante; non l’unico certamente, ma un esempio che può trovare riscontro nei Paesi arabi o altrove (forse anche in Europa, dove i valori legati alla religione sono spesso malvisti o sopportati con fastidio).

 

Uno dei tormentoni politici di Bruxelles è quello relativo ad una possibile ammissione di Ankara nell’Unione europea. Qualora la Turchia riuscisse ad entrare nella Ue sarebbe un vantaggio per ambo le parti o solo per una delle due? Ed in caso a quali rinunce sarebbe costretta la Turchia?

Sì, è vero, è un tormentone europeo e in particolare anche italiano. Io penso che bisognerebbe sempre ricordare che l’attuale Unione europea rappresenta, purtroppo, un’entità finanziario-economica sostanzialmente estranea e contraria agli interessi dei popoli europei; politicamente parlando l’Europa risulta essere ad encefalogramma piatto, totalmente asservita a interessi speculativi oligarchici e alla politica estera degli Stati Uniti d’America. Però, sul piano generale e di principio, la Turchia e l’Europa si completano a vicenda: la prima può geograficamente essere considerata la quarta penisola che si affaccia nel Mediterraneo (dopo quelle iberica, italiana e balcanica), e già questo dà il senso del legame che esiste; si aggiunga il ruolo fondamentale che Ankara svolge nell’intermediazione/passaggio di oleodotti e gasdotti dai Paesi produttori a quelli europei. Un vantaggio reciproco, pertanto, ma l’Europa deve riacquistare la sua sovranità per giocare il suo ruolo.

 

Recentemente come Agenzia stampa Italia abbiamo incontrato Akki Hakil, ambasciatore turco in Italia. Questi ci ha parlato degli ottimi rapporti che intercorrono tra Ankara e Teheran. A suo modo di vedere è ipotizzabile la nascita di un asse turcoiraniano in grado di dare stabilità  alla regione mediorientale e fare da contro altare non solo allo strapotere politico e militare di Israele ma anche a quello economico di Cina e India?

Quello con l’Iran è uno dei diversi assi in corso di costruzione e che vedono la Turchia muoversi con spregiudicatezza; l’aspetto sicuramente più positivo è che nell’ottica turca tali assi riescono a convivere e a combinarsi con una certa armonia dando vita a delle piattaforme regionali molto significative, in cui protagonisti del proprio destino sono le nazioni locali e non potenze lontane – d’oltreoceano, addirittura … – che pretendono di continuare a dettar legge a “buoni” e “cattivi”.  L’accordo fra Iran e Turchia è positivo e apportatore di stabilità, anche se scandalizza determinati bacchettoni occidentali e i loro massmedia.

 

Sempre sua eccellenza Hakil ci ha riferito dei grandi progressi compiuti negli ultimi anni dalla Turchia. Secondo lei cosa manca ancora al paese dei Dardanelli per arrivare ai livelli raggiunti dalle nazioni che compongono il ristretto gruppo del Brics?

Manca poco, effettivamente: nel primo trimestre 2010, tanto per citare un dato recente, il Paese dei Dardanelli ha costituito la seconda economia del G20 per crescita del PIL, inferiore solo alla Cina. E la tendenza continua.  Il boom economico turco va di pari passo con le sue direttrici geopolitiche (sono enormemente aumentate le esportazioni verso Iran, Turkmenistan e Stati arabi) e con il cortese ma preciso rifiuto dei prestiti del Fondo Monetario Internazionale (organizzazione che indebita gli Stati).

 

Quale futuro aspetta la Turchia e il paese sarà in grado di gestire il delicato ruolo di ponte tra Europa e Asia?

Un buon futuro, al pari di quello del continente eurasiatico (e, più in generale, un futuro migliore per il mondo!) se si riuscirà a costruire un sistema internazionale più equilibrato, multipolare anziché unipolare a guida statunitense; un sistema in cui il rispetto delle identità e delle differenze prevalga sull’imposizione di modelli unici di pensiero e di economia. La Turchia, fra alti e bassi, mi sembra si muova in questa direzione.

 

Aldo Braccio  è redattore di “Eurasia – rivista di studi geopolitici” e membro del consiglio direttivo dell’IsAG – Istituto di Alti Studi di Geopolitica e Scienze Ausiliarie. Suoi articoli sono apparsi su vari giornali e siti internet, italiani ed esteri. Al Master Mattei in Vicino e Medio Oriente – edizioni 2009 e 2010 – ha tenuto lezioni sulla questione curda.

Nel 2011 ha pubblicato, per i tipi della Fuoco edizioni, il saggio Turchia ponte d’Eurasia.

USA: is payments default the answer?

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The recent economic crisis seems not to have depleted its effects: the United States are now dealing with a very prominent scenario: the declaration of the national default towards the investors and those who possess Treasury bonds.

 

Obama: the speech

 

Just few days ago, United States president Barack Obama declared the situation of the country as being seriously worrying, for the national debt has risen to historical levels.

The risk is that the USA will have to declare, first time ever in their history, a default. This wouldn’t be that worrisome if not for the fact that the States could be followed down, in their fall, by many of the other global countries. The first in line could easily be found in the Chinese Democratic Republic, for the latter possesses a huge amount of U.S. Treasury bonds.

 

President Obama has been discussing, for the past ten days, with many representatives of the national Congress, in order to establish a raise in the national debt legal limit. Nevertheless, the Republicans deeply opposed the presidential proposal of 4 trillion $ in government spending cuts, and then abandoned the negotiations.

 

The deadline

 

Aug. 2nd is the deadline after which the States, if no solution is found, will have to admit the default. Tim Geithner, the Treasury Secretary, said the next week is going to be the time-limit to the achievement of a bipartisan agreement on the financial issue, but the situation still seems to be quite intricate.

 

Senate Minority Leader Mitch McConnell has recently proposed to the president a new authority in order to raise the federal debt limit, without cutting government spending. Whether this compromise solution will be successful is still hard to tell. McConnell claimed the proposal is not his first choice, but he also admitted that nobody wants to give the citizen the impression that default is a real option.

 

The social issue

 

McConnell proposal came after a worrying speech by Obama, warning that both Social Security and disability checks could be delayed next month, in case the two sides fail to reach an agreement: this has certainly pushed more pressure on an already difficult recovery.

 

I cannot guarantee that those checks go out on August 3rd if we haven’t resolved this issue, because there may simply not be the money in the coffers to do it” – said Obama during an interview with the CBS News channel.

And the social issue seems to be the most relevant one also in terms of political popularity. No matter what, the Democrats – Obama first – need to guarantee a social and economic security to the citizens, otherwise the 2012 presidential elections would turn to be a real political disaster.

Not that the present situation is really favourable to the president.

 

Little progress is made

 

According to the meeting occurred yesterday, little progress seems to have been made, as after a two-hour session secretary Geithner opened with a sobering account of the consequences of the default: he warned that ‘this is the wrong time for the United States to be testing its luck with world markets’.

 

The issue now is on the cutting amount: 2.4 billion for the Republicans, almost 4 billions for the Democrats. No deal has been done yet, though discussions are still at stake.

 

A backup plan has, actually, been proposed in case no agreement is reached. That measure would create a new legal structure authorising the president to raise the debt limit by as much as $2.5 trillion in three installments. The first, an increase of $700 billion, would come immediately. The next two, worth $900 billion each, would come this fall and sometime next summer.

 

Obama will then have, on each occasion, to submit to Congress an explicit request for an increase, along with a menu of proposed spending cuts equal to the requested increase. The submission of the president’s first request would automatically raise the limit by $100 billion, in order to give the Treasury Department breathing room while Congress considers the request. 15 days will be given to the lawmakers to decide whether to approve it or not, but Obama could veto the resolution, and the debt limit would rise, provided at least 34 Democratic senators stood firm in upholding his veto.

 

The happy ending

 

Though the situation is quite critical, there is no doubt a solution will be found, even in short time. Default has never really been an option, since the political and economic implications would be enormous and not armless.

There is no real evidence that the effects of the economic turndown will soon disappear, but the States won’t and cannot fail.

 

An happy ending will surely be found for the possessors of Treasury bonds (when they will be paid is not our chance to say), whereas is still to be understood whether the president will discover a good way to regain support and popularity within the electorate.

Given the situation, it is not so unlikely that the next elections will see a republican candidate success.

 

 

Eleonora Peruccacci, master in international relations, is an analyst of the Isag

 

Il paradigma del Bahrein

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Nei giorni in cui Hillary Clinton ha pubblicamente gettato benzina sul fuoco che da mesi incendia la società siriana e Sarkozy pare abbia innestato una brusca marcia indietro rispetto alla posizione oltranzista propugnata finora in relazione all’affaire libico, la rivolta del Bahrein continua ad essere oggetto del più totale oscuramento mediatico.

Definire angusto lo spazio dedicato dagli organi di informazione ai moti che hanno agitato il piccolo arcipelago del Golfo Persico risulta infatti a dir poco eufemistico.

Non a caso, mentre la Siria – che nonostante tutto vede ancora il Baath retto dal presidente Bashar Assad mantenere saldamente le redini del governo – e la Libia – con Gheddafi che continua a tenere in scacco tanto gli aggressori francesi, inglesi e statunitensi (e italiani) quanto i sedicenti “ribelli di Bengasi” loro assistiti – sono state oggetto della più assidua attenzione mediatica e di inaudite campagne mistificatorie atte a screditare i loro legittimi governi impegnati a fronteggiare la note turbolenze sociali che hanno scosso buona parte del complesso universo arabo, sul Bahrein è calata una coltre di silenzio letteralmente assordante.

Le ragioni che hanno dettato tale doppiopesismo hanno  effettivamente assunto, in particolare alla luce degli ultimi sviluppi internazionali, un peso assai consistente sul piatto della bilancia regolatrice dei rapporti di forza all’interno della regione del Vicino e Medio Oriente, i quali sono a loro volta storicamente suscettibili di sortire decisive ripercussioni sugli assetti geopolitici mondiali.

Il Bahrein è un piccolo paese situato a ridosso delle coste dell’Arabia Saudita che supera di poco il milione di abitanti, ma è sede della più grande raffineria della regione ed è dotato di consistenti risorse petrolifere, pur se in via di esaurimento.

I suoi porti ospitano inoltre la poderosa Quinta Flotta statunitense, stanziata in loco allo scopo di dominare l’area strategicamente cruciale del Golfo Persico.

Il fatto poi che circa due terzi della popolazione del Bahrein professi la versione sciita dell’Islam, cosa che favorirebbe la naturale gravitazione del paese attorno all’orbita dell’Iran, costituisce un fattore fortemente destabilizzante in grado di alterare i precari equilibri su cui si regge l’intera area del Golfo.

Nonostante la soverchiante preponderanza sciita il paese è governato col pugno di ferro dal monarca sunnita Salman Ali Khalifa, fedele alleato dell’Arabia Saudita.

Non stupisce quindi che la sollevazione di piazza delle Perle, prontamente emulata in svariate zone del paese, nell’ambito della quale svariate fazioni sciite hanno protestato congiuntamente contro l’ordine costituito, abbia destato forti preoccupazioni nei vicini sauditi che non hanno esitato a sostenere direttamente la repressione messa in atto dal re Khalifa.

L’intervento ordinato dal governo di Riad è stato dettato dal timore che le proteste del Bahrein si sarebbero espanse a macchia d’olio, raggiungendo l’Arabia Saudita.

Ciò avrebbe sortito ripercussioni pesantissime specialmente sul territorio costiero saudita contiguo al Bahrein, nel quale è situato l’immenso giacimento petrolifero di Ghawar e in cui si annida il nocciolo duro della forte minoranza sciita del paese.

Qualora l’onda d’urto provocata dalle proteste della maggioranza sciita del Bahrein si fosse rivelata incontenibile e avesse conseguentemente travolto il governo in carica di Manama le frange professanti il medesimo credo supportate da numerose altre fazioni subordinate della vicina Arabia Saudita si sarebbero presumibilmente spinte a fare altrettanto, nel tentativo di rovesciare l’establishment e detronizzare il dispotico re Saud.

L’Iran si sarebbe indubbiamente inserito nella contesa, brandendo la spada dello sciismo per estendere la propria egemonia sui paesi che si affacciano sul Golfo Persico e assestandosi quindi su chiare posizioni di forza.

Gli Stati Uniti, dal canto loro, non possono tollerare che l’Iran acquisisca ulteriore peso sullo scenario internazionale e hanno quindi tutto l’interresse a che la solidità degli ordini costituiti in Bahrein e Arabia Saudita non venga intaccata, trattandosi dei due più fidi garanti dell’atlantismo nella regione.

Per questi motivi la repentina e brutale ingerenza dell’Arabia Saudita in soccorso dell’alleato Khalifa non è stata oggetto di alcunché, in termini di pressioni e condanne internazionali, lontanamente paragonabile a ciò che hanno dovuto subire regimi come quello di Gheddafi e di Assad.

Il che è assai eloquente sullo stato comatoso dell’informazione e sull’ipocrisia che domina il dibattito politico internazionale, incardinato sulla retorica di quegli stessi diritti umani il cui rispetto viene preteso dai regimi retti dai vari Gheddafi, Assad, Ahmadinejad (l’elenco sarebbe lunghissimo) e la cui violazione viene parallelamente tollerata, quando non sostenuta, se ascrivibile ai governi presieduti dai propri alleati che rispondono al nome di Saud, Khalifa, Netanyahu.


Intervento militare in Libia: lettera aperta ai deputati ed ai senatori

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Fonte: “France-Irak Actualité

 

Signor/a deputato/a,

Signor senatore/Signora senatrice,

 

Avendo soggiornato una settimana a Tripoli dall’8 al 14 giugno scorso, nell’ambito di un reportage sulla situazione in Libia per la rivista “Afrique Asie” (1), credo sia mio dovere testimoniare ciò che lì ho visto e sentito, e comunicarvi delle informazioni che non sono state riportate dai media francesi.

 

Tengo a sottolineare da subito, che questa lettera non è un’arringa per il colonnello Gheddafi o il suo regime. Penso, come molti francesi, che l’avvenire della Libia sia una libera scelta del popolo libico, che il conflitto debba essere risolto con la negoziazione, senza ingerenze né francesi né straniere. Inoltre, bisogna constatare che l’intervento “umanitario” della Francia e della NATO in Libia, che dovrebbe proteggere la popolazione in virtù della risoluzione 1973 dell’ONU, provoca la morte di centinaia di civili. Proseguire in questa ingerenza negli affari libici è pericoloso per la stabilità nel Mediterraneo.

 

Sono arrivato a Tripoli l’8 giugno, a seguito del più importante bombardamento che ha vissuto la città dopo l’inizio della guerra: 60 attacchi che hanno causato la morte di 31 civili e numerosi feriti. Ho saputo che questa operazione non era stata lanciata soltanto per distruggere dei siti militari, ma perché il 7 giugno è… il giorno del compleanno del colonnello Gheddafi.

 

La Francia di Sarkozy contro quella del Generale de Gaulle

 

E’ vero che molti libici facevano la fila ai posti di frontiera per rifugiarsi in Tunisia, ma non ho visto particolare agitazione o spiegamento di poliziotti al mio arrivo a Tripoli.

 

Le informazioni secondo cui i libici vivrebbero chiusi in casa per paura della repressione delle forze del regime, sono false. Di fronte al mare, delle famiglie passeggiano. Nelle terrazze dei caffè, si fuma il narghilè. Le discussioni si fermano non appena si avverte il ronzio degli aerei – volano a 5000 metri d’altitudine. Gli sguardi tentano di scorgerli, invano. E’ un Rafale francese o un Tornado britannico? Qualche secondo più tardi, una bomba esplode in lontananza, poi un’altra. Tutti si chiedono dove sono caduti i missili. Alcuni telefonano alla famiglia, poi rassicurati, riprendono la conversazione. Non ho constatato nessuna scena di panico, ma soltanto collera da parte di chi mi chiedeva chi fossi e perché mi trovassi lì. Essi non ce l’avevano con “la Francia del generale de Gaulle“, ma con quella di Nicolas Sarkozy – e di Bernard Henri Lévy – all’origine di questa guerra e delle sue conseguenze mortali per la popolazione civile.

 

Più di un migliaio di civili uccisi

 

L’intervento militare in Libia – un terzo degli attacchi è effettuato da aerei francesi – non ha nulla di “umanitario“. Il bombardamento di un paese straniero, quale che sia, è un atto di guerra. Più di un migliaio di civili è stato ucciso, tre volte di più sono gravemente feriti. D’altra parte, in maggior numero moriranno di cancro negli anni a seguire, poiché le testate dei missili e i loro alettoni sono di uranio impoverito. A Tripoli, dei manifesti definiscono Nicolas Sarkozy… un “assassino di bambini“.

 

Ho visitato un ospedale e visto dei civili – e soprattutto dei bambini – feriti dalle “bombe intelligenti” della NATO. Ho fatto qualche domanda ad una ragazzina di 12 anni, traumatizzata dal rumore del missile che ha distrutto la sede del Comitato anti-corruzione, situato vicino casa sua. Suo padre, avvilito, mi ha raccontato che la figlia non era riuscita a sopportare le ultime esplosioni. Terrorizzata dal massiccio bombardamento del 7 giugno, aveva inghiottito delle medicine prescritte a sua madre. Malgrado una lavanda gastrica, le sue membra inferiori sono paralizzate.

 

Ero stato nel suo quartiere all’alba e avevo visto i i danni causati ai due immobili distrutti e alle loro vicinanze. Il custode delle rovine del Comitato anti-corruzione e gli abitanti delle vicinanze mi hanno detto che il lancio dei missili aveva lo scopo di ridurre in cenere i documenti di un certo numero di membri del CNT di Bengazi, implicati in alcuni scandali.

 

Denuncia davanti alla Corte Penale Internazionale

 

Gli avvocati Roland Dumas, vecchio ministro francese degli Affari esteri, e Jacques Vergés sono andati a Tripoli, a fine maggio, per incontrare le famiglie di vittime dei bombardamenti. Una denuncia sarà depositata alla Corte Penale Internazionale contro Nicolas Sarkozy per ” crimini contro l’umanità“. Altre denunce sono state sporte a Parigi e a Bruxelles da parte di Aicha Kadhafi contro Sarkozy, Gerard Longuet – attuale ministro della Difesa – e la NATO, per la morte di sua figlia Moustoura – una neonata di 4 mesi – durante il bombardamento della casa della famiglia del colonnello Gheddafi. Uccisi quello stesso giorno anche: uno dei figli del colonnello e tre dei suoi nipoti. L’attacco è attribuito ad un Rafale francese. Il leader libico aveva lasciato il suo domicilio, con sua moglie, una mezz’ora prima. La NATO applicava la fatwa dello sceicco estremista Yusuf al-Qardaoui, predicatore di Al- Jazeera, che chiedeva di assassinare Gheddafi?

 

Dirottare i voti dal Fronte Nazionale

 

Nel 2008, Nicolas Sarkozy dichiarò che le casse dello Stato erano vuote… In seguito, la situazione economica della Francia si è deteriorata, ma questo non le ha impedito di lanciarsi in una guerra, che credeva essere lampo, contro la Libia. Per lui si trattava di dimostrare ad alcuni elettori di Marine Le Pen che la Francia era ancora capace di “stroncare l’Arabia”. L’idea era di Patrick Buisson, vecchio direttore del Minute, suo consigliere incaricato di dirottare voti dal Fronte Nazionale. Bernard Henry Lévy, ha poi fatto la parte del piccolo telegrafista, tra i ribelli di Bengazi e l’Eliseo, e mobilitato le reti pro-israeliane a favore del Consiglio Nazionale di Transizione (CNT). Questo organismo di circostanza, senza reale rappresentanza, non sopravvisse che grazie alla NATO.

Infine, Claude Guéant, ministro dell’interno, ha affondato il coltello nella piaga paragonando…. l’appello lanciato da Sarkozy ai membri dell’ONU ad una crociata… E’ l’uso di questo termine, con una forte connotazione storico-religiosa – usato da George W. Bush e Osama Bin Laden – che permette al leader libico di definire i suoi aggressori come dei nuovi crociati.

 

Costo della guerra: fattura salata per i contribuenti

 

Nel febbraio 2011, il CNT ha dato a Gheddafi… 72 ore e poi una settimana per lasciare il potere. Cinque mesi più tardi, è ancora lì. La coalizione è l’alleata di Al-Qaida in Cirenaica e l’avvenire della Libia è sempre più incerto. Il 21 giugno, Gérard Longuet, ministro della Difesa, ha stimato il costo aggiuntivo dei primi tre mesi di bombardamenti aerei in 100 milioni di euro. L’operazione Harmattan – nome in codice dell’intervento francese – costerà poco più di un milione di euro al giorno. Certo, la guerra contro la Libia è una buona operazione pubblicitaria per Dassault e i fabbricanti d’armi, ma per i contribuenti francesi – ai quali nessuno ha chiesto la loro opinione – la fattura è salata. Un’ora di volo del Rafale o del Mirage ha un costo tra i 10.000 e i 13.000 euro, il costo di un nuovo missile Scalp tra i 500.000 e gli 800.000 euro.

 

Far tornare la Libia all’era pre-industriale?

 

La Libia era il paese più sviluppato d’Africa secondo l’Indice di sviluppo umano (IDH) creato dal Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo (PNUD). L’IDH tiene conto del PIB per abitante, il livello d’educazione e di aspettativa di vita degli abitanti. In un rapporto del 2011, l’FMI lodava la buona gestione del paese, incoraggiando il colonnello Gheddafi a “continuare a migliorare l’economia”. Centinaia di migliaia di Africani che lavoravano nei cantieri libici sono oggi ammassati in Tunisia ed in Egitto, con la sola speranza di arrivare all’isola italiana di Lampedusa. Chi può rimproverarglielo, visto che la Francia e la NATO sono all’origine della loro disperazione?

L’aggressione di cui è vittima la Libia ha come scopo di farla “ritornare all’era pre-industriale”, per riprendere le minacce pronunciate da James Baker, segretario di Stato americano, nel 1989, a Tarek Aziz prima dello scoppio della prima guerra del Golfo? Il generale Wesley Clark, vecchio comandante in capo della NATO, ha rivelato, nel 2007, che la Libia figurava, dopo 10 anni, su una lista dei paesi da invadere che ha consultato in un ufficio del Pentagono(4). In parte è stato fatto con l’aiuto della Francia.

 

In guerra con false informazioni

 

Una missione indipendente, composta tra gli altri da Yves Bonnet, vecchio direttore della DST, si è recata a maggio a Bengazi e a Tripoli. Essa afferma che la Francia è entrata in guerra con false informazioni. Prima di dibattere dell’intervento francese in Parlamento (2) voi dovete assolutamente leggere il rapporto che ha pubblicato. Ci sono domande che meritano di essere fatte sull’origine delle informazioni e della battaglia mediatica riguardo l’intervento in Libia. Queste informazioni, da fonti incontrollate che non sono mai state confermate, come si sarebbe dovuto, per paura di terreni contraddittori. Come si sono potuti prendere dei soldi con dei reportage tendenziosi della rete televisiva Al-Jazeera, il cui proprietario – l’emiro del Qatar, cugino di uno dei principali capi di tribù della Cirenaica – ha un conto da regolare con il colonnello Gheddafi? Come è possibile che il sollevamento armato si sia prodotto quando stavano per essere annunciate delle riforme democratiche, soprattutto la redazione di una nuova costituzione e delle elezioni? Nicolas Sarkozy ha misurato i pericoli che un’alleanza con Al-Qaidae le organizzazioni che gli sono vicine in Cirenaica – faranno pesare sulla Libia e i suoi vicini? Le armi sofisticate di cui dispongono gli jihadisti oggi minacciano le due rive del Mediterraneo e l’Africa sub-sahariana.

 

Avete detto complotto?

 

Secondo il quotidiano italiano di destra “Libero“, appartenente al gruppo editoriale Berlusconi, il presidente Sarkozy avrebbe preparato il rovesciamento del colonnello Gheddafi dal mese di ottobre 2010, insieme al vecchio capo di protocollo di quest’ultimo, rifugiato politico in Francia. A metà novembre, una missione economica francese si è riunita a Bengazi, con degli agenti speciali travestiti da uomini d’affari, per prendere contatto con degli oppositori. A fine novembre, si è tenuta una riunione a Parigi, all’hotel Concorde Lafayette, con libici venuti da Bengazi, per mettere mano a ciò che è a ben ragione definito un complotto. Secondo la rivista araba Al-Kifah al-Arabi, armi sono poi state introdotte clandestinamente in un porto libico. Migliaia di bandiere del vecchio regime reale libico, di tutte le forme, sono apparse improvvisamente in Cirenaica, dall’inizio della sollevazione, ricordando le “rivoluzioni arancioni” innescate dal miliardario Georges Soros.

E’ un caso che un’esercitazione militare franco-britannica di grande ampiezza, fosse pronto ad attaccare “Southland”, un paese afflitto da un “regime dittatoriale” situato a sud del Mediterraneo? Data dell’operazione: tra il 21 e il 25 marzo 2011… Per aggredire – davvero – la Libia, non mancava che la copertura diplomatica, ovvero una risoluzione dell’ONU e una coalizione che comprenda “i nostri buoni vecchi amici arabi“.

 

Signor/a deputato/a,

 

Signor senatore/Signora senatrice,

 

Al di là delle denunce deposte contro Nicolas Sarkozy, è la Francia che è insozzata. Anche i principi dell’autodeterminazione dei popoli, della non ingerenza negli affari degli altri stati, sono stati cancellati con un cenno della mano.

Nell’aprile 2011, il 66% dei francesi era favorevole all’intervento militare francese in Libia (5) perchè gli era stata presentato come un’operazione umanitaria. Il parlamento non era stato consultato. Oggi, meglio informati grazie ad internet, i francesi sono al 51% contrari a questa guerra ingiusta ed inetta (6). Vi saranno grati, il 12 luglio, se metterete fine ai massacri dei civili libici, alla dilapidazione dei denari pubblici e alla strumentalizzazione dell’esercito francese per fare ri-eleggere il Presidente della Repubblica.

 

La guerra contro la Libia non serve solo al petrolio, ma prefigura – anche se non viene mai detto – delle nuove avventure coloniali. La recente consegna di armamenti da guerra francesi ai ribelli berberi di Djebel Nefoussa, a sud di Tripoli, ha delle ripercussioni in Algeria (Kabylie) e in Marocco (Rif). Dopo la Libia e la Siria, la Francia e la NATO vogliono destabilizzare e dividere i paesi del Maghreb?

 

 

Renne, 7 luglio 2011

 

 

(1) Nella Tripoli martoriata, di Gilles Munier (Afrique Asie- luglio 2011)

http://www.afrique-asie.fr/

 

(2) Libia: un avvenire incerto (maggio 2011)

Rapporto della missione organizzata in Libia per l’iniziativa del Centro internazionale di ricerca e di studi sul terrorismo e di aiuto alle vittime del terrorismo (CIRET-AVT) e del Centro francese di Ricerca sul di informazione (CF2R), e con l’appoggio del Forum per la pace nel Mediterraneo. I suoi membri si sono riuniti tutti a Tripoli e nella tripolitania (dal 31 marzo al 6 aprile 2011), poi a Bengazi e nella Cirenaica (dal 19 al 25 aprile2011)

 

http://www.cf2r.org/images/stories/news/201106/rapport-libye.pdf

 

(3) Sito ufficiale dell’operazione “Southern Mistrai”.

http://www.southern-mistral.cdaoa.fr/

 

(4) Intervista del generale Wesley Clark

http://www.youtube.com/watch?v=d2169sRHNAs

 

(5) Sondaggio: il 66% dei francesi favorevoli all’intervento in Libia (aprile 2011)

http://tempsreel.nouvelobs.com/actualite/monde/20110401.FAP7158/sondage-66-des-francais-favorables-a-l-intervention-en-libye.html

 

(6) Sondaggio esclusivo: il 51% dei francesi disapprova la guerra in Libia (luglio 2011)

 

http://www.humanite.fr/01_07_2011-sondage-exclusif-51-des-fran%C3%A7ais-d%C3%A9sapprouvent-la-guerre-en-libye-475564

 

 

Traduzione di Valentina Bonvini

 

 

Johann von Leers, Contro Spengler

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Johann von Leers, Contro Spengler, Introduzione di C. Mutti

Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2011, pp. 64, € 8,00   ISBN:  9788890473678

Quando Spengler pubblicò Jahre der Entscheidung, la protesta degl’intellettuali militanti nazionalsocialisti fu corale. Ma fra tutti gli attacchi che vennero rivolti contro le tesi sostenute in questo libro, “uno fra i più violenti, e senz’altro il più abile, fu quello sferrato da Johann von Leers, un giovane esponente della sinistra nazionalsocialista destinato a diventare uno dei più prolifici pubblicisti della Germania hitleriana e atteso da un curriculum vitae originale” (D. Conte).
In Spenglers weltpolitisches System und der Nationalsozialismus (appena uscito sotto il titolo Contro Spengler nei “Quaderni di Geopolitica” diretti da Tiberio Graziani) Von Leers respinge innanzitutto il determinismo storico spengleriano, che, affermando la validità universale delle leggi di sviluppo valide per un popolo, ripropone in fin dei conti il presupposto liberale dell’uguaglianza degli uomini.
Spengler, incalza von Leers, è l’ideologo di una borghesia imperialista legata al mondo del XIX secolo, la quale, pur di rendere competitive sul mercato mondiale le merci prodotte in Germania, vorrebbe ridimensionare i salari degli operai tedeschi e sopprimere la politica sociale di sostegno, anche a costo di esporre la nazione al pericolo di gravi tensioni sociali. Al vecchio progetto liberale dell’esportazione sui mercati mondiali, di cui Spengler si fa portavoce, von Leers contrappone una visione di grandi spazi autarchici.
Ad una critica altrettanto serrata viene sottoposta la veduta concernente l’altro pericolo che secondo Spengler minaccerebbe l’Occidente: la cosiddetta “rivoluzione mondiale degli uomini di colore”. In primo luogo, obietta von Leers, il concetto spengleriano di “popoli di colore” è del tutto improprio, poiché non ha senso far rientrare nell’universo “di colore” gli Andalusi, gl’Italiani meridionali, i Turchi e addirittura i Russi. Per quanto poi riguarda il “pericolo giallo”, a minacciare la Germania non è certamente il Giappone, che, rinnovatosi sulla base di princìpi affini a quelli nazionalsocialisti, indirizza le proprie linee di potenza non solo verso la Manciuria e la Mongolia, ma anche verso le Filippine americane, l’Indonesia olandese, l’Indocina francese. Perciò ogni rafforzamento del Giappone e della Cina stessa equivale ad un indebolimento dei nemici della Germania, i quali non si trovano fra i “popoli di colore”, ma fra i “popoli bianchi”. Preconizzando la “comunità della razza bianca” e pronunciando la parola “Asia” con tono ostile, Spengler non fa altro che riproporre in chiave razzista il vecchio cosmopolitismo liberale; ma ciò non ha nulla a che vedere con gli autentici interessi del popolo tedesco, i quali non possono essere subordinati alle “vane chiacchiere su una ridicola fratellanza di razza”. La Germania, obietta Von Leers, deve innanzitutto promuovere l’unità dello spazio europeo centrale ed orientale; per quanto concerne l’Asia, essa non solo non praticherà una politica imperialistica, ma farà di tutto per realizzare le aspirazioni dei popoli oppressi all’indipendenza.

Nella stessa collana:

Johann von Leers, L’Inghilterra. L’avversario del continente europeo, Introduzione di C. Mutti, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2004, pp. 64, € 6,00

Per ordini, scrivere a: Edizioni all’insegna del Veltro

Un video manipolato e tanti pappagalli di guerra

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Fonte: “Megachip

 

Raccontiamo qui nuovamente un video, una storia che forse si è già impressa nelle vostre menti: la morte in presa diretta, il cecchino che spara al ragazzo che lo filma, voi che vi siete affacciati sulla Siria attraverso la sua paura e poi il suo buio, i giornali che scrivono che questa è «la nuova strategia repressiva del regime: sparare dritto su chi filma.» Vi proponiamo un’analisi tecnica stringente, che smonta pezzo dopo pezzo il video, scompone le sequenze, spiega i segreti dell’audio, fa tutto quello che non hanno fatto Enrico Mentana, Francesco Battistini e tutti gli altri che hanno raccolto la velina e l’hanno rilanciata. Come vedrete tutto fa pensare che il video sia una clamorosa bufala. Ma prima di analizzarla, come è giusto, va richiamato brevemente il contesto.

 

Il quadro generale: la propaganda è senza esclusione di colpi

Il contesto è quello del grande sommovimento del mondo arabo e islamico del 2011, in cui l’Occidente interviene secondo convenienza, scegliendo quali dittatori sono dei bastardi e quali invece sono pur sempre i «nostri» bastardi. I primi saranno sottoposti a un’implacabile “reductio ad Hitlerum” e accusati di ogni nefandezza, nonché soggetti a ogni tipo di attacco e di provocazione militare, diplomatica, mediatica. I secondi saranno blindati da un silenzio mediatico speculare alla campagna che invece colpisce gli altri. Chi vuole approfondire può farlo. Chi ha già approfondito ha visto operare un’instancabile macchina della menzogna, che sforna di continuo come istanze genuine centinaia di immagini, di filmati, di blog, di profili da social network che spesso si rivelano totalmente falsi. La maggior parte di questa enorme produzione sfugge alla critica, e passa per vera. È in atto un gigantesco sforzo mediatico che occulta la sua radice strategica in seno a comandi militari che lo organizzano.[1]

Il tentativo, fin qui riuscito, è quello di raccontare le vicende mediorientali con una distinzione fra buoni e cattivi che coincide con le linee di frattura degli interessi strategici dettati dall’Occidente e dalle petro-monarchie della penisola araba. Nell’ottica degli strateghi, bersagliare il mondo con messaggi e percezioni «coerenti» è denaro ben speso, tanto quanto i dollari sborsati per un cacciabombardiere. Sono armi entrambe.

Per chi ha pianificato le guerre in corso e sta preparando le prossime entro breve, è meglio azzerare il rischio che non siano accettate, ed è meglio estendere l’ombrello della pianificazione militare totale a ogni aspetto della comunicazione. La parte più succosa saranno le immagini, che dovranno trasmettere messaggi emotivamente coinvolgenti ed eticamente semplificati.

 

Il video del cecchino, un filmato da dissezionare. Intervista a Pier Paolo Murru, esperto video

Vale dunque la pena ritornare sul video del cecchino che tanto ha emozionato Mentana e Battistini.



Mi aiuta nella traduzione dall’arabo Naman Tarcha, che riesce a trascrivere i contenuti delle voci che si odono nel video. E rivedo svariate volte le immagini con l’aiuto di un esperto di post-produzioni video, Pier Paolo Murru, il quale entra molto in profondità nei dettagli.

 

Murru, innanzitutto cosa nota nella sequenza dal punto di vista tecnico?

«Vista la risoluzione e la qualità della sequenza analizzata, si tratta probabilmente di un video girato con un palmare/smartphone (forse un iPhone di vecchia generazione). Marca e modello non sono comunque informazioni importanti in questo caso.

L’uso di questo genere di strumenti, in questi contesti ad alto rischio, concederebbe alcuni vantaggi rispetto a quel che si sarebbe costretti a fare con una normale videocamera handy: ovvero tenerla a braccio teso (angolato o disteso), a diretto contatto fisico – attraverso il viewfinder interno (mirino) o a breve distanza per visionare l’LCD esterno. Infatti, grazie alla estrema leggerezza e compattezza degli smartphone, è possibile riprendere con margini di sicurezza ben più ampi proprio in quei casi in cui si renda necessario “rubare” sequenze video senza essere visti o comunque senza avere l’ingombro di un normale cineoperatore e relativa attrezzatura, posizionando l’apparecchio nel punto più consono allo scopo e alla situazione in cui ci si trova. Le lenti di questi sistemi sono tendenzialmente di origine medio grandangolare».

 

Da quel che mi dice, un apparecchio come quello appena descritto riesce a fare grandi cose, ma le immagini che vediamo sembrano sporche e sgranate. Come mai?

Nella sequenza l’angolo di vista è piuttosto stretto, e questo farebbe ipotizzare l’uso dello zoom digitale che giustificherebbe, in parte, l’evidente tremolio durante il movimento della mano e la qualità decisamente degradata a prescindere dalla compressione.

 

Ha analizzato il luogo di ripresa dove si sporge il video-operatore misterioso?

«L’operatore si trovava su un volume sopraelevato (un tetto o un balcone di una palazzina) che si affaccia su alcune strade circondate da altre palazzine. Si nota un parapetto di protezione alto circa 100/120cm (4/5 file di blocchi in calcestruzzo).»

videosiria01

 

Quali impressioni ricava dalla sequenza video, è normale il comportamento dell’autore del filmato?

«Alla luce di quanto dicevo prima, in relazione alle possibilità concesse da questi strumenti di ripresa, e vista la situazione che presumiamo di altissimo rischio, io mi sarei accovacciato dietro al parapetto, mettendomi in totale sicurezza, e avrei esposto solo il telefono al disopra del muro osservando da basso cosa stessi riprendendo. In questo modo avrei avuto modo di “guardarmi attorno” come farebbe un periscopio a pelo d’acqua. Ma – se fosse vero questo scenario – considerata l’alta frequenza di colpi d’arma da fuoco che si sentono nella sequenza, di certo non mi sarei sporto con la sola testa, o peggio alzato in piedi, rendendomi completamente visibile e vulnerabile all’eventuale mira e tiro dei cecchini.»

 

Il videomaker appare dunque come un temerario. Che tipo di riprese fa?

«Nel video l’operatore usa il telefonino come fosse una videocamera standard. Cioè ponendo il cellulare fra se e il soggetto e sul medesimo asse del viso. Operazione che ritengo del tutto insensata, visto il rischio a cui si andava incontro e viste le possibilità di “monitoraggio” a distanza offerte dalle riprese effettuate con piccole videocamere come i telefoni cellulari. Anche nel caso in cui avessi deciso di espormi, alzandomi in piedi dietro al parapetto, avrei almeno tenuto il cellulare lontano dal corpo, puntandolo sul soggetto da inquadrare, e tenendo bene in vista il soggetto ad occhio nudo per carpirne le reali caratteristiche e intenzioni. In questo caso, una volta riconosciuto il militare armato (a vista o attraverso l’LCD nell’inquadratura zoomata), mi sarei buttato immediatamente al suolo per mettermi in sicurezza, e al limite avrei cercato di riprenderlo successivamente con la tecnica “a periscopio”prima descritta. Personalmente non avrei nemmeno rischiato di perdere la mano per un colpo di arma da fuoco, ma evidentemente questa è una valutazione del tutto soggettiva.»

 

Ecco, il momento dell’inquadratura del marmittone armato è un momento cruciale. La mano dell’operatore, che prima era una specie di gelatina sussultante, improvvisamente è fermissima. Lei fa notare che l’operatore è estremamente esposto, e sembra abbandonare ogni precauzione che una persona di buon senso adotterebbe. Cosa accade?

«Nella sequenza in questione, l’operatore dedica l’unica sequenza steady (a mano ferma e stabile) al suo killer. Si ferma, lo individua chiaramente, lo perde di vista per alcuni istanti e lo ricerca senza alcuna titubanza. Non accenna timori, almeno non nel modo con cui continua a riprendere il soldato. Lo tiene inquadrato mentre prende la mira con tutta calma, e si fa uccidere. L’asse di mira del cecchino coincide alla perfezione con l’asse di ripresa e di conseguenza con l’asse della testa o di un altro organo vitale – tale da giustificarne la morte istantanea, o quasi. Personalmente, analizzando la posizione della canna del fucile rispetto all’inquadratura, credo che l’asse sia riferito al capo e quindi dovrei dedurne che l’operatore tenesse il cellulare proprio davanti al viso, esponendosi completamente al suo assassino.»

 

Alla fine vediamo una strana danza fra vittima e carnefice, una sorta di tempismo perfetto…

«Un altro ragionamento mi fa sottolineare quanto sia stata perfetta la sincronia fra i due soggetti, nel cercarsi e nell’esporsi l’uno all’altro – con il cecchino e l’operatore che si “mirano” a vicenda nel medesimo istante, faccia a faccia e corpo a corpo, malgrado la sequenza precedente indicasse estrema incertezza nella ripresa e il militare avesse, sino al momento della sua inquadratura, la vista occlusa da un balcone della palazzina soprastante.»

 

Veniamo al clou, la sequenza dell’«uccisione». Cosa ha notato?

«L’operatore trova il militare al minuto 00:32 del video; si vedono solo le sue gambe che in quel momento esatto potevano solo indicare la presenza di una persona appostata o nascosta. Segue una raffica di fuoco che pare molto vicina (ampiezza) ma di cui non si capisce l’esatta provenienza (segnale mono) e l’operatore perde l’inquadratura – forse per cercare la fonte degli spari ma non per mettersi in sicurezza – ma semplicemente alza un po’ più in alto la ripresa per poi tornare a cercare il militare. A 00:37 il militare fa il primo passo avanti e la camera risolleva l’inquadratura. L’operatore ritrova il suo soggetto a 00:42 e qui entrambi si fermano, l’uno in fronte all’altro – ma il cecchino ha ancora il fucile in posizione di sicurezza (con la canna puntata al suolo). Ancora l’operatore non si mette in sicurezza. Immediatamente dopo si trovano l’uno, come già detto, nel mirino dell’altro e il cecchino alza la canna del fucile e la punta sulla presunta vittima.»

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L’operatore pare voler fare qualcosa (agita la camera) ma invece di mettersi definitivamente in sicurezza – torna a riprendere il tizio in grigioverde.

«Sì, e lo fa dopo quei 4 secondi che servono al militare per prendere la mira; ed ecco lo sparo, mentre l’operatore continua a riprendere.

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L’uomo che riprende il video, prima di questa sequenza, tiene in mano l’apparecchio oltre il parapetto, visto che in alcuni fotogrammi immediatamente precedenti allo sparo, inquadra la strada sotto la sua posizione dove si vede la stessa ombra dell’edificio che lo ospita». (fotogramma sotto).

videosiria04

 

Il video, a questo punto, dopo lo sparo diventa buio, ma si sente ancora l’audio. Diventa meno interessante?

«Tutt’altro. È da notare come il telefono non sia precipitato in strada dopo lo sparo (malgrado la posizione dell’operatore non sia sostanzialmente cambiata), ma sia stato tenuto in mano e riportato all’interno del terrazzo, sino ad impattare al suolo.

Il primo impatto del telefono avviene (analizzando l’audio) a circa 7 decimi di secondo dallo sparo (tempo compatibile con una piccola parabola o una caduta diretta all’indietro) – innescando poi un rimbalzo stretto che dura circa 1.8 secondi. A livello video, l’unica modifica nel segnale, è sancita da un buco nero a breve distanza dallo sparo. Si tratta di totale assenza di informazioni per alcuni fotogrammi, riferibile forse all’impatto sul pavimento dell’apparecchio – anche se si percepisce un fenomeno di rimbalzo (in audio e in video) che farebbe pensare ad un urto più morbido in cui l’energia cinetica sia stata smorzata in più tempi prima del contatto finale con la pavimentazione del terrazzo. Personalmente mi sarei aspettato che il telefono si disintegrasse vista la violenza estrema e la dinamica del fatto, ma qui entra in gioco la fisica e visti i pochi elementi in gioco è difficile scartare o validare un elemento come questo.

Queste sono valutazioni generali e non sempre sostanziali che però, a mio avviso, meritano di essere considerate nell’insieme».

 

A questo punto l’analisi dell’audio diventa fondamentale, non crede?

«Vi sono diversi aspetti poco chiari nella struttura della colonna audio, ma ne esporrò i principali per evitare di entrare troppo in territori tecnici. Vediamoli però graficamente.

Gli eventi audio più importanti sono due assenze di segnale a ∞ dB, alcuni secondi dopo lo sparo e dopo qualche altro secondo di eventi audio:

videoaudiospettro01

Poco dopo lo sparo e la caduta al suolo del telefono (con conseguente rimbalzo stretto) si presenta il primo silenzio (indicato col segno infinito ):

videoaudiospettro02

Meglio si nota nell’immagine seguente, dove ho indicato il primo “buco”, che avviene su una voce che si tronca di netto a 00:49 (primo segno rosso/abrupt interruption). Segue il silenziamento a 00:50 (segno giallo) di circa 5 secondi a ∞ dB. Segue un fading (secondo segno rosso/fade in) di altre voci che proseguono sino ad un ulteriore taglio (terzo segno rosso/fade out) che porta un altro silenzio a ∞ dB a 01:01 (secondo segno giallo) per poco meno di 2 secondi. Un ultimo evento (quarto segno rosso/ abrupt in) reintroduce brutalmente le voci che procedono sino alla fine della sequenza.»

videoaudiospettro03

 

La nettezza e lunghezza di questi buchi nel sonoro e la regolarità delle dissolvenze sembra abbastanza anomala. Ma vada avanti. Ci sono altri eventi rilevanti nell’audio?

«Sì. Questi altri eventi sono presenti sotto la colonna audio riferita alle vicinanze dell’operatore (dall’inizio sino allo sparo che lo mette al suolo), che hanno strutture ricorrenti. Ovvero si tratta di eventi audio che si ripetono nella medesima forma e nella medesima tonalità lungo lo scorrere del tempo. Seppure non vi sia sovrapponibilità d’onda a causa del fatto che vi sono più fonti di rumore ambientale (spari, urla, voci etc…), questi eventi vanno evidenziati in quanto appaiono e scompaiono in “abrupt waveform changes/awc“. Ossia dei cambiamenti repentini della forma d’onda, negli innesti fra eventi sonori, nell’entrata e nell’uscita di altrettante sorgenti di rumore ambientale. Senza doversi vedere tutte le campionature e senza infilarci nell’analisi dei sample, se ne può sentire distintamente uno fra il punto 00:16 e il punto 00:18, ma ve ne sono diversi lungo questa prima parte di sequenza. Così come arrivano determinati “pattern” di sottofondo (insiemi di proteste, cantilene e urla) che si ripetono per poi scomparire di netto, anche al rientro dalle attenuazioni di segnale causate dagli spari. Questa discontinuità generale si manifesta, a livello meramente uditivo, anche all’inizio della sequenza, quando la voce dietro la telecamera (nelle sue immediate vicinanze visto che si sentono chiaramente i suoni delle consonanti occlusive bilabiali, cioè i suoni delle P e delle B, che vanno a “colpire” la pastiglia del microfono) parla velocemente senza tentennare, per poi sottolineare pochi cicli di affanno respiratorio in cui l’emissione d’aria viene sparata anch’essa sul microfono producendo il classico rumore a bassa frequenza simile al wind noise (rumore del vento). Affanni che però si fermano di netto nell’immediato proseguo della sequenza. Si passa da un respiro da debito d’ossigeno che dura 3 secondi (da 00:08 a 00:11), alla totale assenza di respiro per tutto il seguito della sequenza.

Altre considerazioni sulla colonna audio, che a mio avviso meritano interesse, sono la quasi totale assenza di rapporto fra direzionalità del microfono (e dell’apparecchio di ripresa teoricamente solidale) e le caratteristiche dei suoni in relazione all’ambiente in cui questi sono stati presi in audio.»

 

Cioè il microfono e la “telecamera”, essendo – come dice – «solidali», si spostano assieme. E però i rumori che sentiamo sono slegati dai movimenti che vediamo?

«Sebbene la colonna audio sia in doppio canale/mono (i due canali destro/sinistro sono identici per cui è impossibile fare una preziosa analisi della fase per identificare le diverse sorgenti sonore nello spazio…), non si identificano sostanziali modificazioni in ampiezza dinamica e struttura, al cambiare del punto di ripresa. Questo indicherebbe che, indipendentemente dove si punti l’apparecchio e il relativo microfono, la presa audio conserva le medesime caratteristiche, anche quando l’operatore tiene l’apparecchio basso e in prossimità del parapetto al punto 00:23 (area occlusa). Più precisamente, vi sono modificazioni di volume e struttura, ma apparentemente non collegate ai movimenti/direzione espressi nella sequenza. Ovvero, sono presenti modifiche sostanziali dell’onda sonora malgrado il punto di ripresa video rimanga immutato o con poche variazioni e viceversa. In parte, questo può essere causato dall’attenuazione automatica che segue ogni evento audio particolarmente violento (come gli spari che tipicamente generano awc), ma è meno comprensibile laddove non vi siano eventi di questo genere.»

 

Non immaginavo che l’analisi dell’audio potesse svelare tanti micro-dettagli. Si possono trovare altri indizi su come viene maneggiato lo strumento di ripresa, sul fatto che sia all’aperto o al chiuso?

«In questo caso specifico possiamo anche registrare la presenza del “ticchettio” che si produce maneggiando questi apparecchi, prodotto dai microurti delle dita sulle parti in plastica del telefono.

Ma c’è di più. Immediatamente dopo la ricomparsa del segnale dai ∞ dB (00:54), le caratteristiche audio riferite alle sequenze audio finali si percepiscono come più soggette a riverbero ambientale, rendendole più simili ad una presa in ambienti chiusi/occlusi piuttosto che a cielo aperto come la prima parte di video. Si ascolti la sostanziale differenza fra la presa iniziale (voce introduttiva) e quella finale (voci attorno alla vittima) in cui si caratterizzano forti similitudini con quanto è ottenibile effettuando una presa audio al chiuso e con sorgenti molto vicine al microfono. In questa parte del video (telecamera al suolo) vi sono anche diversi contatti/strofinamenti con il microfono (humming/rumble a basse frequenze) senza però innescare movimento nella ripresa che appare pressoché identica sino all’ultimo fotogramma.

Le caratteristiche di tipo acustico e di riverberazione ambientale potrebbero anche essere state generate dalla posizione finale dell’apparecchio, magari in una zona occlusa e vicino a delle pareti, malgrado questa specifica caratteristica sia presente su tutte le sorgenti, compresi gli spari in strada che in questa area del filmato, comprendono veri e propri rimbalzi/eco – e code più lunghe. Volendo sforzarsi un poco oltre, forse si tratta di diverse armi posizionate in altrettante aree e forse il telefono è rimbalzato sino a dentro casa (nel caso fosse un balcone). Certo è che questo nuovo assetto audio parte dal silenzio e dai vari cut & fading di cui s’è parlato sopra – e prosegue sino alla fine – e non contiene più nessuno di quei pattern di protesta che erano presenti all’inizio, pur trovandosi molto vicino a livello strettamente temporale a quella zona del video. In definitiva vi sono due macro registri, ognuno con le proprie caratteristiche acustiche.

È comunque una pratica assai difficile quella di comprendere la posizione delle diverse sorgenti audio in relazione al punto di ripresa; nella sequenza l’unico soggetto umano visibile è il cecchino che spara un solo colpo. Tutte le altre voci, urla, spari, cantilene etc. non hanno soggetti/sorgenti a vista e le strade inquadrate appaiano del tutto deserte, malgrado l’apparente prossimità degli eventi audio che è possibile percepire nell’ascolto della sequenza audio. Anche in linea del tutto generale, non c’è molta corrispondenza fra ciò che si sente e ciò che si vede… ma in assenza di analisi di fase (impossibile a causa del segnale dual mono) è impossibile dare un parere profondo e preciso sulla questione riferita a questo aspetto.»

 

Possiamo trarre delle conclusioni da questa analisi?

«Sbilanciarsi in senso assoluto verso un’unica interpretazione, sopratutto in presenza di così tanti elementi particolari, non è cosa facile né da prendersi alla leggera. Certamente vi sono molteplici aspetti che fanno apparire l’audio come opera di mixaggio di varie fonti preregistrate e sarei disonesto se non ipotizzassi tale configurazione. Situazione che giustificherebbe in un sol colpo tutte le caratteristiche che ho riscontrato nella colonna audio e in quella video. Personalmente, vista la quantità di “sintomi”, penso si tratti di un falso, probabilmente creato a tavolino o miscelando diverse altre fonti tratte da altrettanti materiali audiovisivi.

È certo che l’opzione fictional spiegherebbe in un sol colpo tutte le caratteristiche, le contraddizioni e le manipolazioni – riscontrare nella sequenza.»

 

Le parole di Murru sono giustamente prudenti, ma altrettanto nette nell’indicare quale linea di ricerca privilegiare in base ai fondati elementi di prova raccolti.

Anche la traduzione e trascrizione delle voci che si odono nel video ha qualche stranezza. Leggiamola.

 

Cosa si dice nel video

00.02: «LA POLIZIA SPARA SUI FRATELLI CITTADINI .. NELLA VIA DI AL SHAM (a Damasco NdR), NELLA ZONA DI KARM AL SHAMI».

(Poi aggiunge la data) «1/7/2011 SENZA MOTIVO, NON C’È NÉ MANIFESTAZIONE NÉ NULLA…»

(le voci non identificate pronunciano parole di cui non si afferra precisamente il senso:

Uno: «OGGI?». Risponde l’altro: «SONO QUI DALLA MATTINA» (sembra di udire un’eco).

00.40: si sentono voci chiare di una presunta manifestazione (sebbene pochi secondi prima si dicesse «NON C’È NÉ MANIFESTAZIONE NÉ NULLA», ammesso che si parlasse del presente.

Le voci della folla urlano:

«TAKBIR»: ossia l’invito a glorificare Dio… e la folla risponde: «ALLAHU AKBAR» («Dio è più grande»)

Dopo lo sparo si ode una parola mozzata: l’inizio di «HROO…» che presumibilmente compone la prima parte di «HROOB»: che significa «SCAPPA!»

00.56: L’annuncio di morte dice: «LA PALLOTTOLA LO HA COLPITO IN TESTA?»

Cui segue un espressione di lutto: «O DIO, O DIO»

Una frase didascalicamente melodrammatica giunge dalla voce della presunta vittima «MI HA UCCISO». Nel frattempo una voce chiede : «COSA? RIPRENDO? »

 

Conclusioni

Dobbiamo chiederci come faccia il sistema dei media ad accogliere simili video come se fossero stille di oro colato, quando i precedenti delle manipolazioni informative e le caratteristiche intrinseche dei filmati dovrebbero portare a diffidarne radicalmente, per trattarli invece con le pinze. Invece vengono lanciati in prima pagina. I perché non sono rassicuranti.

Per smontare un video ho impiegato molto tempo, e sono dovuto entrare in dettagli tecnicamente complicati, per quanto illuminanti. Nel frattempo, in milioni di case, l’homo videns è stato bombardato da altre decine di filmati, servizi giornalistici, narrazioni molto semplici e molto false.
Smitizzare un video taroccato mentre accade tutto il resto mi sembra come fermare uno tsunami con un cucchiaino. Eppure mi pare un avamposto del dovere.

Le macchine della menzogna paiono invincibili, ma come insegna la vicenda Murdoch in Gran Bretagna in questi giorni, una volta raggiunta una massa critica di eventi che si oppongono a un certo sistema, anche quelle macchine possono essere sconfitte. È sperabile che accada anche per la propaganda dei tanti pappagalli di guerra.

 


[1] Nick Fielding, Ian Cobain, Revealed: US spy operation that manipulates social media, in The Guardian, 17 marzo 2011.

I quartieri libici si preparano all’invasione terrestre della NATO

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Fonte: “Reseau Voltaire“, 1 luglio 2011

 

 

 

Alle dieci del mattino (ora di Tripoli) del 28 giugno scorso, il Ministro della Salute libico ha reso disponibile il suo rapporto dal titolo “Statistiche sulle Vittime civili dei bombardamenti NATO in Libia, 19/03-27/06/2011”. Prima di rilasciare i dati, resi pubblici nel pomeriggio (del 28 giugno, ndr), essi sono stati confermati dalla Mezzaluna Rossa libica, dalla difesa civile delle zone bombardate, e quindi passate al vaglio dei ricercatori dell’Università Nasser di Tripoli.

Al primo luglio, il numero delle vittime militari non sono state ufficialmente stimate dalle forze armate libiche.

In sintesi, il documento del Ministero della salute certifica che durante i primi cento giorni di bombardamenti NATO, 6121 civili sono stati uccisi o feriti. La suddivisione statistica è la seguente: 3093 uomini sono stati feriti e 668 uccisi; le donne uccise sono 260, con 1318 ferite; 141 morti tra i bambini e 641 feriti. Tra i feriti, 655 sono gravi ed ancora sono ricoverati nelle strutture sanitarie e negli ospedali per le cure mediche, mentre 4397 sono stati dimessi e rimandati a casa dalle famiglie.

 

Genere Uccisi Feriti Totale
Uomini 668 3093 3761
Donne 260 1318 1578
Bambini 141 641 782
Totale 1069 5052 6121

 

Il fatto che la Nato affermi come appartamenti privati e case, scuole, negozi, fabbriche, terreni agricoli e magazzini di sacchi di farina siano obiettivi militari legittimi non è considerato credibile da nessuno qui in Libia e, ad oggi, l’Alleanza Atlantica non ha fornito uno straccio di prova che i quindici civili, principalmente bambini con zie e madri, fatti a pezzi da otto missili NATO nella zona di Salman la scorsa settimana [fine giugno, ndr], fossero legittimi obiettivi militari.

I 3.200 quartieri di Tripoli, indipendentemente dalle Forze Armate libiche, si stanno preparando alla possibilità che le forze NATO o i loro alleati indigeni possano invadere l’area metropolitana durante le prossime settimane o mesi.

Il sottoscritto ha avuto modo di visitare alcuni di questi sobborghi le due notti scorse [29 e 30 giugno, ndr] e continuerà a farlo. Come osservato precedentemente, contrariamente ad alcune notizie riportate dalla BBC, CNN e CBS, i sobborghi di Tripoli durante le belle serate in cui soffia la dolce brezza di mare, non sono carichi di tensione, “pericolosi per gli stranieri e sotto il controllo di soldati scatenati e milizie”. Quest’ultima valutazione non ha alcun senso. Americani ed altri sono i benvenuti e la loro presenza apprezzata. La popolazione libica è ansiosa di esprimere il proprio punto di vista, il più comune dei quali è che i libici non sono tutti per Gheddafi ma la loro preoccupazione è proteggere la famiglia, le loro case ed i quartieri da stranieri invasori. Una maggioranza certo sostiene la leadership di Gheddafi, che hanno imparato a conoscere con il latte materno, ma quasi tutti enfatizzano che per loro e per i loro amici è cruciale e prioritaria la difesa della loro rivoluzione e del Paese. Appaiono agli occhi del sottoscritto assai ben informati in merito ai motivi per cui la NATO ed altri Paesi stanno sempre di più stringendo d`assedio il loro leader senza alcun riguardo per i civili uccisi. E` per il petrolio, e per ridefinire in modo funzionale ai loro interessi Africa e Medio Oriente.

Sedere insieme ai gruppi di quartiere e parlare con loro è un modo piacevole per imparare a conoscere il popolo libico e la loro visione su quello che sta accadendo nel loro Paese. Di certo ciò è meglio che starsene al bancone dell’hotel dove i giornalisti occidentali spesso raccolgono le loro intuizioni giornalistiche e pontificano su quale sia “il vero punto”, come uno di loro mi ha detto l’altro giorno. Non ho potuto capire molto di quello di cui stava parlando.

La sera del primo luglio circa un milione di cittadini sono attesi nella Piazza Verde di Tripoli per manifestare la loro resistenza ai sempre più intensi blitz NATO contro la popolazione civile. Molti giornalisti occidentali non assisteranno all’evento perchè preoccupati di un pericolo potenziale o perchè i loro uffici americani suggeriscono loro di tenersi alla larga “così da non dare legittimità alla manifestazione”. Dov’è finito il giornalismo orientalista?

I quartieri si stanno preparando ad un’invasione di terra e a confrontarsi direttamente con gli invasori con un piano che si immagina non suonerebbe estraneo ad un generale Giap del Vietnam o ad un generale cinese, essendo un’enorme difesa popolare. E` stato organizzato casa per casa, strada per strada per ogni quartiere ed avrà a disposizione tutto l’arsenale disponibile.

Questi cittadini non sono militari, sebbene quelli più avanti con gli anni abbiano fatto un anno di leva militare obbligatoria dopo le scuole superiori. I loro ranghi comprendono ogni uomo e donna tra i 18 ed i 65 anni. Più giovani e più vecchi non saranno certo rifiutati.

Seguendo il modello Hezbollah, essi si sono organizzati in squadre di cinque persone, una volta completato l’addestramento. Funziona così: tutti quelli sopra i diciotto anni possono fare riferimento alla “tenda” del loro quartiere. Conoscendo praticamente tutti nella zona, la persona farà domanda di ammissione e saranno valutate le sue capacità su un AK-47, M-16 o altre armi leggere. In base al suo livello di abilità, sarà accettata e gli verrà fornita una tessera di riconoscimento con una lista di armi per cui la persona risulta qualificata. Se l’individuo ha bisogno di ulteriore addestramento o se è un novizio, gli verrà data una locazione che comprende un’area di addestramento, una tenda con materassi per dormire, una latrina e una mensa.

L’allenamento base per coloro i quali non hanno esperienza con le armi, incluse le donne, dura quarantacinque giorni. Trascorso tale lasso di tempo, l’impegno dura quattro mesi. Ad ogni ammesso viene rilasciato un fucile (di solito un AK-47 “Klash”, con 120 cartucce di munizioni). Ed ad ognuno è richiesto di ritornare dopo una settimana per discutere sul suo allenamento e dimostrare che non ha sprecato proiettili, che costano circa un dollaro ciascuno. Se approvato, manterrà l’incarico.

Quelli che iniziano il lavoro, hanno turni di otto ore. Le donne tendono a lavorare durante il giorno quando i bambini sono a scuola, ma ho visto donne fare anche turni di notte. La maggior parte degli uomini hanno un lavoro regolare ed orgogliosamente ci dicono che sono volontari per il loro Paese. Sembrano essere ammirati dai loro vicini.

Ho promesso di non descrivere altre armi che saranno usate oltre a fucili, granate, RPG, trappole, ma posso dire che sembrano formidabili.

Ma oltre alla preparazione per la difesa armata delle loro famiglie, case e quartieri, questi volontari della difesa civile mi hanno spiegato cosa implica il loro lavoro. Quando un’area viene bombardata, loro si precipitano ad aiutare i residenti ad uscire dalle loro abitazioni bombardate, portare aiuto medico per coloro che ne hanno bisogno, aiutare le famiglie a rassicurare i loro bambini impauriti dicendo che va tutto bene, prendere nota di ciò che bisogna riparare, dare un temporaneo rifugio, e innumerevoli compiti ed attività che il lettore può immaginare siano richieste nell’ambito di un’azione umanitaria e civile.

Ogni check-point rappresenta un punto di garanzia della sicurezza della comunità. Le automobili sono controllate in modo rapido, di solito solo il portabagagli. I conducenti spesso sono persone conosciute dalle forze di sicurezza, molti dei quali sono studenti universitari, che provengono anche loro dalla stessa zona.

Di tanto in tanto una macchina si ferma ed un cittadino scende e distribuisce una cassetta di frutta o di paste, se non una pentola di zuppa locale, etc…Un’atmosfera davvero congeniale.

Dal momento che la NATO ha incrementato i bombardamenti su questi check-point con uomini al servizio, circa cinquanta dei quali si trovano lungo la strada che porta dal confine tunisino fino a Tripoli, le squadre di quartiere stanno operando ora senza luce durante la notte. Così vengono rilasciate delle torce di circa quindici centimetri dotate di un potente fascio di luce. Il sottoscritto ha visto una di queste torce e posso testimoniare sulla loro alta qualità.

Sono civili perchè sono volontari, poliziotti regolari e donne che si sono uniti a qualche unità dell’esercito nascosta da qualche parte.

Oltre ai problemi ben noti, la NATO si troverà ad affrontarne uno ancora maggiore se decidesse di invadere la Libia occidentale.

Attacco all’oro dell’Italia

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Fonte: “Attilio Folliero“, 16.07.11

 

Cosa si nasconde dietro gli attacchi all’italia? L’italia è un paese in crisi economica con un debito pubblico che rappresenta praticamente il 120% del PIL, ma ha ancora enormi ricchezze e tante imprese pubbliche che fanno grossi guadagni e quindi molto appetibili. Ma c’è una ricchezza di cui nessuno parla: l’Italia ha la quarta riserva di oro al mondo. L’attacco all’Italia è finalizzato a “derubarla” delle sue imprese pubbliche e delle sue immense riserve auree. L’oro è un prodotto strategico e lo sarà sempre di più nel futuro immediato, per cui fa gola.

 

Attacco all’oro dell’Italia
Lo scorso mese di maggio l’agenzia di rating, Standard & Poor’s, aveva tagliato la prospettiva italiana da stabile a negativa, con la motivazione che il potenziale ingorgo politico poteva contribuire ad un rilassamento nella gestione del debito pubblico, da cui derivava un impegno incerto nelle riforme a sostegno della produttività. Quindi per S&P’s diminuiscono le prospettive dell’Italia per ridurre il debito pubblico.

 

Dpo Standard & Poor’s anche Moody’s inizia il pressing contro l’Italia, annunciando che il rating italiano ”Aa2” è sotto osservazione e potrebbe essre ridotto. Le motivazioni, ovviamente sono le solite: le debolezze strutturali dell’Italia, la probabile crescita degli interessi, l’incapacità di tenere sotto controllo i conti pubblici e quindi il debito pubblico.
Dalla settimana scorsa, l’attacco all’Italia si concretizza: inizia il crollo della borsa, aumentano gli interessi sul debito pubblico Italiano e la manovra presentata dal Governo con l’inasprimento di bolli e balzelli sui titoli di stato potrebbe far allontanare gli investitori da questi titoli, con la conseguenza di far aumentare ulteriormente gli interessi. Successivamente tale manovra è stata ritirata.
Nella sola giornata del’11 luglio i buoni italiani a due anni sono crollati del 19,88%, pssando da 3,53 a 4,203; negli ultimi giorni hanno un po recuperato, ma siamo sempre a livelli che triplicano i tassi dell’aprile del 2010, poco più di un anno fa; infatti il 16 aprile i bond a 2 anni erano a 1,27.
Anche la borsa italiana è scesa fino a 18.295,19 l’11 luglio, per poi risalire leggermente nei giorni successivi e chiudere la settimana del 15 luglio a 18.450,45; se consideriamo che lo scorso 18 febbraio aveva raggiunto il massimo per l’anno in corso a 23.273,80, significa che da allora, in questi ultimi cinque mesi ha perso il 20% circa.
Inoltre, se consideriamo che l’indice della borsa italiana era a 41.074,00 il 9 di ottobre del 2007, giorno in cui il Dow Jones fece registrare il suo massimo storico, significa che da allora sta perdendo circa il 55% e se, infine, consideriamo che approssimativamente 4 anni fa, il 18 maggio del 2007 l’indice della borsa italiana era a 44.364,00 significa che da allora sta perdendo il 60% circa. Ricordiamo anche, che il 9 marzo del 2009 l’indice FTSE MIB era sceso a 12.332,00; quindi al momento è ancora ben sopra quella quota e dunque se dovesse continuare a scendere non sarebbe una novità. Due anni fa, insomma la borsa era in una situazione peggiore.
Come mai l’attacco all’italia?
Il Financial Times in un articolo dello scorso 10 luglio titolava: “Gli hedge fund Usa scommettono contro i bond italiani”. In realtà, da anni i giornali anglo-americani ed in particolare gli organi ufficiali del capitalismo, come il “The Economist” o il “Financial Times” sono all’attacco dell’Italia. Si sono scagliati anche contro Silvio Berlusconi, massimo rappresentante del capitalismo italiano, praticamente da 17 anni alla guida del paese, alternandosi con i rappresentanti del liberismo del centro-sinistra (Ciampi, Dini, Amato, Prodi).
Come abbiamo già scritto in varie occasioni, il signor Berlusconi, sceso in política per risolvere esclusivamente i suoi problemi, nel pensare troppo agli affari suoi ha finito per frapporsi agli interessi delle grandi multinazionali, della globalizzazione, dei fautori di progetti vuoti come il “Nabucco”.
Il Cavaliere sa bene che le necessità energetiche (primariamente quelle sue e poi, indirettamente quelle degli italiani) non possono essere coperte dai globalisti, dagli anglo-statunitensi e con la sua adesione al progetto di oleodotto South Stream, che si contrappone all’oleodotto “Nabucco”, di interesse anglo-statunitense, necessariamente ha finito per inimicarsi gli USA, che evidentemente hanno deciso di scaricarlo, di liberarsi di lui quanto prima (consiglio sul tema l’articolo: “Gli Stati Uniti, il gasdotto South Strean, Berlusconi e la sinistra”).
Per questa ragione, ultimamente abbiamo assistito a continui viaggi in Usa di politici italiani, alleati (oggi ex) ed avversari di Berlusconi. Negli USA sono stati il suo ex alleato Gianfranco Fini (Vedasi: “E’ Fini la nuova carta degli USA” oppure “Giancarlo Fini interlocutore privilegiato degli USA“) e Massimo D’Alema, rappresentante del partito anglo-statunitense in Italia, di cui la fedeltà al liberismo è ben provata, fin dall’epoca dei bombardamenti della ex Jugoslavia, quando era capo del governo italiano; negli USA è stato perfino Nichi Vendola che ha incontrato il non certo progressista Schwarzenegger (Vedasi: “Vendola incontra Schwarzenegger“).
Sembra veramente strano, ma tutti stanno giocando contro l’Italia ed in particolare contro Berlusconi che alla fine, per certi versi, un po’ facendo marcia indietro, un po’ grazie alle circostanze è risucito, almeno per il momento, a salvare la pelle, ovviamente quella politica, ossia la sua carica di capo del governo. In ogni caso il suo destino è segnato; non andrà avanti per troppo tempo.
E gli italiani, in particolare il proletariato italiano, andrà di male in peggio! I neo moralisti e puritani nostrani che stanno attaccando Berlusconi per via degli scandali sessuali e che presto si sostituiranno al governo di Silvio Berlusconi, sono i rappresentanti di Goldman Sachs, della BCE, del FMI, del partito dei globalisti e degli anglo-statunitensi, che continuamente attaccano l’Italia.
Dunque, perchè i continui attacchi anglosassoni al Cavaliere ed all’Italia? Berlusconi certamente non è attaccato per i suoi scandali sessuali! E’ da ingenui credere una cosa del genere.
L’Italia è un paese in crisi, in profonda crisi economica, con un debito pubblico praticamente impagabile, attorno al 120% del PIL e con le principali imprese del paese che a causa della caduta dei tassi di guadagno si stanno riubicando altrove, in zone che permettono guadagni superiori a quelli dell’Italia. Ma l’italia, pur in profonda crisi ha ancora tanti gioielli, molto appetibili e che le multinazionali anglo-americane sperano di “comprare” a prezzi stracciati.
Gli interessi dei globaloisti e degli anglosassoni puntano a privatizzare quanto c’è rimasto da privatizzare in Italia: dall’ENI, di cui una parte è ancora in mano allo stato, così come pure l’Enel, oltre a Finmeccanica, Fincantieri, Trenitalia, Poste, Televisione pubblica, Ospedali e centri sanitari all’avanguardia nella ricerca, Università, Scuole e imprese municipalizzate, come quelle dell’acqua e della raccolta dei rifuti. A tutto ciò va aggiunto che l’Italia possiede un ricco patrimonio paesaggistico e ambientale, decisamente invidiabile e un ricchissimo patrimonio artístico; in Italia è concentrato il 60/65% di tutti i beni artistici e archeologici dell’umanità.
A tutto questo va aggiunta una ulteriore ricchezza posseduta dall’Italia, di cui nessuno parla: il suo oro!
Nessuno ne parla, ma l’Italia ha la quarta riserva di oro del mondo, che allo scorso giugno ammontava a ben 2.451,80 tonnellate, che al prezzo odierno dell’oro equivale a circa 100 miliardi di euro. Solo FMI e due stati, USA e Germania, hanno riserve auree superiori alla riserva italiana. L’oro è un prodotto altamente strategico destinato a rivalutarsi fortemente nel futuro inmediato, per cui questa ricchezza è molto appetibile.
In questo momento, l’oro italiano è il principale obiettivo su cui hanno messo gli occhi i globalizzatori.
Quindi, l’Italia pur essendo un paese in forte crisi, possiede ingenti ricchezze. Come impossessarsi o meglio derubare queste ricchezze all’Italia ed al popolo italiano? Approfittando dell’enorme debito pubblico, i grandi predatori con l’aiuto dei propri rappresentanti all’interno del paese, ovvero i liberisti nostrani, gli stipendiati di Goldman Sachs, FMI, BCE, Federal Reserve, World Bank, WTO ed affini faranno pressione per ridurre il debito pubblico attraverso la privatizzazione, la vendita, ovviamente a prezzi fortemente scontati, dei beni sopra citati. Come già successo con la privatizzazione delle grandi banche statali, ad esempio, negli anni novanta, lo stato incasserà delle somme che andranno ad incidere in minima parte sulla riduzione del debito, ma allo stesso tempo l’Italia perderà definitivamente i grandi guadagni che queste imprese producono.
La privatizzazione, come insegna la storia, non è mai servita a risolvere i problema di un paese, anzi li ha ingigantiti. Pertanto, nei prossimi anni l’Italia andrà incontro a problemi economici moltio più gravi. Il mancato introito dei guadagni derivanti dalle imprese pubbliche privatizzate, la riduzione della spesa pubblica e lo smantellamento del welfare state, dello stato assistenziale, ma anche l’incremento della disoccupazione e la riduzione dei consumi accentuerà la crisi, che porterà alla chiusura di ulteriori imprese; tutto ciò si ripercuote ovviamente anche sugli introiti dello stato, dato che si determina una riduzione del gettito fiscale, una riduzione delle imposte dirette ed indirette e per conseguenza lo stato avrà sempre meno soldi da distribuire. Come insegna la storia recente, per esempio dell’Argentina o dell’Ecuador, per restare all’America Latina, la conseguenza diretta sarà una inevitabile esplosione sociale, placabile solo con la repressione, con la forza ovvero con una dittatura.
Il futuro dell’Italia appare sempre più nero ed inveitabilmente il popolo italiano sarà costretto a riprendere la via dell’emigrazione.
Come mai gli attacchi a Berlusconi, uno dei massimi rappresentati del capitalismo italiano? Berlusconi, da quando è al governo, fra una orgia e l’altra non ha avuto il tempo di continuare con la svendita del patrimonio italiano, occupandosi esclusivamente degli affari suoi, ovvero di come risolvere i propri problema giudiziari. Ai globalizzatori ha concesso poco, certamente molto meno di chi lo ha preceduto e quindi è normale che sia attaccato. Berlusconi, però dovrebbe comuqnue essere ringraziato dai globalizzatori anglo-aemricani, perchè con la sua política ha contribuito non poco ad incrementare il debito pubblico italiano, dando quindi una grossa mano ai globalizzatori che sulla base del forte debito pubblico, lasciato in eredità anche da Berlusconi, potranno chiedere a gran voce che si proceda con la massima urgenza alla privatizzazione di tutto quanto è possibile svendere.
Ricordiamo che Berlusconi, la prima volta che arriva al Governo era stato preceduto da Carlo Azeglio Ciampi, e questi poco dopo essere diventato capo del governo, il 30 giugno del 1993 nomina un Comitato di consulenza per le privatizzazioni, presieduto da Mario Draghi, uomo Goldman Sachs, non a caso, oggi, arrivato alla presidenza della BCE.
Ciampi aveva proseguito la svendita del patrimonio italiano iniziata dal socialista Giuliano Amato, braccio destro di Craxi (inspiegabile miracolato dai giudici che provvidero a far piazza pulita della classe politrica italiana di allora) e dal “lottizzatore” democristiano Romano Prodi; Romani Prodi venne così definito, per il suo comportamento quando era presidente dell’IRI, da Franco Bechis in un articolo pubblicato su Milano Finanza: “Prodi, all’Iri, lottizzò come un democristiano“.
Sul tema delle privatizzazioni in Italia, invitiamo ancora una volta a leggere l’articolo di Eugenio Caruso su Impresa oggi: “Iri tra conservazione e privatizzazioni
Insomma l’attacco al Cavaliere si spiega perchè non è considerato all’altezza dei suoi predecessori privatizzatori e quindi si preme per un immediato ritorno di questi.
L’attacco all’italia è finalizzato al furto del suo oro, del suo enorme patrimonio ambientale, artístico e archeologico e delle imprese pubbliche dai grandi guadagni.
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