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Il massacro di Sorman

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Fonte: “Reseau Voltaire
Nella foto: Khaled el-Hamedi viene decorato dal primo ministro Ismail Haniyeh per i suoi meriti umanitari, nel soccorso delle vittime di guerre e disastri naturali

 


Per una volta, Thierry Meyssan non fornisce una fredda analisi degli sviluppi geopolitici. Racconta i fatti di cui è testimone: la storia del suo amico, l’ingegnere Khaled K. Al-Hamedi. Una storia di orrore e di sangue in cui la NATO incarna il ritorno della barbarie.

 

 

Era una festa di famiglia alla libica. Tutti erano venuti a celebrare il terzo compleanno del piccolo Al-Khweldy. Nonni, fratelli e sorelle, cugini affollavano la casa di Sorman, 70 chilometri ad ovest della capitale, un grande parco in cui sono state costruite le case degli uni e degli altri, delle semplici abitazioni a un piano. Nessun sfarzo, ma la semplicità del popolo del deserto. Un ambiente pacifico e unito. Il nonno, maresciallo Al-Hamed Al-Khweldy, vi allevava uccelli: “Questo è un eroe della rivoluzione che ha partecipato al rovesciamento della monarchia e alla liberazione del Paese dallo sfruttamento coloniale. Siamo tutti orgogliosi di lui. Il figlio, Khaled Al-Hamed, Presidente dell’IOPCR, una delle più grandi organizzazioni umanitarie arabe, vi alleva cervi. Una trentina di bambini correvano in tutte le direzioni tra gli animali.

Si preparava anche il matrimonio di suo fratello Mohammed, partito per il fronte a combattere i mercenari stranieri controllati dalla NATO. La cerimonia doveva aver luogo qui, tra pochi giorni. La sua sposa era già radiosa.

Nessuno aveva notato che tra gli ospiti si era infiltrata una spia. Fece finta di mandare dei twitter ai suoi amici. In realtà, doveva inviare le coordinate e collegarsi con la rete del quartier generale della NATO.

Il giorno dopo, la notte del 19-20 giugno 2011, intorno alle 2:30, Khaled torna a casa dopo aver visitato e salvato i compatrioti sfuggiti ai bombardamenti dell’Alleanza. E’ abbastanza vicino a casa sua per sentire il fischio dei missili e le esplosioni.

La NATO ne spara otto, da 900 chili ciascuno. La spia aveva messo i marcatori nelle varie case. Nelle camere da letto dei bambini. I missili sono caduti a pochi secondi di intervallo. I nonni hanno avuto il tempo di uscire di casa prima che fosse distrutta. Era troppo tardi per salvare figli e nipoti. Quando l’ultimo missile ha colpito la loro casa, il maresciallo ebbe il riflesso di proteggere la moglie col suo corpo. Stavano uscendo dalla porta e sono stati proiettati dall’esplosione a una quindicina di metri di distanza. Sono sopravvissuti.

Quando Khalid è arrivato, c’era solo desolazione. Sua moglie, che aveva tanto amato, e il nascituro, sono scomparsi. I suoi figli per i quali avrebbe dato tutto, sono stati schiacciati dalle esplosioni e dal crollo del soffitto. Le ville sono in rovina. Dodici corpi mutilati giacciono sotto le macerie. Dei cervi colpiti dalle schegge agonizzano nel loro recinto.

I vicini accorsi in silenzio, sono alla ricerca di prove di vita tra le macerie. Ma non c’è speranza. I bambini non avevano alcuna possibilità di sfuggire ai missili. Si estrae il cadavere decapitato di un bambino. Il nonno recita versetti del Corano. La sua voce è ferma. Non piange, il dolore è troppo forte.

A Bruxelles, il portavoce della NATO ha dichiarato di aver bombardato il quartier generale di una milizia pro-Gheddafi, per proteggere la popolazione civile dal tiranno che la reprime.

Nessuno sa come la cosa sia stata progettata dal comitato degli obiettivi, o come lo stato maggiore ha seguito lo svolgersi dell’operazione. L’Alleanza Atlantica, i suoi lindi generali a quattro stelle e i suoi diplomatici benpensanti, hanno deciso di uccidere i figli dei leader libici per spezzarne la resistenza psicologica.

Dal XIII secolo, teologi e giuristi europei proibiscono l’assassinio delle famiglie. Questo è uno dei fondamenti stessi della civiltà cristiana. Non c’è quasi che la mafia ad ignorare questo tabù assoluto. La mafia, e ora la NATO. Il 1 luglio, mentre 1,7 milioni di persone dimostravano a Tripoli, per difendere il proprio paese contro l’aggressione straniera, Khaled è andato al fronte, a fornire aiuti ai rifugiati e ai feriti. I cecchini lo stavano aspettando. Hanno cercato di sparargli. E’ stato gravemente ferito, ma i medici hanno dichiarato che la sua vita non è in pericolo.

La NATO non ha terminato il suo sporco lavoro.

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio

http://www.aurora03.da.ru

http://www.bollettinoaurora.da.ru

http://aurorasito.wordpress.com/

 


Tarek Aziz chiede di essere giustiziato

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Domenica 19 giugno 2011

<font style=”font-face: Arial; font-size: medium”>  >Tarek Aziz chiede di essere giustiziato

 

Ieri, l’anziano Tarek Aziz, 75 anni, condannato a morte da un tribunale speciale, stremato da una salute malferma, ha chiesto di essere giustiziato perché non vuole morire in prigione. Lo smarrimento di un uomo abbandonato.

Una dittatura intelligente non si sporca più le mani, come faceva di base Franco, che ancora garrotava militanti anarchici nel 1974. No, essa crea una succursale, nomina i suoi affiliati e dà loro il titolo di “Alta Corte”. Il 26 ottobre scorso Tarek Aziz è stato condannato all’impiccagione dall’Alta Corte Penale irachena, il gran tribunale delle basse manovre, e in seguito la pena è stata confermata.

Tarek Aziz era l’inamovibile ministro degli Affari Esteri di Saddam Hussein, e la migliore porta d’ingresso degli occidentali nel mondo arabo. In Francia, tutti hanno adorato l’operato di questo grande diplomatico cristiano. Tutti hanno usato la base irachena e hanno glorificato questo paese arabo laico.

Ma cosa vale un amico, quando esso è arabo, se l’unico progetto dopo il settembre 2001 è di umiliare il mondo arabo per imporgli la colonizzazione economica?

Chi, tra gli amici dichiarati di Tarek Aziz, ha fatto nulla di tangibile dopo il suo arresto nel 2003?

Quale di questi grandi difensori dei diritti dell’uomo bianco ha prodotto qualcosa di più di un pallido comunicato per denunciare il processo iniquo fatto ai danni del grande diplomatico?

Quale di questi galli che battibeccano sul piatto degli avanzi ha denunciato la buffoneria della giustizia irachena?

Fatemi il nome di un solo uomo che abbia onorato le linee stabilite quando tutto andava bene, chiedendo il diritto di accesso per recarsi alla prigione di Kazimiyeh, a Baghdad… E se egli è stato ammanettato con le mani dietro la schiena , ciò risveglierà le nostre belle coscienze da quattro soldi?

L’anno scorso, Tarek Aziz è stato vittima di due crisi cardiache. Le ultime immagini sono quelle di un uomo estenuato. Suo figlio Ziad descrive uno stato fisico allarmante, e le “autorià” irachene rifiutano il diritto di accesso: “Sono passate due settimane, mia madre e mia sorella sono venute a Baghdad per fargli visita, senza successo. Inoltre, il vice ministro della giustizia non risponde più ai nostri appelli telefonici”.

L’11 novembre 2010, Jalal Talabani, un curdo, rieletto presidente, ha detto che si sarebbe opposto all’applicazione della pena di morte.

Malato, isolato, abbandonato, Tarek Aziz ha appena scritto ai suoi carnefici la sua volontà di non morire in prigione, e ha richiesto l’esecuzione della sua sentenza. Chirac, Chevènement e Le Pen non hanno capito niente.

 

* Actualités du droit (10/6/11) – http://lesactualitesdudroit.20minutes-blogs.fr/

 

Traduzione di Alessandro Parodi</font

Di ritorno dalla Libia. Intervista a Gilles Munier

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Gilles Munier, noto per il suo sostegno al popolo iracheno nelle guerre del Golfo e durante l’embargo, ha appena trascorso una settimana a Tripoli, città bombardata quotidianamente dai caccia della NATO. Egli ha in progetto di ritornarvi “per raccogliere testimonianze dei leader locali sul ruolo giocato dai servizi segreti occidentali e dagli interessi petroliferi nello scoppio e nella repressione delle rivolte arabe”, ed inoltre per aggiornare il suo ultimo libro: Le spie dell’oro nero.

D. Come viene considerata la Francia a Tripoli?

La Francia bene ma non si può dire lo stesso di Sarkozy; manifesti appesi ai muri della città lo dipingono come “massacratore di bambini libici”. Nessuno capisce come mai se la sia presa con Gheddafi, dopo averlo accolto con tutti gli onori a Parigi. I libici affermano di essere in grado di risolvere da soli i loro problemi interni, inoltre temono una irachenizzazione della crisi. La regione di Bengasi è diventata terra di Jihad per gli estremisti vicini all’Aqmi (Al-Qaeda nel Maghreb islamico). Hanno già nelle loro mani armi e missili e un domani forse potranno disporre anche di gas mostarda.
Ecco cosa succede quando giochiamo a fare gli apprendisti stregoni!

D. Alcuni avvocati, fra tutti Jacques Vergès e Roland Dumas, vogliono denunciare Nicolas Sarkozy per crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Le sembrano accuse realistiche?

Dall’inizio dell’intervento militare sono morti in media dieci civili libici al giorno; il totale dei feriti è tre volte superiore. Il 7 Giugno, alla vigilia del mio arrivo, una sessantina di missili sono caduti su Tripoli, causando 21 morti e decine di feriti. E’ stato il modo con cui la NATO ha festeggiato il compleanno di Gheddafi, che ricorre in quella data. Ho visitato un ospedale: le lacrime bagnano gli occhi alla vista di tutti quei feriti. Voglio sperare almeno che la giustizia internazionale instituirà il processo intentato contro Sarkozy, senza assumere posizioni preconcette.

D. Crede che Gheddafi verrà spodestato?      

Tutto è possibile. Ma il leader libico ha ancora diversi pezzi da giocare; è un abile scacchista. Tuttavia, basterebbe che un missile colpisca uno dei suoi rifugi perché venga eliminato. Il 30 di Aprile la NATO lo ha mancato di poco: aveva appena lasciato il domicilio familiare con la sua consorte. Uno dei suoi figli e tre dei suoi nipoti sono rimasti uccisi. I libici ritengono che i caccia fossero francesi, dei Rafael. Aisha Gheddafi, che ha perso sua figlia di quattro mesi nell’incursione, ha denunciato a Parigi Nicolas Sarkozy e Gérard Longuet. Oggi, a Tripoli, si parla di costituzione democratica, di libertà di stampa e di elezioni presidenziali. Tutto ciò potrebbe permettere di uscire nel migliore dei modi dalla crisi ma Hilary Clinton dice che è troppo tardi. Perché? Non è mai troppo tardi, salvo che l’obiettivo della NATO non sia realmente l’istituzione della democrazia. Ho rivisto Alì al-Ahwal, coordinatore generale di 2000 tribù e clan libici. Per lui la brusca dipartita di Gheddafi sfocerebbe in una guerra civile gravida di conseguenze anche per l’altra sponda del Mediterraneo.

Fonte: http://www.france-irak-actualite.com/

Traduzione a cura di Giacomo Guarini

Il pensiero strategico russo, un incontro con Jean Géronimo

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Christian Bouchet: Jean Géronimo, chi è lei?

Jean Géronimo: sono dottore e ricercatore in economia, specialista ed esperto di questioni relative al pensiero economico e strategico russo, presto la mia attività di ricerca presso l’università Pierre Mendès France di Grenoble II e contribuisco frequentemente a riviste e siti di geopolitica francesi, russi (e della CSI) ed italiani.

Cosa l’ha portata a scrivere “Il Pensiero strategico russo fra riforme e inerzia”?”

Dai tempi della mia tesi di dottorato intitolata “Ruolo e legittimità del Partito comunista nella regolazione del sistema sovietico” ho letto e appreso moltissimo sulla “questione russa”. Ho avuto occasione di conoscere sovietologi rinomati, grandi intellettuali francesi ed esperti di Russia. Ciò ha stimolato in me grande interesse e la curiosità di capire la società nuova che nasceva sotto i nostri occhi. Ho provato a svelare ciò che altri non hanno voluto o potuto fare: l’implicito  e i giochi nascosti del “ritorno russo”, così come le aree di interesse della sua strategia internazionale. Ho voluto anche mostrare la sopravvivenza di pratiche sovietiche nella condotta della politica estera e strategica russa. Per esempio, il ruolo persistente della forza nucleare nel posizionamento internazionale del paese.

A mio parere, il crollo dell’URSS, nel Dicembre 1991, non costituisce la morte dei valori “sovietici”; questi permangono nei riflessi, orientamenti e comportamenti dei dirigenti della Russia attuale. Tali valoro sono profondamente ancorati nella cultura e nell’inconscio immaginario del popolo russo. Da ciò l’esistenza di “inerzie sovietiche”.

Da dove nasce questo interesse peculiare per la Russia?

E’ un interesse maturato da tempo, dal mio ultimo anno di scuole superiori presso il liceo Champollion di Grenoble negli anni ’80, ai tempi dell’URSS. Presi allora coscienza del ruolo centrale della Russia sovietica nella difesa di un’ideologia che, alla base, è nobile e umanista. Ricordo certi slogan leninisti dell’Unione sovietica, “in difesa dei popoli oppressi” e “avanguardia del proletariato mondiale” anche se, a mio parere, l’ideologia comunista è stata tradita e deviata dai suoi obiettivi iniziali.

In seguito, tanto la mia tesi di dottorato del 1998 sull’economia sovietica, quanto l’incontro con specialisti della Russia, mi hanno portato ad analizzare la configurazione post- Guerra fredda dei rapporti di forza internazionali. Mi sono interrogato in particolare sull’idea del configurarsi di una Guerra tiepida, forma attenuata della Guerra fredda, ancorata nella periferia russa e centrata su specifiche variabili (controllo di risorse, circuiti energetici e zone economiche strategiche; estensione delle zone d’influenza mediante soft power ; costruzione di spazi di sicurezza, etc.).

Ma perché mai difendere la Russia?

La Russia è un mondo a parte, il cui comportamento è spesso mal compreso perché, nella maggior parte dei casi, percepito con degli a-priori negativi ereditati dal passato; essi sono ripresi attualmente da una ideologia neo-liberista a vocazione egemonica. Quest’ultima, dopo la famosa opera del 1991 di F. Fukuyama, è persuasa d’aver definitivamente vinto la battaglia ideologica della Guerra fredda contro “l’asse del male” comunista e, per tale ragione, giunge alla concezione della “fine della storia”: il liberismo sarebbe ormai la nostra unica salvezza.

Tuttavia, vista dal prisma occidentale, la Russia resta una minaccia potenziale, desiderosa di ritrovare il proprio spazio imperiale. E’ sorta pertanto la preoccupazione americana di “contenere” il suo ritorno. In questo delicato contesto, Vladimir Putin ha avuto l’enorme merito di far risollevare la Russia, resa estremamente fragile dalla transizione disastrosa del post-comunismo. Di fronte all’unilateralismo della politica americana ed alla sudditanza europea, ha restituito una dignità ed una voce al paese e anche se non tutto procede alla perfezione, egli ha ripreso l’idea della “grandeur” russa.

Il dissolvimento dell’URSS, IL 25 Dicembre 1991, costituisce secondo lei “la più grande catastrofe geopolitica del secolo”?

A mio parere si tratta di una data centrale e determinate per l’avvenire del mondo. Tale rottura fu una catastrofe da un duplice punto di vista.

Anzitutto lo fu per le genti, i popoli, i movimenti sociali e politici sorti in difesa degli ideali egalitari ed assetati di umana giustizia. Il movimento operaio si ritrovò traumaticamente orfano. Questa “caduta finale” ha ucciso un sogno,  ha troncato delle spinte ideali; la gente non ha più qualcosa in cui credere e ha perso i propri punti di riferimento. Tale configurazione ha favorito l’ascesa degli estremismi e dell’instabilità a livello globale.

Si è inoltre trattato di una catastrofe per gli equilibri geopolitici planetari: il crollo dell’URSS ha permesso da un lato la consacrazione dell’unilateralismo armato dell’iperpotenza americana e dall’altro ha rinforzato l’asimmetria ideologica del Nuovo Ordine Mondiale. La potenza sovietica costituiva l’unico effettivo contropotere alla potenza americana ed era così il “catenaccio” dei grandi equilibri internazionali. Il suo dissolvimento ha favorito l’emergere di una nuova forma di conflittualità, “periferica”, nel mondo  con l’affacciarsi di micro-crisi nazionaliste, religiose ed etniche. Lo sviluppo del radicalismo religioso, tanto cristiano quanto islamico, trova qui origine. La gente è alla ricerca di valori alternativi ai grandi modelli ideologici, per strutturare la propria storia ed identità. Possiamo vederne oggigiorno gli effetti…

Cosa pensa dei possibili disaccordi fra Medvedev e Putin?

Non vi sono disaccordi di fondo, ma di forma. I media occidentali hanno una visione molto “da marketing” della Russia e troppo spesso obsoleta, nutrita da vecchi stereotipi anticomunisti. E’ normale assistere oggi all’affermazione politica del presidente Dimitri Medvedev, la quale provoca delle frizioni con il suo primo ministro Vladimir Putin. Ciò è un bene per la Russia e dimostra anche che, checché se ne dica, esistono dibattito e pluralismo nel paese, anche ai più alti livelli della sua direzione politica. La dialettica fra due personalità di questo tipo, se resta entro soglie “tollerabili”, promuove il progresso della democrazia nel paese. Entrambi questi leader hanno come progetto centrale quello della riaffermazione della Russia sulla scena mondiale. Vogliono anche farne un paese moderno, una democrazia politica ed economica credibile, dando così una chance a tutti i russi. Entrambi mirano a riequilibrare l’ordine mondiale a favore di un asse eurasiatico, di cui farebbero parte Cina, Europa e Russia. Da cui la volontà dei dirigenti russi di creare strutture economiche e progetti di sicurezza comuni con l’Europa, così come estendere gli assi di cooperazione con la Cina. Sanno che un simile riequilibrio implica la messa in discussione dell’egemonia americana.

Cosa ne pensa del recente riavvicinamento fra NATO e Russia?

Un tale riavvicinamento è meramente formale e d’altronde è guidato dall’amministrazione americana. Si tratta di un riavvicinamento “strategico” nella misura in cui soddisfa, momentaneamente, gli interessi di entrambe le parti (scudo anti-missile ABM, trattato di riduzione nucleare START, ripresa del consiglio NATO/Russia, cooperazione militare in Afghanistan).

Tutto si gioca in Asia centrale; questa regione trabocca di risorse energetiche e presenta un interesse geopolitico evidente, in quanto parte integrante del vecchio Impero sovietico. Attualmente, la guerra in Afghanistan minaccia gli interessi americani e russi nella misura in cui favorisce lo sviluppo del “terrorismo internazionale”, del business della droga e della “minaccia islamista”, secondo la terminologia ufficiale. Per stabilizzare la regione, messa in pericolo da crescenti rivolte nazionaliste ed etno-religiose,  tutte le parti in causa devono reciprocamente comprendersi e farsi delle concessioni. Si tratta di un patto tacito, che spiega l’apertura dello spazio russo agli occidentali e l’installazione di basi americane o NATO nello spazio periferico russo, nel nome della lotta al “terrorismo” o alle “mafie della droga”, per esempio. La Russia teme un infiammarsi della regione e, in questo senso, la presenza militare occidentale è utile per la sua sicurezza – la qual cosa oltretutto fa risparmiare Mosca sulle spese militari. Ma la verità è che l’accerchiamento continua.

L’accerchiamento?

Sì, da un lato, sin dalla fine della Guerra fredda, la NATO  ha perseguito l’obiettivo di estendersi all’area post-sovietica; obiettivo sancito dall’installazione di basi militari nella regione. D’altro canto, il Partenariato per la pace (PPP) della NATO permette ora una forma di controllo soft sulle ex-repubbliche sovietiche, mediante la loro partecipazione a programmi comuni. Infine, l’amministrazione americana persegue la sua “cooptazione” degli Stati pivot dello spazio ex-sovietico, suscitando la collera e l’incomprensione di Mosca, storicamente legata al suo “vicinato straniero” che considera come zona di proprio dominio riservato. Questo accerchiamento sempre più serrato attorno a Mosca tende, nel lungo periodo, a istigare una forma di conflittualità latente, che non aspetta altro che esplodere. La Russia è dunque condannata ad una veglia strategica permanente, nel cuore dell’Eurasia.

L’idea, avanzata dal geopolitico yankee Parag Khanna, di un mondo futuro dominato da tre grandi potenze (USA, Cina, Russia) e nel quale la Russia non avrà più un grande peso, le pare credibile?

Non condivido questa visione parziale e semplicista, che non tiene conto della realtà delle alleanze. Il problema è più complesso.

Anzitutto, la Cina e l’Europa fanno parte delle alleanze geostrategiche potenziali della Russia (l’asse eurasiatico), si tratta dunque di potenze che potrebbero teoricamente mobilitarsi contro l’America. In futuro, la Russia peserà ancora di più grazie all’arma energetica, che resta un fattore di dipendenza cinese ed europea nei suoi riguardi.

Ricordiamo anche che l’Europa politica non esiste e non esisterà in un futuro prossimo, tanto più che non dispone di strutture militari proprie e di una strategia di sicurezza consolidata. Invece la Russia è coinvolta in un processo di recupero economico e tecnologico molto spedito, che rinforzerà le basi della sua potenza e dunque il suo status internazionale.

Infine, l’America è in declino, giacché si trova in sempre maggiore competizione con le nuove potenze emergenti, sul piano economico e militare – e vede la propria dipendenza energetica accrescersi pericolosamente, per non parlare dell’abissale deficit esterno. In quanto emittente della valuta internazionale, che le conferisce un forte potere politico ed economico, l’America non è subordinata alle stesse regole degli altri paesi e manifesta al riguardo una certa noncuranza. Ma essa sopravvive proprio grazie al dollaro.

Allora, la Russia potrà un domani diventare attore primario della politica internazionale?

A breve la Russia peserà maggiormente sulla governance mondiale ed approfitterà della sua ascesa come potenza per riuscire nei suoi riassestamenti di alleanze ed accrescere la propria influenza nel nuovo ordine internazionale. Essa ha due pezzi fondamentali da giocare sulla scacchiera eurasiatica, contro la potenza americana, cinese ed europea: l’indipendenza energetica e la potenza nucleare. Inoltre, la sua crescita economica resta elevata, superiore alle altre economie occidentali e sempre più trainata dal suo sviluppo tecnologico – che ne riduce il gap rispetto alle economie avanzate.

Il chiaro obiettivo della Russia moderna, ripreso dal presidente Medvedev, è l’abbandono del suo stato di economia di rendita, che fonda la forza della propria crescita sulle sole risorse energetiche. Tale configurazione rinforza l’autonomia della sua strategia politica sulla scacchiera mondiale. La Russia ha dunque tutte le carte in mano per tornare ad essere a breve un attore primario sulla scena internazionale. Essa vi avrà maggior peso. Inevitabilmente.

Traduzione di Giacomo Guarini

 

Geopolitica per la liberazione

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Fonte: http://licpereyramele.blogspot.com/2011/07/geopolitica-para-la-liberacion.html

La lettura geopolitica che Perón dà circa la relazioni di potere sorte dalla sconfitta di Germania e Giappone e dal dopoguerra costituisce un punto cardine del pensiero politico latinoamericano e terzomondista riconosciuto non solo dagli intellettuali di partito, ma anche dai suoi critici a livello internazionale.

L’artefice del giustizialismo avverte, con una velocità e una precisione profetica, che gli accordi di Jalta, mostrati positivamente al mondo come il momento della creazione di una pace durevole, contenevano e nascondevano gli schemi geopolitici di un consenso volto al dominio. Tale struttura, costruita dagli alleati per la pacificazione mondiale tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, i grandi vincitori della Seconda Guerra Mondiale, proiettava i futuri scontri bellici della dicotomia tra l’ “internazionalismo liberale“, con a capo i nordamericani, e il “socialismo internazionalista“, comandato dalla Russia di Stalin, all’interno di un ordine dove ogni polo si assicurava mutuamente la ripartizione del pianeta in due blocchi in cui era lecito esercitare il controllo.

Il nuovo ordine mondiale del dopoguerra implicava, come conseguenza, un cambio di epoca e delle complesse relazioni di potere di difficile interpretazione per quei paesi periferici, e, ancor di più, per quelle nazioni che avevano mantenuto la neutralità durante il conflitto, come nel caso dell’Argentina.

Perón concepisce dunque una geopolitica per la liberazione di quei popoli che si volevano subordinare a uno dei due nuovi imperialismi che, tre o quattro anni più tardi, avrebbero traghettato da una pace durevole alla Guerra Fredda. Guerra che, come segnalava il leader argentino, sarà fredda tra loro – ovvero, i loro territori non saranno teatro di violenze o bombardamenti – ma sarà “calda” per i popoli del Terzo Mondo, vero i quali verrà diretta la geopolitica del dominio dei due grandi internazionalismi postbellici.

Nelle elezioni generali del 1946 Perón mette in guardia sul fatto che quell’Unione Democratica (cui si opponeva con un nuovo movimento storico) nella quale si trovavano spalla a spalla i radicali, i comunisti e l’ambasciatore degli Stati Uniti, era un’alleanza senza futuro politico nell’ottica di elezioni future.

La Terza Via geopolitica, che trovava fondamento in un “tercerismo” filosofico di fronte agli internazionalismi in lotta ideologica, era già stata presentata più e più volte da Perón nei suoi discorsi del 1944. Nell’assumere questa posizione teorica e una dimensione strategica pratica, per di più internazionale se inserita all’interno dei giochi di potere del dopoguerra, Perón presenta, con la sua unità di pensiero e azione, una sfida chiara ai nuovi poteri mondiali.

Sebbene si collocasse nel quadrante dominato dagli Stati Uniti, la Terza via geopolitica scuoteva l’intero ordine globale. L’unico esempio simile, ubicato nell’altro blocco del mondo, era la Jugoslavia del Maresciallo Tito. A tal proposito, venne fuori una conversazione tra Stalin e Churchill. Al primo che afferma: “Se Perón stesse nel mio settore di competenza, saprei come punire sia lui che quelli che lo seguono“, Churchill risponde “Se avessi Tito e i suoi seguaci nel mio, anch’io saprei come fargli pagar cara la sua disobbedienza al nuovo ordine“.

Gli anni successivi al dopoguerra videro intensi processi di decolonizzazione di ogni tipo, soprattutto in Asia e Africa. I leader popolari di quei processi cominciarono a parlare con passione del nuovo paradigma insito nella Terza Via mostrata dall’artefice del giustizialismo: “non allinearsi” né con l’imperialismo nordamericano, né con l’imperialismo sovietico.

Nel 1955 si tiene la Conferenza di Bandung ,convocata dal presidente indonesiano Sukarno. In quel luogo dozzine di paesi asiatici e africani abbracciano una politica indipendente dalle “potenze dei bianchi“. E’ la riunione dei leader conosciuta come “la conferenza della negritudine“. Solo due leader “bianchi” sono invitati a participare, uno è Perón che non può partecipare perchè preoccupato seriamente dalla controrivoluzione civico-militare già in marcia. Tuttavia, manda una dichiarazione di adesione accolta da un’ovazione dei presenti.

 

Quando finisce la conferenza Sukarno annuncia “che i popoli lì riuniti prendono l’impegno di mantenersi non allineati e neutrali nella guerra per il dominio imperialista del mondo “.

Pochi anni dopo, a Belgrado, si forma, con un carattere ormai più militante, il Movimento dei Paesi Non Allineati, in cui si ritrovano l’India di Nehru, l’alleanza dei paesi arabi di Nasser e la Cina di Mao, che ha abbandonato il blocco sovietico. Se Perón non fosse stato destituito dalla vergognosa controrivoluzione chiamata ironicamente “liberatrice”, la sede di quella riunione centrale per la geopolitica mondiale avrebbe potuto essere Buenos Aires.

Davanti a un nuovo anniversario della morte di Perón, sembra doveroso trasmettere alle nuove generazioni il messaggio che il leader giustizialista non è stato solo un importante leader popolare, ma anche il più importante pensatore politico argentino del Ventesimo secolo, quello che, senza ombra di dubbio, ha avuto maggior peso a livello mondiale. È difficile trovare un manuale di politica, non importa in quale lingua esso sia stato scritto, dove non si faccia menzione del suo ruolo nella storia e del suo pensiero.

(Trad. di F. Saverio Angiò)

I nuovi paradigmi della politica estera turca

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Fonte: http://www.turkishreview.org/tr/newsDetail_getNewsById.action?newsId=223077

La costante crescita economica, culturale ed in politica estera della Turchia offre la possibilità di sviluppare una “politica di zero problemi con i vicini” efficace e durevole così come la promessa di sviluppi economici reciprocamente vantaggiosi, sostenibili ed estesi in tutto il mondo, che potenzialmente potrebbero cambiare la cultura del capitalismo. Quindi si può offrire un nuovo paradigma al vecchio mondo come a paesi del terzo mondo che cercano giustizia, benessere ed uguaglianza.

Una struttura di interconnessione globale dell’economia,  il sistema e la cultura del capitalismo, e l’ interdipendenza tecnologica hanno preso il comando della società. I principi e i presupposti dell’ideologia dell’emergente cultura capitalista – conosciuta anche come economia neoclassica, neoliberista e libertaria o capitalismo di mercato o liberalismo di mercato – prevedono le privatizzazioni, che spostano funzioni e beni dai governi al settore privato, migliorando l’efficienza dei mercati liberi; essa, però, è priva di controllo da parte del governo, ed è generalmente il risultato di una ripartizione più efficiente e socialmente ottimale delle risorse, in quanto la responsabilità primaria del governo è di fornire infrastrutture e far rispettare lo stato di diritto. Ma in questa autoregolamentazione non c’è nessuno che controlli o che affermi di essere responsabile di illeciti o che rivendichi il controllo nel caso di catastrofi culturali, economiche o politiche. Né i paesi sviluppati dell’Occidente né i paesi del terzo mondo stanno fornendo una soluzione sostenibile a questi problemi. Quali sono gli elementi dei problemi globali chiamati “catastrofe”? E ‘una mancanza di comprensione reciproca, povertà e polarizzazione culturale? Nel 2008, Richard H. Robbins ha affermato nel suo libro “Problemi globali e cultura del capitalismo”, che dagli anni ‘90, le multinazionali stanno indebolendo gli Stati nazionali artificialmente creati nel 20° secolo. Robbins ha ricordato ai suoi lettori che la creazione degli stati nazionali è stata all’origine delle ideologie del fascismo, nazionalismo, imperialismo e colonialismo, che in totale hanno causato 170 milioni morti e numerose violazioni dei diritti umani durante il 20° secolo. Tuttavia, le economie mondiali emergenti come Cina, India, Turchia e Brasile hanno invitato il capitale delle multinazionali nelle loro economie per soddisfare i loro obiettivi di crescita economica, rafforzando  così la superiorità culturale, economica, militare e politica degli Stati Uniti in paesi periferici.

La costante crescita economica, culturale ed in politica estera della Turchia offre la possibilità di sviluppare una “politica di zero problemi con i vicini” efficace e durevole, così come la promessa di sviluppi economici reciprocamente vantaggiosi sostenibili e diffusi in tutto il mondo, che potenzialmente potrebbero cambiare la cultura del capitalismo.

La “politica turca di zero problemi con i vicini”

Il politologo George Friedman ha affermato nel suo “I prossimi 100 anni: una previsione per il 21 ° secolo” che “così come cresce il potere della Turchia - la sua economia e il suo esercito sono già i più potenti nella regione – così crescerà l’influenza turca come unico mediatore nel mondo islamico che possa portare la pace in Medio Oriente”. Si tratta di una previsione corretta? In realtà, la Turchia risente ancora molto del pensiero di Mustafà Kemal Atatürk, che voleva uno stato moderno, filo-occidentale e laico, che evitasse avventure all’estero o rivendicazioni territoriali. Ciò a cui Atatürk mirava era un paese unito, incentrato sul popolo turco e uno stato unitario e fortemente centralizzato.

La Repubblica turca bandì l’Islam dalla vita pubblica e cambiò il precedente alfabeto arabo con quello latino negli anni ‘20. Fino agli anni ‘90 i turchi si comportavano come inquilini che hanno difficoltà con tutti i loro vicini. Oggi, invece, la Turchia può vantare buoni rapporti con quasi tutti i paesi circostanti della regione – con la sola eccezione dell’Armenia. I musulmani turchi hanno democratizzato una dottrina dello stato rigida, nazionalista, giacobina e laicista, trasformandola in un laicismo in stile britannico, soft, anti-autoritario e libero dall’oppressione, che offre una netta separazione tra religione e stato. Sul fronte interno, la Turchia ha formulato soluzioni contro il mortale separatismo curdo. Ankara ha cercato di normalizzare le relazioni con la sua stessa popolazione curda di circa 14 milioni; uno dei primi passi è stato quello di riconoscere i diritti linguistici e culturali dei curdi che vivono in Turchia.

Naturalmente c’è chi non è d’accordo con questo quadro ottimistico sul futuro della Turchia. Infatti c’è chi percepisce la posizione della Turchia ancora come quella di un fantoccio dell’Occidente, e ritiene che il governo del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) abbia venduto il paese alle multinazionali. Ma i fatti dicono il contrario. La Turchia è già un astro nascente della regione.

Il prof. Ahmet Davutoğlu, ministro degli esteri della Turchia dal maggio 2009 e primo consigliere politico del primo ministro Recep Tayyip Erdoğan dal novembre 2002, ha scritto un libro sulla politica estera, dal titolo “Profondità Strategica“, quando era professore universitario. L’opera proponeva una visione di “zero problemi con i vicini” oltre a creare nuove relazioni con loro. In questo libro Davutoğlu ha reinterpretato la missione e gli interessi della Turchia in tutto il mondo in chiave di  mediatore e pacificatore globale. Ekrem Eddy Güzeldere nel ha analizzato il pensiero di Davutoğlu nel Centro di Analisi Politica per la ricerca politica applicata (PAC) con il suo articolo “Politica Estera turca: Da ‘circondato da nemici’ a ‘Zero Problemi’”. Nel suo articolo Güzeldere, ha affermato che la posizione geografica, storica e geostrategica della Turchia, ha offerto e richiesto una politica estera lungimirante, proattiva, innovativa e sostanzialmente poliedrica. Egli afferma che la nuova politica estera turca sia per la prima volta indipendente dagli Stati Uniti e dalla UE. In realtà, la visione della “profondità strategica” e della “politica di zero problemi con i vicini” fornisce molte piattaforme di dialogo e rappresenta un passo verso la soluzione dei conflitti regionali, al servizio degli interessi economici di tutti i partecipanti.

Un esempio è la resistenza della Turchia ad applicare sanzioni internazionali contro l’Iran a causa del suo programma nucleare. La Turchia si era opposta alle sanzioni ed ha lottato per i propri interessi economici contro Stati Uniti e Israele. L’area orientale della Turchia e la sua popolazione dipendono dai miliardi di dollari provenienti dall’economia informale tra Iran e Turchia. Questo commercio non può essere compromesso. Inoltre, quasi la metà della popolazione iraniana è di origine turca, e la Turchia ha sia la responsabilità morale che etnica di proteggerli. La Turchia  acquista risorse energetiche dall’Iran che soddisfano i bisogni fondamentali per la sua crescita economica. Haroon Siddiqui ha analizzato il tema caldo dell’Iran in modo diverso, affermando che “la Turchia condivide le paure americane, israeliane ed arabe sulle ambizioni nucleari di Teheran, ma sente che sanzioni economiche multilaterali non funzionerebbero, proprio come le sanzioni unilaterali americane non hanno funzionato negli ultimi 31 anni.” Gli interessi politici ed economici vanno sempre di pari passo; i loro legami dovrebbero essere reciprocamente vantaggiosi per entrambe le parti; un interesse unilaterale è visto come coloniale e imperialista. La Turchia offre al mondo un nuovo modello di sviluppo economico reciprocamente vantaggioso.

Modello di sviluppo economico reciprocamente vantaggioso

La Turchia è una nazione di 73 milioni di abitanti ed ha il secondo esercito più grande della Nato dopo gli Stati Uniti. La sua economia era in piena espansione al 6/7 per cento all’anno fino alla crisi finanziaria globale nel 2008 ed è tornata in pista con l’8.9 per cento di crescita nel 2010. Ha la diciassettesima economia più grande del mondo, la settima più grande in Europa e la più grande del mondo musulmano in termini di PIL annuo: circa 700 miliardi di dollari contro i mille miliardi del Canada. La recente recessione economica non ha avuto un impatto significativo sull’economia formale turca grazie ad un sistema bancario ben strutturato e controllato stabilito sulla scia delle crisi bancarie del 2000 e del 2001 (con l’aiuto di un accordo con il Fondo Monetario Internazionale, FMI, come nel caso di molti paesi in via di sviluppo), mentre il governo possiede ancora un terzo del settore pubblico, nonostante gli sforzi di privatizzazione a partire dagli anni ‘90.

La Turchia ha respinto le proposte del FMI e prestiti per miliardi di dollari offerti sin dal 2008 nell’ambito del programma di adeguamento strutturale. Questa decisione dimostra che il sistema bancario turco sta migliorando. Zeynep Önder e Süheyla Özyıldırım della Bilkent University hanno studiato il ruolo che le istituzioni finanziarie, sia banche statali che private, hanno nella crescita regionale; la loro importanza, il loro impatto sulla crescita finanziaria della Turchia come modello di mobilità per l’economia nazionale, e la ridotta diseguaglianza economica tra le regioni che esse generano. Anche se positivo, il loro studio ha concluso che sono necessari maggiori investimenti pubblici.

Le esportazioni turche sono aumentate di cinque volte dal 2002, grazie alla creazione di un nuovo rapporto economico tra la Turchia e il mondo musulmano, in particolare gli arabi. Beni di consumo esclusivi a buon mercato “Made in Turkey” hanno conquistato i mercati arabi, asiatici e africani: da jeans e biscotti a televisori e frigoriferi, che hanno contribuito a rimuovere l’immagine del “Turco Brutto”. Tuttavia, fino al 2002 i canali di notizie arabi difficilmente parlavano della Turchia e quando lo facevano era solo per denigrare i rapporti di Ankara con Israele. Oggi, quasi ogni giorno, le stazioni arabe danno ai loro spettatori gli aggiornamenti sulle ultime riforme politiche di Ankara e la crescita economica di Istanbul. Come Siddiqui ha sottolineato nel suo articolo, “la Turchia sta anche allungando le sua braccia verso l’Africa per aumentare il suo commercio di 10 miliardi di dollari all’anno con il continente. (Tutti i paesi africani, eccetto uno, hanno votato per l’adesione turca al Consiglio di sicurezza dell’ONU lo scorso anno).”

Nell’ultimo decennio la Turchia ha attirato miliardi di dollari di investimenti stranieri provenienti da ogni continente e dalle multinazionali. Questi investimenti esteri, senza precedenti, su vasta scala ed il loro successo sono dovuti non solo alle politiche economiche, ma anche ad una politica estera implementata con successo ed ad un  modello di sviluppo economico reciprocamente vantaggioso.

Alla scoperta del trauma curdo

Gli stati nazionali e le potenze egemoniche mondiali hanno globalizzato la cultura del capitalismo ed hanno cancellato le reali memorie sociali di molte nazioni e comunità etniche. La storia è diventata un costrutto sociale e molte nazioni e storie nazionali ufficiali sono creazioni immaginarie, progettate per fossilizzare il passato e bloccare la nostra comprensione della verità storica per il bene della continuità sociale. La verità è imposta dalla società, la storia è un falso ed una lettura selettiva degli eventi passati.

Ma le nuove tecnologie della comunicazione consentono la riscoperta del passato. E’ ricordato con una intensità senza precedenti. Nel caso turco, i curdi stanno beneficiando di questo nuovo paradigma, che offre molteplici voci invocando uno spazio di discussione nella sfera pubblica, negando una falsa continuità nella narrazione ufficiale. La Turchia è riuscita ad adattarsi a questo nuovo paradigma ricostruendo il suo stesso futuro in un modo più democratico e più forte. Questo paradigma ripara i danni, permettendo ai curdi di partecipare alla vita politica, economica e culturale.

In conclusione, la Turchia offre un nuovo paradigma al Vecchio Mondo (la civiltà occidentale) che potrebbe sfidare il futuro poiché i paesi del terzo mondo cercano giustizia, benessere ed uguaglianza attraverso il modello turco di “zero problemi con i vicini” e mediante un “modello di sviluppo economico reciprocamente vantaggioso” .

Traduzione di Antonio d’Addio

I legami fra Russia e Cina sono pronti per una grande ripresa

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Fonte: http://blogs.rediff.com/mkbhadrakumar/2011/07/03/russia-china-ties-poised-for-huge-upswing/

L’accordo sul gas da trilioni di dollari siglato 30 anni fa tra Russia e Cina, e che dovrebbe concludersi entro l’anno, rappresenterà un punto di svolta. In occasione della visita di Hu Jintao in Russia il 15-18 giugno, i due paesi hanno deciso di incrementare il commercio bilaterale che ammonta attualmente a 60 miliardi di dollari, e si aggirerà intorno ai 100 miliardi di dollari entro il 2015 e ai 200 miliardi di dollari entro il 2020. I due paesi hanno deciso di accelerare il commercio attraverso investimenti e industrie ad alta tecnologia. La dimensione interregionale del commercio costituisce una nuova situazione che coinvolge l’est russo e la Siberia orientale a nord-est con la Cina. Hu ha affermato: “Il prossimo decennio è un periodo di importanti opportunità non solo per lo sviluppo e la rivitalizzazione di Cina e Russia, ma anche per l’accelerazione delle relazioni russo-cinesi”.

L’ultimo invito russo alla Cina ad intraprendere progetti ferroviari in Russia per l’alta velocità ed ad unirsi alla privatizzazione delle Ferrovie Russe è un forte segnale della tendenza emergente. Si tratta di un momento straordinario nella maturità del partenariato strategico dato che la Russia è disposta a lasciare alla Cina parte della propria rete ferroviaria. Vladimir Jakunin, figura influente nella politica del Cremlino, si è confrontato con Xinhua ed ha optato per migliorare il sistema ferroviario nel collegamento col Tibet.

La Russia spera di attrarre la Cina utilizzando il suo sistema ferroviario in modo tale da sviluppare una rotta commerciale via terra verso l’Europa in grado di ridurre la dipendenza sullo Stretto di Malacca, punto di dipendenza americana. Questa è una proposta di grande importanza strategica per la Cina. Pertanto, con il lancio ufficiale di sabato di un treno merci che parte da Xinjian su un nuovo percorso di 11 mila chilometri lungo la ferrovia transcontinentale che collega la Cina con la Germania è un evento storico. Rispetto ai 36 giorni che ci si impiegano normalmente utilizzando l’opzione via mare da Shanghai e Guangzhou in Europa, attraverso lo Stretto di Malacca, il treno merci ci mette solo 13 giorni, ed è molto più economico.

La geopolitica dell’Eurasia sta subendo un enorme cambiamento di cui l’India deve prendere atto. La Cina sta rapidamente costruendo legami con l’Ucraina e la Bielorussia,  vie di transito fondamentali per il suo commercio con l’Europa occidentale. Durante la visita di Hu in Ucraina il 18 giugno, si è discusso circa la possibilità di investire circa 3 miliardi di dollari nel paese. La Bielorussia, paese di transito nella linea ferroviaria, è stata ammessa in qualità di  ‘osservatore’ al vertice della Shanghai Cooperation Organization ad Astana il 15 giugno.

*M.K. Bhadrakumar è stato diplomatico di carriera nel servizio estero indiano. Tra gli incarichi ricoperti sono inclusi l’Unione Sovietica, Corea del Sud, Sri Lanka, Germania, Afghanistan, Pakistan, Uzbekistan, Kuwait e Turchia.

Traduzione di Eleonora Ambrosi

Sviluppi Politici nell’Egitto della “rivoluzione”

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Fin dai tempi di Ottaviano Augusto, la potenzialità strategica dell’Egitto aveva fatto di questa terra una delle più importanti province imperiali. Oggi, in seguito agli eventi che hanno sconvolto il governo Mubārak, la posizione del Cairo nello scenario internazionale torna ad essere discussa. Il 25 gennaio l’eco della protesta tunisina raggiunge la vecchia terra dei faraoni prospettando la possibilità di un rovesciamento del governo ed una possibile riconfigurazione della politica estera. Per l’Egitto post-Mubārak si profilano diverse alternative nella definizione del proprio futuro, tra queste, quella iraniana cerca di approfittare dell’incertezza della regione per catturarne il consenso.

Un’autonomia stroncata

La posizione pregiata dell’Egitto costituisce una delle arterie più importanti del commercio marittimo e dei corridoi energetici e militari. Le sue potenzialità vennero comprese nei secoli e, in particolare, trovarono riscontro nel programma di modernizzazione inaugurato da Muhammad ‘Ali. Le sue riforme, infatti, segnarono la via per lo sviluppo egiziano e per la creazione di strutture economiche, politiche e sociali autonome. Tuttavia, i progetti espansionistici dell’Europa, in primis quelli inglesi e francesi, interferirono in quel percorso rimodellando le strutture della modernizzazione ed adattandole alle logiche dell’accumulazione del capitale. In questo modo, consci del potenziale strategico dell’Egitto, gli inglesi iniziarono a definirne il ruolo sulla base delle proprie velleità di conquista. Sulla scia della rivolta di ‘Urābī Pasha del 1886, le aspirazioni indipendentistiche si concretizzarono nell’organizzazione dei primi movimenti: nel 1919 nacque il Wafd. A questo primo partito, si aggiunsero altri gruppi che auspicavano l’instaurazione di un sistema democratico in un quadro antimperialista. Tuttavia, il linguaggio utilizzato suscitò timori tra le forze britanniche tanto che, nel tentativo di osteggiare focolai di natura nazionalista, concessero maggiori spazi a forze di carattere sociale e, nello specifico, a quella dei Fratelli Musulmani fondata nel 1928. Nonostante ciò, l’Egitto continuava ad essere teatro delle politiche strategiche inglesi che ne definivano il ruolo nell’area regionale. Il colpo di stato degli Ufficiali Liberi del 1952 e l’ascesa al potere di Nāṣer nel 1954, segnarono la svolta dell’Egitto verso l’autonomia. La nazionalizzazione del Canale di Suez rappresentò l’atto più clamoroso dell’indipendenza del paese. Lo stesso Nāṣer, quando salì al potere, ottenne una legittimazione di leader della rivolta popolare pari a quella dei regimi sorti in seguito alle lotte per l’indipendenza. Il nuovo presidente ridefinì il ruolo del suo paese secondo una nuova logica capace di far assurgere l’Egitto ad uno dei protagonisti dello scenario regionale con un programma ispirato al panarabismo e all’antimperialismo. Il 1967 segnava il fallimento della manovra egiziana. Sādāt, succeduto a Nāṣer nel 1970, inaugurò la politica dell’infitah che decretò l’apertura economica, le politiche di privatizzazione e l’ingresso dei grandi monopoli capitalistici nel paese. La politica estera di Sādāt, sempre più vicino all’orbita statunitense, iniziava a privare l’Egitto del suo protagonismo. Mubārak raccolse l’eredità del suo predecessore e perseguì la stessa strada. L’autonomia egiziana sul piano internazionale venne sacrificata in nome del liberalismo economico per porsi come strumento di realizzazione della strategia statunitense.

Le forze in gioco di Tahrir

Gli eventi di Piazza Tahrir rappresentano il culmine di un forte malessere sociale. Il paese, logorato dalla politica clientelare del presidente e lacerato dalla forte sperequazione sociale, ha reclamato, nei giorni di Tahrir, rappresentanza democratica e trasformazioni economiche. Queste potenzialità democratiche spaventano non poco gli Stati Uniti e il vicino Israele per i quali, un cambiamento sostanziale dell’Egitto ne potrebbe mettere in discussione i privilegi. Per questa ragione, gli stessi Stati Uniti hanno manifestato il proprio plauso al referendum di marzo che prevedeva l’introduzione di alcuni emendamenti costituzionali, piuttosto che, come chiedevano le numerose anime della Piazza, una nuova redazione del testo. Il referendum, dunque, figura come una prova del rifiuto al cambiamento proveniente da alcune componenti del paese. In questo modo, la giunta militare sembra abbia cercato una legittimazione a livello popolare sfuggendo, allo stesso tempo, a cambiamenti sostanziali che possano realmente decretare la svolta del paese.

Dalle dimissioni di Mubārak, la giunta militare insediatasi, seppure ostile al precedente governo, appare, comunque, una continuità rispetto al passato politico. Lo stesso Mubārak giunge da quella classe militare che ha contribuito a cacciare, insieme alle fazioni democratiche, la sua famiglia dall’arena politica. In breve, i militari hanno osteggiato Mubārak e le sue reti clientelari, tuttavia, non intendono introdurre cambiamenti che possano stravolgere lo status quo del paese. La classe militare è stata capace di cavalcare il malcontento popolare in un momento di confusione e di smarrimento dei movimenti democratici presenti nella celebre Piazza Tahrir. L’insediamento della nuova giunta, tuttavia, garantisce stabilità e continuità alla precedente politica. Pertanto, gli Stati Uniti, al fine di tutelare il proprio impero finanziario, preferiscono sostenere la classe militare affinché le politiche di difesa dei loro interessi proseguano indisturbate. D’altra parte, questa classe dirigente si presenta come una forza organizzata in un frangente storico in cui poche altre forze potrebbero essere in grado di avanzare un’alternativa credibile. Una di queste è quella dei Fratelli Musulmani che, pur non avendo alle spalle una storia di partito, si presenta come uno dei pochi movimenti radicati nel paese e dalla consistente forza organizzativa.

La solidità dell’organizzazione è legata al suppporto che questa stessa ha ottenuto fin dalla sua fondazione, al fine di contenere l’espansione di programmi politici antimperialistici e nazionalisti (come quello del Wafd). Se Nāṣer mise al bando l’organizzazione dall’attività politica, al contrario, Sādāt, prima, e Mubārak, poi, sebbene non le consegnarono mai piena legittimazione, le affidarono un ruolo significativo nel campo dell’istruzione, della giustizia e dell’informazione. Questo meccanismo rientrava in  una strategia governativa finalizzata ad inglobare la religione nella sfera politica, ossia, rappresentava uno strumento per impedirne gli entusiasmi e tenerla sotto controllo. Allo stesso tempo, la presenza della religione nella quotidianità del paese ha consentito una crescita della propria struttura. In questo modo, anche i Fratelli Musulmani, al pari degli Stati Uniti, hanno interesse nel conservare la continuità con le misure precedenti qualora queste comportino una subordinazione alle logiche USA. È cosa nota, infatti, che la stessa Fratellanza possiede forti interessi economici che la spingono a favorire le politiche liberiste statunitensi. Per questa ragione, la paternità delle rivolte non spetta nemmeno all’islam politico che, anche in questa occasione, ha avuto scarse possibilità di egemonizzare la protesta. Infatti, fin dai tempi dell’assassinio di Sādāt, ha cercato di scatenare un’insurrezione a sfondo religioso. E, anche in questi ultimi eventi, sconcertati dalla folla di Tahrir, i Fratelli hanno tentato di cavalcare la protesta. Tuttavia, i loro tentativi sembrano scontrarsi con le intenzioni di una protesta prevalentemente laica. In questo frangente, infatti, la società civile egiziana presenta un cosmo variegato di movimenti che sembrano reclamare istanze laiche difficilmente manovrabili dai Fratelli. Eppure, la loro posizione sembra essere una pedina importante per un’altra potenza: l’Iran. Da un lato, questo “presunto” nuovo Egitto sta cercando di conquistare dei propri spazi nello scenario internazionale. Ne è prova la svolta diplomatica nelle relazioni con il Vicino Oriente e l’area africana. A tal proposito, vi sono stati dei segnali significativi. In primis, l’Egitto si è proposto come teatro della firma degli accordi tra Ḥamās e Al-Fatah e, di lì a poco, ha annunciato l’apertura del Valico di Rafah, unica porta di accesso all’Egitto per i palestinesi. In questo, la nuova diplomazia ha certamente toccato un tema molto caro alla popolazione egiziana che, durante le manifestazioni di Tahrir, ha avanzato richieste in favore dell’autodeterminazione della Palestina. Il governo Mubārak, infatti, schiavo degli interessi israeliani, si era reso complice persino della strage scatenata durante l’operazione Piombo Fuso tra dicembre 2008 e gennaio 2009. Quest’apertura è stata accolta positivamente da Teheran. Dal 1979, anno della Rivoluzione Iraniana e della firma degli accordi di Camp David, i due paesi avevano interrotto le relazioni. L’annuncio del Ministro degli Esteri egiziano, Nabil Al-Arabi, che ha invitato a ripristinare le antiche relazioni tra i due paesi, è stato recepito dalle autorità iraniane che, dopo 32 anni, hanno nominato l’ambasciatore della Repubblica Iraniana al Cairo.

D’altro canto, questi dialoghi istituzionali sembrano riconducibili all’interesse che entrambi i paesi nutrono nell’affermare una rinnovata posizione politica. Nello specifico, l’Egitto, dalla maschera rinnovata, intende assicurarsi una credibilità politica che profumi di autonomia ma che, in realtà, possiede la minaccia della controffensiva USA e del suo sostegno dietro la classe militare. Da parte sua, l’Iran, intende affacciarsi sul Mediterraneo sfruttando l’esitazione politica e destabilizzando la regione. In questo, la posizione dei Fratelli Musulmani appare allettante al disegno iraniano che, in fondo, non sembra del tutto estranee ai rapporti con la Fratellanza. Precisamente, alcune fonti, forse in maniera un po’ folcloristica, invocano l’epoca fatimide, ramificazione del movimento ismaelita sciita, risalente all’Egitto del X secolo d. C., come elemento fertlizzante delle relazioni tra i due paesi.

Tale scenario, tuttavia, manca di alcuni attori fondamentali: le componenti di Piazza Tahrir. Queste anime, infatti, possiedono programmi ancora poco definiti e che, seppur frammentati, si inseriscono nel solco della tradizione laica. Questi gruppi non intendono servire gli interessi israeliani e statunitensi e si presentano come autentici arbitri del destino del proprio paese. Tuttavia, le ingerenze esterne non sembrano comprendere le masse.e prediligono il riciclo dei vecchi poteri. Non a caso, come già anticipato, la dirigenza militare e quella religiosa hanno sostenuto il referendum costituzionale, la cui approvazione ha comportato solamente l’introduzione di alcuni emendamenti. Inoltre, ha fissato le nuove elezioni per settembre. Così, a soli pochi mesi dalle manifestazioni, sarà difficile che i gruppi democratici, veri catalizzatori delle proteste, abbiano le idee più chiare sul futuro del proprio paese che appare incerto più che mai.

Laura Tocco è dottoranda presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Cagliari.


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L’Autore, assiduo collaboratore di “Eurasia”, ha dedicato gran parte della sua vita a studiare il rapporto tra marxismo e filosofia. Pur senza abbandonare quest’originario interesse, negli ultimi anni ha contestato vecchi schemi politico-ideologici come quello della dicotomia Destra-Sinistra, e si è interessato a nuovi strumenti interpretativi, su tutti la geopolitica. Questo libro è emblematico della sua nuova prospettiva. Preve vi afferma che la filosofia e la geopolitica, apparentemente così lontane tra loro, sono oggi destinate ad incontrarsi, costrette dal novello monismo ideologico del “pensiero unico americanista”. Questo “nichilismo americanista” domina il XXI secolo, avendo distrutto tanto i riferimenti trascendenti dei valori etico-politici, quanto il fondamento razionale di quelli individuali e sociali.

Francois Thual, Il mondo fatto a pezzi, pp. 130, anno di pubblicazione 2008, 15,00

L’Autore è uno dei più importanti geopolitici francesi viventi:attualmente insegna al Collège interarmes de défense e all’École Pratique des Hautes Etudes ed è consigliere del Senato parigino. Ha pubblicato decine d’opere, occupandosi prevalentemente ma non solo della geopolitica delle religioni. In questo libro Thual esamina una delle più evidenti dinamiche geopolitiche degli ultimi decenni: la frammentazione del panorama politico globale e la proliferazione degli Stati. L’Autore passa in rassegna le varie teorie avanzate per spiegare il fenomeno: la “scuola del caso”, la “scuola della necessità”, la “scuola dell’egoismo” e la “scuola dell’interesse”. La proliferazione statuale è stata una “proliferazione d’impotenze” che ha rafforzato il peso della quindicina d’attori principali.

Enrico Galoppini, Islamofobia. Attori, tattiche, finalità, pp. 208, anno di pubblicazione 2008, € 18,00

Questo libro raccoglie una serie d’articoli pubblicati dall’Autore (redattore di “Eurasia”, per anni ha insegnato storia dei paesi islamici nelle università italiane) tra il 1999 e il 2007, allo scopo d’inquadrare storicamente e culturalmente il fenomeno dell’islamofobia. Esso è spiegato non come un classico “pregiudizio”, bensì come necessario corollario d’una campagna propagandistica occidentale, volta a “problematizzare” l’Islam per giustificare una serie d’iniziative belliche aggressive. Il libro contiene una prefazione di Aboulkheir Breigheche ed una postfazione di Costanzo Preve. Una parte della somma ricavata dalla vendita viene devoluta in beneficienza a favore del popolo palestinese.

Vincenzo Mungo, La sfida dell’India. Nascita di una superpotenza?, pp. 208, anno di pubblicazione 2010, € 20,00
L’Autore, caposervizio Esteri del Giornale Radio RAI, affronta in questo libro l’interrogativo se il subcontinente indiano, tornando ad essere un’area determinante per il futuro, possa fondare il proprio processo di sviluppo su un progetto di tipo occidentale o se invece sia in grado di conservare la propria cultura specifica, implicitamente critica rispetto al sistema di valori su cui si basa il mondo contemporaneo. Per rispondere occorre valutare se l’attuale modello di sviluppo stia facendo crescere l’India senza divellerne le radici culturali. L’Autore cerca perciò di capire se l’India stia realmente diventando una grande potenza o se stia solo vivendo un processo di sviluppo economico funzionale agl’interessi dei grandi gruppi economici mondiali.

USA e Cina: grande gioco in Africa e Asia Centrale

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Fonte: “Come Don Chisciotte

 

Presentiamo qui un estratto dal libro “La Sfida Totale – Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali” (Fuoco Edizioni) di Daniele Scalea, gentilmente concesso dall’autore in esclusiva a Comedonchisciotte. “La Sfida Totale” è un interessante trattato di geopolitica che, a partire da una esposizione delle teorie geopolitiche classiche (Mackinder, Haushofer, Spykman), propone una lettura coerente e dettagliata degli avvenimenti mondiali degli ultimi anni. Un argomento chiave del ‘grande gioco’ geopolitico nei suoi risvolti di politica energetica, economica ed espansionismo militare è la rivalità tra ‘vecchie’ e ‘nuove’ potenze mondiali, in particolare tra Cina e USA, argomento del capitolo di cui offriamo il presente estratto. N.d.r.

 


[...]Anche la Cina nella seconda meta del Novecento ha sperimentato clamorosi e drammatici fallimenti, confermando l’eccezionalità del riuscito tentativo di Stalin di fare, nel giro d’un decennio ed attraverso la pianificazione economica, d’un paese arretrato una grande potenza industriale. Forse i piani quinquennali avrebbero anche avuto buon fine se, dopo il successo del primo, Mao non avesse rinnegato l’aiuto sovietico e cercato una strada di sviluppo autonoma, quella del “Grande Balzo in Avanti” (in realtà una colossale caduta all’indietro).

Tuttavia nel trentennio maoista la Cina, a differenza dell’India, è riuscita a gettare le basi per il successivo boom, costruendo le prime infrastrutture essenziali, alfabetizzando la popolazione (l’analfabetismo, tra il 1949 e il 1976, e sceso dall’80% al 7%) e garantendole una sufficiente tutela sociale. Quando Deng Xiaoping ha avviato le sue riforme – soprattutto dai primi anni ‘90, visto che negli anni ‘80 furono condotte in maniera territorialmente limitata ed a titolo sperimentale – la Cina ha iniziato immediatamente a crescere a ritmi forsennati.

Nel corso degli anni ‘90 la crescita del PIL cinese e stata in media del 9,7% all’anno, contro il 5,9% dell’India nello stesso periodo. Tra il 2000 e il 2004 la crescita annuale della Cina è stata del 9,4%, mentre quella dell’India del 6,2%. Oggi il prodotto interno lordo cinese cresce d’oltre l’8% l’anno, mentre quello indiano è ritornato sotto il 7% dopo aver toccato quota 9% nel 2007. Sebbene nel 1978 il PIL indiano fosse superiore a quello cinese (155 miliardi di dollari contro 141), nel 2008 la situazione appariva decisamente ribaltata: 4.327 miliardi di dollari il PIL cinese, 1.207 quello indiano. Secondo i dati pubblicati dall’Ufficio statistico cinese nel gennaio 2010, il PIL della Repubblica Popolare nel 2009 sarebbe ammontato a 4.900 miliardi, il che significherebbe per la Cina uno storico sorpasso sul Giappone (4..600 miliardi), scalzata dal gradino di seconda maggiore potenza economica al mondo in termini di prodotto interno lordo (la prima sono gli Stati Uniti d’America).

Va notato che, mentre l’India sta terziarizzando la propria economia, la crescita relativa dei servizi in Cina è stata piu contenuta (dal 21,4% del PIL nel 1980 al 39,5% del 2006), mentre l’industria rimane decisamente il primo settore (48,7% del PIL; era il 48,5% nel 1980). La crescita si è manifestata soprattutto nelle prestazioni delle imprese private, che hanno attirato il grosso dell’ingente flusso d’investimenti esteri diretti in Cina, ma nel contempo ha riguardato anche le imprese di Stato. A differenza di quanto successo in Russia, maggiori risorse demografiche ed una gestione piu accorta ed onesta dell’economia hanno permesso al governo cinese di sviluppare il settore privato senza riallocare troppe risorse da quello pubblico.

Neppure i risultati dell’India vanno certo disprezzati. Pur a fronte di gravi squilibri strutturali (alti livelli di analfabetismo, poverta e mortalita infantile, sperequazioni sociali e regionali ecc.), l’economia di Nuova Delhi è (dati del 2008 alla mano) la quarta al mondo in termini di PIL a parita di potere d’acquisto (ossia il PIL calcolato prendendo come riferimento i prezzi delle merci negli USA), dietro solo a USA, Cina e Giappone ma davanti ai piu ricchi paesi europei. Anche in termini di PIL nominale l’India consegue un apprezzabile dodicesimo posto. Ma è la Cina che, secondo tutti gli analisti, puo oggi rivendicare il ruolo di alternativa agli USA quale principale potenza mondiale. Pechino, allo stato attuale, non sembra troppo desiderosa d’assumersi gli oneri legati ad una eventuale leadership mondiale e, forse, neppure regionale. Anche il “basso profilo” nella politica internazionale l’accomuna all’India, ma certo stona maggiormente con la potenzialita cinese che con quella indiana.

La Cina non è solo la seconda maggiore potenza economica e la prima al mondo per popolazione. Essa possiede le più grandi riserve auree e di valuta estera: 1.955 miliardi di dollari, ossia circa il doppio delle riserve giapponesi (le seconde al mondo), quattro volte e mezzo quelle russe (le terze) e venticinque volte quelle statunitensi. La sua marina mercantile è nettamente la piu numerosa tra quelle delle grandi potenze (e questo anche considerando le navi statunitensi battenti bandiera straniera). Dal punto di vista militare, le forze armate cinesi sono le piu numerose (2.225.000 soldati in servizio attivo e 1.200.000 riserve; gli USA ne hanno 1.403.900 in servizio attivo e 1.458.500 in riserva) e sottoposte ad un continuo processo di ammodernamento per colmare il prima possibile il gap con quelle statunitensi; l’arsenale strategico è nettamente inferiore a quello di USA e Russia, ma sufficiente a garantire una deterrenza minima.

Tuttavia ci sono anche dei lati oscuri dell’ascesa cinese, spesso ignorati, ma che incidono grandemente sulla reticenza di Pechino a sfidare apertamente la supremazia degli USA.

La rapida esplosione economica della Cina è avvenuta integrandosi nell’economia globalizzata plasmata dagli USA. La crescita cinese è andata di pari passo con l’afflusso degl’investimenti esteri: nel 2007 le multinazionali (principalmente giapponesi e statunitensi) controllavano il 60% del commercio cinese, e l’80% del valore delle loro esportazioni e importato.

Gli studiosi indiani Mohan Guruswamy e Zorawar Daulet Singh hanno evidenziato come la Cina rappresenti oggi l’interfaccia economica dell’Occidente in Asia Sudorientale, e si configuri come un hub, un fulcro regionale, un gigantesco “centro di assemblaggio” della componentistica prodotta nei paesi vicini e che viene poi smerciata nel resto del mondo. Tali dati invitano a non sopravvalutare l’effettiva potenza economica cinese, ma non devono neppure indurre a sottovalutarla. Nel 2002 la Cina contava per l’8% del valore aggiunto mondiale, ossia era la terza maggiore economia manifatturiera dopo Giappone e USA, e davanti alla Germania; il dato è ancora piu significativo se tenuto conto del PIL cinese di allora, decisamente inferiore a quello delle altre potenze industriali citate. Inoltre, la divisione del lavoro “verticale” all’interno dell’Asia Sudorientale rappresenta una dinamica positiva per la pacifica coesistenza nella regione: se la Cina fosse un gigante produttivo autonomo finirebbe con lo schiacciare i vicini; invece collabora con essi in maniera strettamente integrata. Pechino, lasciando ai paesi vicini i settori piu bassi della produzione, può concentrarsi sullo sviluppo dell’alta tecnologia entro i suoi confini.

Ciò che qui ci preme sottolineare è, semmai, l’interdipendenza economica Cina-USA. Pechino indirizza verso gli Stati Uniti quasi il 18% delle esportazioni, ma questi soddisfano solo il 7,2% delle sue importazioni; il 16,5% delle importazioni totali degli USA provengono dalla Cina. In poche parole, la Cina è il primo esportatore negli USA, ma questi non hanno un peso analogo nelle importazioni cinesi. Se nel 1985 la bilancia commerciale tra i due paesi era sostanzialmente in parita, dall’anno successivo ha cominciato a pendere sempre più a favore della Cina, tanto che nel 2008 il sovrappiù cinese negli scambi con gli USA è ammontato a ben 268 miliardi di dollari. Anche se nel 2009, complice la crisi economica ed il minore potere d’acquisto dei cittadini nordamericani, il divario e sceso sotto il livello del 2006, si tratta comunque di circa 230 miliardi.

Pechino ha reinvestito parte di questo sovrappiù di dollari nei titoli di debito pubblico degli USA, tanto che nel settembre 2009 ne possedeva il 23,35% (790 miliardi di dollari) del debito estero (il debito estero e il 28% del debito pubblico totale). Nei mesi successivi è stata scalzata dal Giappone, ma fino ad allora la Cina era il maggior creditore degli Stati Uniti d’America, paese notoriamente gravato da un ingente debito pubblico (Bush, durante la sua presidenza, e quasi riuscito nell’impresa di raddoppiarlo): si parla di oltre diecimila miliardi di dollari, che nell’anno fiscale 2009 sono costati 383 miliardi di soli interessi.

Pechino, in qualita di fondamentale creditore, avrebbe dunque la capacità teorica di affondare le finanze statunitensi, ma ciò si ripercuoterebbe gravemente sulla Cina stessa, in primis con la semplice perdita di valore di quei 790 miliardi in titoli di debito che detiene. Larry Summers, consigliere economico di Obama, ha parlato di ≪equilibrio finanziario del terrore≫. In ballo non ci sono piu le armi nucleari, ma solo buoni del Tesoro, eppure il principio è lo stesso della MAD (“mutua distruzione assicurata”) tra USA e URSS: sia Washington sia Pechino hanno la possibilita di sferrare un colpo mortale all’altro, ma ciò si rivelerebbe letale per loro stessi (se gli Stati Uniti facessero default sul debito impoverirebbero le casse cinesi, ma perderebbero il ruolo egemonico del dollaro cui è attualmente ancorato il loro potere geoeconomico).

La Cina potrà – e tutto lascia supporre che lo farà – reindirizzare gradualmente la propria economia, diminuendo l’acquisto di titoli di debito del Tesoro statunitense per investire nel proprio paese e sviluppare il mercato interno, così da sostituire le per altro declinanti esportazioni negli USA. Ma si tratta di un processo non di breve periodo. Si può supporre non sia questa – l’interdipendenza economica con gli USA – la sola ragione che induce la Cina a miti consigli. Anche l’India, infatti, segue una politica di basso profilo. E’ lecito pensare che le suddette difficolta nell’unificazione (e nel mantenimento dell’unità) dei due paesi concorrano ad indirizzare l’attenzione dei dirigenti sulla situazione interna, senza arrischiarsi troppo nella politica estera.

Storicamente, Cina e India sono state poco propense alle guerre d’aggressione ed espansione verso l’esterno. Probabile abbia influito anche il fattore culturale, ed in particolare l’etnocentrismo cinese. Fatto sta che al momento la preoccupazione principale sia di Pechino, sia di Nuova Delhi è quella di garantirsi ulteriori anni di tranquilla crescita economica. Sanno che il tempo gioca a loro favore, e perciò pazientano anche ingoiando di tanto in tanto qualche rospo (come le ingerenze e i moralismi atlantici). Il conto, semmai, lo presenteranno tra qualche anno.

La Cina, al fine di stabilizzare la sua crescita, percorre abitualmente due strade: da un lato evitare una contrapposizione strategica con gli USA, dall’altro assicurarsi forniture energetiche certe e costanti. Benché l’Impero di Mezzo sia il quinto maggiore produttore di petrolio al mondo (e l’undicesimo di gas naturale), al ritmo di produzione odierno le sue riserve provate non dovrebbero durare molto piu di un decennio; e comunque gia allo stato attuale sono nettamente insufficienti a soddisfare il suo fabbisogno in continua ascesa.

La Cina produce ogni giorno quasi 4 milioni di barili, ma ne consuma 7,85: è il secondo maggiore consumatore mondiale. Nel 2009, malgrado la crisi, le importazioni di petrolio sono cresciute d’oltre il 10% e quelle di gas naturale, tradizionalmente basse, di più del 50% rispetto all’anno precedente.

La Russia e l’Asia Centrale rappresentano una fonte d’energia prossima e sicura per la Cina. Come abbiamo visto, Pechino sta collaborando con Mosca per respingere l’assalto geopolitico di Washington all’Asia Centrale, ricavandone in cambio la possibilita di varare ampi progetti di cooperazione con questi paesi.

L’Asia Centrale è strategicamente importante anche perche rappresenta il canale di transito degl’idrocarburi iraniani: infatti, ignorando bellamente gli appelli al boicottaggio lanciati dagli USA e dall’Europa (ma che neppure quest’ultima segue con grande zelo), Pechino negli ultimi anni ha stretto importanti accordi commerciali con Tehrān.

L’Iran è oggi il terzo maggiore fornitore di petrolio alla Cina, con tendenza all’aumento; è comunque interessante notare che il principale importatore di petrolio iraniano e il Giappone, seguito appunto dalla Cina, dall’India, dalla Corea del Sud e, al quinto posto, dall’Italia. Ovviamente, una grande importanza ha anche il Vicino Oriente: l’Arabia Saudita è il primo fornitore di petrolio della Cina, cliente di tutti gli Stati del Golfo compreso l’Iraq. Non si tratta, però, di una regione sicura per Pechino: gli Stati Uniti, che già godono di una larga influenza diplomatica, negli ultimi vent’anni (e negli ultimi dieci in particolare) hanno cominciato ad estendervi anche la propria presenza militare. Pure per questo, oltre che per la sua grande sete di energia, la Cina ha rivolto le proprie attenzioni all’Africa. L’Angola è il secondo maggiore fornitore di petrolio, il Sudan è il sesto e la Libia il nono; quantità minori provengono da Guinea Equatoriale, Nigeria, Algeria, Camerun, Mauritania, Gabon e, di recente, pure dal Ciad (considerato fino a ieri un alleato di ferro di Washington).

Da un punto di vista commerciale le compagnie energetiche dello Stato cinese si sono rivelate piu competitive delle “sorelle” anglosassoni. Il perche è presto detto: queste ultime godono sì dell’appoggio di Washington (o Londra), dovendo anche soddisfare le esigenze strategiche della Casa Bianca, ma non possono prescindere dal profitto immediato, essendo compagnie private. Sinopec, CNPC e CNOOC (la stessa che tentò d’acquisire la Unocal, ma fu bloccata dal veto del Congresso statunitense) fanno i propri conti valutando l’interesse nazionale della Cina, e ciò consente di offrire condizioni migliori ai paesi produttori: in genere, lo sfruttamento d’un giacimento non è retribuito solo con denaro sonante, ma anche con la costruzione d’infrastrutture civili (strade, ponti, ospedali ecc.), favorendo così un reale sviluppo della nazione interessata.

Ad esempio, in Sudan, nel giro di un decennio, i Cinesi hanno costruito gran parte dell’infrastruttura petrolifera del paese (compreso un oleodotto di 1.650 km dai campi di estrazione del Sud Kordofan fino a Port Sudan nel Mar Rosso), ampliato la rete stradale e ferroviaria e le infrastrutture portuali, finanziato l’industria tessile e la pesca, edificato la grande diga di Merowe sul Nilo. Anche in Angola gl’investimenti cinesi sono andati ben oltre il campo energetico, comprendendo tra l’altro la costruzione di ospedali. Inoltre, la Cina non pone le precondizioni politiche tipiche degli USA: il riferimento non è alla “democratizzazione” (Washington sostiene dittature e regimi tirannici tanto quanto la Cina), bensì all’orientamento dell’economia e della politica estera del governo con cui si entra in affari.

Gli USA pretendono quasi sempre d’imporre la politica neoliberista tanto cara al Fondo Monetario Internazionale ed alla Banca Mondiale (istituti a guida atlantica), cui fanno da corredo la privatizzazione delle risorse del paese – non di rado a beneficio delle compagnie occidentali – e l’apertura indiscriminata del mercato interno ai piu competitivi prodotti occidentali, con l’effetto di strangolare i produttori locali. Spesso richiedono anche un aperto sostegno alla loro politica internazionale. Al contrario, Pechino è pronta a fare affari con tutti, fiduciosa che un rapporto commerciale possa evolversi in amicizia politica e, se anche ciò non dovesse verificarsi, che per lo meno ci sarà stato il profitto economico: un po’ l’approccio che sta attualmente seguendo col finora ostile Ciad, ed i risultati paiono darle ragione.

Si tratta di due visioni strategiche opposte che rispecchiano la profonda differenza tra Cina e USA: in una i capitalisti sono soggetti allo Stato, mentre negli altri è lo Stato a servire i capitalisti; la prima dispone d’abbondanti risorse finanziarie il cui utilizzo è accuratamente razionalizzato, ma non è (ancora) in grado di compiere proiezioni militari all’esterno, mentre gli altri puntano principalmente proprio sulla superiorità bellica.

Nel 2006 il terzo congresso del Forum sulla Cooperazione Sino-Africana vide accorrere a Pechino i capi di Stato e di governo di 35 paesi africani, ricompensati dal presidente Hu Jintao con la concessione di prestiti agevolati per 5 miliardi di dollari. Il quarto congresso, tenutosi a Sharm ash-Shayk (Egitto) l’8 e il 9 novembre 2009, vedeva rappresentati ben 49 dei 53 paesi africani (restano fuori Gambia, Swaziland, Burkina Faso e Sao Tome e Principe – non esattamente dei giganti); il nuovo prestito agevolato concesso da Pechino è stato di 10 miliardi di dollari.

Washington ha prontamente risposto, ma non con generosi finanziamenti, contratti più equi, congressi internazionali o cooperazione a tutto campo; ha invece reagito istituendo nel 2007 un nuovo comando militare dedicato esclusivamente all’Africa, denominato per l’appunto AFRICOM e basato a Stoccarda. Le dichiarazioni ufficiali, secondo cui l’AFRICOM servirà a garantire aiuti umanitari ed economici al continente nero ed a prevenire conflitti, non vanno prese troppo sul serio: per scopi del genere si creano organizzazioni caritatevoli o progetti di cooperazione internazionale, non un nuovo comando militare.

L’AFRICOM ha il compito di ottimizzare e, forse, intensificare l’uso della forza in Africa, l’unico strumento con cui oggi gli USA riescano ad arginare la crescente influenza cinese. Il Sudan, tra i maggiori fornitori di petrolio alla Cina, è entrato nel mirino delle campagne di stampa e propaganda occidentale per una guerra civile – quella del Darfur – che gli Statunitensi contribuiscono ad alimentare tramite il Ciad (maggiore sostenitore dei ribelli), ma che è presentata come un unilaterale “genocidio” da parte del governo di Khartoum.

Il 4 marzo 2009, la Corte Penale Internazionale (CPI) – che, ricordiamolo, è riconosciuta solo da 110 dei 192 paesi membri dell’ONU, e tra questi non vi è il Sudan, ma neppure le maggiori potenze come gli USA, la Cina e la Russia – ha emanato un ordine di arresto contro il presidente sudanese Omar al-Bashir, accusato di “crimini contro l’umanità” e crimini di guerra. Fino a dieci anni fa entrare nella “lista nera” dell’Occidente significava, nel migliore dei casi, l’isolamento internazionale, nel peggiore la perdita del potere e magari anche la morte: Slobodan Milošević e Saddam Hussein docent. Oggi i rapporti di forza stanno mutando e la sorte di al-Bashir lo dimostra: non solo egli, ad un anno di distanza, è ancora saldamente al potere, ma il mandato d’arresto della CPI è stato rifiutato ed ufficialmente condannato dalla Cina, dalla Russia, dagli altri 51 Stati membri dell’Unione Africana, dai 22 paesi della Lega Araba, dai 57 dell’Organizzazione della Conferenza Islamica e dai 118 del Movimento dei Non-Allineati. Praticamente tutto il mondo, eccetto l‘Europa ed i paesi anglosassoni, si sono schierati dalla parte di Omar al-Bashir.

All’inizio di quest’anno al-Bashir si è riappacificato col suo omologo del Ciad Idriss Deby e, non a caso, poco dopo è stata conclusa una tregua tra Khartoum ed i ribelli del Darfur. Il piano di destabilizzazione del Sudan potrebbe essere fallito.

Joseph Kabila, primo presidente democraticamente eletto in Congo (paese ricchissimo di minerali, tra cui il coltan essenziale per i prodotti d’alta tecnologia), stava invece negoziando con la Cina un mega-accordo commerciale dal valore di 9 miliardi di dollari quando, nel settembre 2008, la provincia congolese del Kivu – uno dei maggiori centri minerari mondiali – si è trovata sotto attacco da parte dei ribelli tutsi di Laurent Nkunda, sostenuto dal presidente ruandese, anch’egli tutsi, Paul Kagame.

Il filo-atlantico Kagame si è formato presso lo US Army Command – General Staff College di Fort Leavenworth, in Kansas. Nkunda e stato al suo servizio durante la guerra civile ruandese e dal 2004 è in lotta con Kinshasa; nel gennaio 2008 si era trovato un accordo per il cessateil- fuoco, bruscamente violato in autunno. Non sorprende che a fianco del Congo si siano schierati l’Angola – primo fornitore africano di petrolio alla Cina – e lo Zimbabwe, il cui presidente Robert Mugabe è fortemente inviso all’Occidente.

Nel 2009 Kagame ha cominciato a mostrare dei ripensamenti, accusando l’Occidente di depredare l’Africa ed elogiando i Cinesi. Ha stretto un accordo con Kabila e Nkunda è stato arrestato in territorio ruandese. Il futuro ci dirà se gli africani sceglieranno – o saranno costretti a scegliere – gl’investimenti cinesi o le armi statunitensi (gli USA vendono nel continente armamenti per il valore di circa 25 miliardi di dollari; Pechino per meno di un miliardo e mezzo).

Resta il fatto che il petrolio acquistato in Africa (e nel Vicino Oriente) deve raggiungere senza intoppi lo Zhōngguó (nome mandarino della Cina). Se dall’Iran e dall’Asia Centrale puo arrivare tramite le condotte di terra, dal Golfo e dall’Africa viene imbarcato sulle petroliere e raggiunge via mare il paese orientale. Ciò pone una grande sfida strategica a Pechino: riuscire a rendere il piu possibile sicure queste rotte marittime, ed in particolare evitare che possano essere alla merce di qualche altra potenza (leggasi ovviamente gli USA).

I Cinesi hanno percio messo in campo la strategia del “filo di perle”: una sequenza lineare di infrastrutture navali e militari che dal Mar Cinese Meridionale arriva in Africa, passando per Cambogia, Thailandia, Myanmar, Bangladesh e Pakistan. La presenza militare sull’Isola di Hainan, nel cuore del Mar Cinese Meridionale, è stata rafforzata. Più a sud, al largo della costa vietnamita, si trova la piccola isola di Yongxing Dao: è priva di popolazione, ma vi sono stati costruiti un porto ed una pista d’atterraggio d’oltre due chilometri. Il collegamento tra il Mar Cinese Meridionale e l’Oceano Indiano è garantito dall’angusto Stretto di Malacca: un passaggio più a sud allungherebbe non di poco il tragitto, e costringerebbe comunque ad affidarsi ad altre strettoie tra le isole indonesiane, ossia gli stretti di Lombok, Makassar e Sibutu, già utilizzati dalle navi più pesanti che non possono transitare per Malacca (le acque dello stretto sono profonde 25 metri, insufficienti per le petroliere piu grandi).

La maggior parte delle navi commerciali – decine di migliaia l’anno – attraversa, comunque, gli 850 km dello Stretto di Malacca, il cui punto più angusto tra la costa di Sumatra e quella della Malesia misura appena 2,5 km. Un quarto del commercio mondiale passa per questa strettoia, rendendola uno dei punti di maggiore importanza strategica del globo. Ma anche uno dei più critici. Non a caso fin dal 1990 gli Stati Uniti hanno stretto degli accordi militari con la Repubblica di Singapore per l’impiego del suo porto e dei suoi aeroporti utilizzati dalle forze nordamericane per il controllo strategico dello Stretto. Per tali ragioni la Cina sta cercando delle alternative. Pechino ha offerto alla Thailandia di finanziare il taglio dell’Istmo di Kra, il lembo di terra che collega l’Indocina alla penisola malesiana: nel punto più stretto misura appena 44 km. In alternativa al canale, si è pensato alla costruzione di un oleodotto, che permetterebbe almeno al petrolio di evitare la strettoia di Malacca. Anche il Myanmar si e candidato ad ospitare un oleodotto, che avrebbe il vantaggio di condurre direttamente in Cina. Pechino ha ottimi rapporti con la giunta militare al potere nell’ex Birmania, dove ha costruito un’altra “perla”, il porto della citta di Sittwe che, assieme a quello di Chittagong in Bangladesh – anche questo oggetto d’investimenti cinesi – rappresenta un’ottima finestra da cui proiettarsi nel Golfo del Bengala.

Il passaggio al Mare Arabico è dominato dall’isola di Ceylon: Pechino si è affrettata a stringere rapporti amichevoli pure con lo Sri Lanka ed anche qui sta costruendo un porto, a Hambantota, dove secondo alcune voci – subito smentite – potrebbe installarsi una base militare cinese. Un grande e moderno porto è stato costruito con denaro cinese anche in Pakistan a Gwadar, non lontano dallo Stretto di Hormuz, canale d’accesso al Golfo Persico. L’estremità occidentale del filo di perle si trova ovviamente in Africa: Port Sudan e, in Kenya, Lamu.

Gli Stati Uniti d’America si trovano di fronte ad un bivio: cercare di cooptare la Cina nel proprio sistema egemonico – magari anche con l’istituzione di un “G2” ufficioso, di cui si fa un gran parlare da qualche mese a questa parte – col rischio, pero, che “l’alleato” cinese li scalzi pacificamente dalla posizione di supremazia mondiale; oppure affrontare preventivamente la minaccia strategica e cercare di “contenere” la potenza di Pechino.

Durante la Guerra Fredda per Nixon fu facile scegliere: allora la minaccia alla supremazia statunitense era rappresentata dall’URSS, e sottrarre la Cina a Mosca costituiva una mossa geopolitica di grande valore, forse determinante. Oggi, però, è la Cina stessa ad essere spesso individuata quale principale competitore di Washington. Alcuni, come Brzezinski, rimangono concentrati sulle minacce provenienti dal Heartland e sognano di fare della Cina una “Europa d’Oriente”: una docile testa di ponte sul continente. Altri hanno proposto una versione ibrida, il cosiddetto congagement: mantenere buoni rapporti con la Cina coinvolgendola nel sistema internazionale a guida statunitense (engagement), ma nel contempo frenarne l’ascesa (containment). Anche se il congagement puo sintetizzare la strategia scelta da Washington nell’ultimo decennio, man mano che cresce la potenza della Cina gli USA virano sempre più decisamente verso una pura e semplice riedizione del containment.

Il contenimento della Cina dovrebbe avvenire attraverso due “cani da guardia” posti al suo fianco: l’India e il Giappone. Presi singolarmente, entrambi sono più deboli del colosso cinese: Nuova Delhi è una potenza emergente, ma che ancora guarda da lontano e con invidia alla travolgente ascesa di Pechino; Tokio è invece una realtà affermata da tempo, ma che da decenni patisce una cronica stagnazione. La Cina è nel pieno del suo vigore, l’India è ancora un giovane virgulto, mentre il Giappone è un maturo signore che comincia a sentire il peso degli anni. Il piano degli USA è quello d’unire India e Giappone perché, messi assieme, possano controbilanciare la Cina nell’Asia Orientale e Meridionale.

Il grosso problema di Washington, però, è che la sua capacita di persuasione, quando non puo ricorrere alla forza, si è oramai notevolmente affievolita. Davvero Nuova Delhi e Tokio sono disposti a ricoprire il ruolo che Washington vorrebbe affibbiare loro, oppure preferiranno unirsi a Pechino per creare una “sfera di co-prosperita” asiatica?

Nuova Delhi segue una politica ambivalente: si è riappacificata con la Cina, ma continua a flirtare con l’America. Proprio questa sua ambiguità di fondo fa dubitare che sarà mai disposta alla chiara e rischiosa scelta di campo che la Casa Bianca si aspetta da lei. Ma il vero choc per gli statunitensi è l’allontanamento del vecchio alleato nipponico, su cui fino a pochi anni fa credevano di poter contare incondizionatamente.

Nell’agosto 2009, dopo cinquantaquattro anni di potere quasi incontrastato, il Partito Liberal-Democratico nipponico è stato scalzato dal governo. Dopo pochi anni dall’addio di Junichiro Koizumi, forse il primo ministro piu filo-americano della storia giapponese, il potere è passato nelle mani di Yukio Hatoyama, deciso a rendere il paese piu indipendente dagli USA ed a riappacificarsi definitivamente con Pechino nell’ottica di un’associazione regionale dei paesi dell’Asia Orientale. Si ricordi come Brzezinski indicasse, tra le eventualità che avrebbero minato l’egemonia statunitense sull’Eurasia e dunque sul mondo, anche quella di un’alleanza tra Cina e Giappone. E’ ancora troppo presto per usare un termine impegnativo come “alleanza”, essendo appena cominciato un processo di distensione e riavvicinamento dopo le tensioni degli ultimi anni, culmine di un’inimicizia storica che si trascina ormai da lunghissimo tempo. Tuttavia, con Hatoyama si apre quest’opportunita che, con Koizumi ed Abe, non poteva neppure ipotizzarsi.

L’avvicinamento politico tra i due paesi non farebbe altro che seguire il cammino già tracciato dall’economia. Il Giappone esporta in Cina quasi quanto negli USA (16% contro 17,8%), e la tendenza suggerisce un prossimo sorpasso; inoltre i nipponici traggono dal dirimpettaio continentale un quinto delle proprie importazioni, ben più che dall’altra parte del Pacifico (un decimo è la quota degli USA).

Se l’Inghilterra ha potuto integrarsi nell’Unione Europea, il Giappone potrà fare lo stesso con la Cina. La differenza assai significativa è che Londra nell’UE può fungere da “cavallo di Troia” della talassocrazia (l’espressione è del generale Charles De Gaulle); Tokio in un eventuale asse con Pechino farebbe i propri interessi, integrandosi in maniera costruttiva e non distruttiva nel Rimland continentale. Durante la Seconda Guerra Mondiale la Cina rappresentò per il Giappone ciò che l’URSS fu per la Germania: un sogno imperiale tramutatosi in incubo geopolitico, decisivo per la definitiva vittoria della talassocrazia. I due assi Berlino-Mosca e Tokio-Pechino, se si dovessero realmente realizzare, cambierebbero le carte in tavola, ma solo se non si troveranno ad opporsi ed ostacolarsi tra loro.

Riuscirà decisivo il ruolo della Russia, che dovrà essere in grado di porsi come “ponte” eurasiatico, stimolando la solidarieta continentale anziche le rivalità intestine.

Il destino e la geografia hanno deciso che solo Mosca possa svolgere questo compito fondamentale.

 

* Daniele Scalea, redattore di “Eurasia” e segretario scientifico dell’IsAG, è autore de La sfida totale (2010) e co-autore con Pietro Longo di Capire le rivolte arabe (2011).

Riccardo Bertani (a cura di), Canti epici siberiani

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Canti epici siberiani

Riccardo Bertani (a cura di)

Pagine: 116

Collana: Turul

Prezzo: 13.00 euri

Verso l’estremo mattino è una raccolta di canti epici siberiani appartenenti all’ampio patrimonio folkloristico-culturale dei popoli che abitano la zona che si estende dal bacino dello Jenissei alle coste orientali del Mar Glaciale Artico. (…) L’aspetto fondamentale che accomuna questi testi è costituito dal fenomeno religioso dello sciamanismo che è tipico di popolazioni le cui attività sono caccia e pesca.

(Chiara Sabatini)

Nell’introduzione di Carlotta Capacchi, studiosa dello sciamanesimo eurasiatico, si osserva come “sotto il carattere epico della narrazione è ancora visibile la traccia del pensiero magico-religioso che per secoli ha accomunato i paesi dell’Eurasia settentrionale” (…) Un attento esame dei testi ha consentito a C. Capacchi di segnalare numerosi temi che si riconnettono alla dottrina e ai rituali dello sciamanesimo più arcaico e che trovano spesso straordinarie rispondenze nella mitologia greca.

Per acquisti:

http://www.insegnadelveltro.it/libreria/?p=265

Anatomia della SCO in grande evoluzione

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Fonte: “Dedefensa.org

 

La recente (15 giugno) riunione della Shanghai Cooperation Organization (SCO) ad Astana (Kazakistan), è stata percepita come estremamente importante. Le principali caratteristiche di questa organizzazione, che sembra raggiungere la soglia della maturità (10° anniversario della SCO) possono essere evidenziate per aiutarci a capirne l’importanza.

Un interessante resoconto di questa Dichiarazione, con un suo apprezzamento a lungo termine, e le speranze che vengono poste su questa organizzazione, si possono trovare nell’articolo di Eric Walberg su al-Ahram Weekly, riprodotto su The Intrepid Report del 27 Giugno 2011:

Con la fiorita retorica cinese, la Dichiarazione di Astana ha sottolineato l’obiettivo di combattere le “tre forze” del “terrorismo, estremismo e separatismo.” Il vertice ha chiesto un Afghanistan “neutrale” (leggasi: niente basi permanenti degli USA) sostenuto dallo stesso presidente afghano Hamid Karzai, proprio mentre gli Stati Uniti stanno attivamente discutendo con lui un accordo di partnership strategica post-2014. La prospettiva di basi militari USA permanenti in Afghanistan si trova al centro delle attuali tensioni USA-Pakistan. L’India ha manifestato la sua avversione alle tensioni da “nuova guerra fredda” che compaiono nella zona.

Russia e Cina temono che il piano USA sia stabilire basi permanenti in Afghanistan e di schierare i componenti del suo sistema di difesa missilistica. Il vertice della SCO ha sostenuto le critiche russe al programmato scudo di difesa missilistica della NATO in Europa. I piani di “un paese o di un piccolo gruppo di paesi che unilateralmente e senza restrizioni dispiega un sistema antimissile, potrebbero minare la stabilità strategica e la sicurezza internazionale”.

Il vertice ha anche chiesto ai vicini dell’Afghanistan di giocare un ruolo di primo piano nel miglioramento della sicurezza e di aiutare a ricostruire l’Afghanistan, rifiutando una soluzione puramente militare. “E’ possibile che la SCO si assumerà la responsabilità di molte questioni in Afghanistan, dopo il ritiro delle forze della coalizione nel 2014″, ha dichiarato il presidente kazako Nurusultan Nazarbayev, facendo eco all’appello del presidente russo Dmitrij Medvedev “a una cooperazione più intensa e più profonda tra la SCO e l’Afghanistan.

Sia Pechino che Mosca vi stanno già ricostruendo la loro influenza, la Cina nel settore minerario, ed entrambi i paesi nei progetti delle infrastrutture e nella cooperazione con le forze occidentali per combattere il traffico di droga. “L’Afghanistan è stato il motivo principale per cui è stata creata la SCO, 10 anni fa, anche prima che l’11/9 costringesse gli statunitensi a riconoscere la minaccia”, dice il deputato della Duma Sergej Markov. “La minaccia dell’islamismo radicale esportato nella nostra regione è qualcosa che ci è molto familiare. E una rinascita di questa minaccia è stata una delle principali preoccupazioni.”

Walberg, che è un collaboratore regolare del giornale egiziano al-Ahram e che ha interessanti connessioni con la leadership politica di paesi “emergenti”, offre una visione estremamente aggressiva del futuro ruolo della SCO. La sua idea, di posizionare la SCO in concorrenza con il “gruppo Bilberberg” come gruppo d’influenza nella determinazione della politica mondiale, misura l’importanza che egli dà all’organizzazione.

Il vertice della SCO è avvenuto alcuni giorni dopo la chiusura del vertice del Gruppo Bilderberg a St. Moritz in Svizzera, in cui ha partecipato il viceministro cinese degli affari esteri, Fu Ying; un riconoscimento che senza l’approvazione della Cina, non è più possibile nulla nel mondo della finanza. Come nella SCO, l’ordine del giorno riferito includeva il che fare con la primavera araba, ma anche, con una vena più sinistra, i piani per la censura di Internet, la scelta del prossimo capo del FMI, altri euro-salvataggi e il prezzo del petrolio.

Cina, Russia, Pakistan, India, per non parlare di Iran – riuniti dalla SCO, sono la minaccia più seria nei confronti dei piani dell’impero. Con la possibile eccezione della Cina, Bush non ha preso sul serio nessuno di essi. Obama l’ha fatto. Ma finora, la SCO è stata un osso duro da mordere. Se per l’anno prossimo, India e Pakistan saranno ammessi, e se gli “swap” non denominati in dollari raggiungeranno una massa critica, il Bilderberg potrebbe mettere il confronto con la SCO, e il che fare al riguardo, in cima alla sua prossima agenda.

Inoltre, ci concentriamo sull’analisi molto interessante del vertice e sulla posizione e il ruolo della SCO che fornisce l’esperto politico russo Aleksandr Sharavin a RIA Novosti. L’intervista appare in video, con una eccellente traduzione in francese, il 1° luglio 2011. Diamo qui di seguito una sintesi di ciò che crediamo essere la sostanza di alcune dichiarazioni di Sharavin, che hanno soprattutto come obiettivo, secondo noi, di avere un maggiore apprezzamento di ciò che è la SCO.

- Sharavin è stato, all’inizio, nel 2001, molto scettico sul futuro della SCO, cui aveva dato poche possibilità di sopravvivenza, né una grande efficacia. D’altra parte, non vedeva l’interesse per la Russia di fare parte di questa organizzazione. Oggi riconosce il suo errore e trova, invece, che la SCO abbia compiuto progressi molto significativi e sia diventata una organizzazione reale, con una propria esistenza. Notevoli problemi esistono ancora, ma l’esistenza della SCO sembra assicurata.

- Uno dei motivi principali di questo successo è che la Cina, senza dubbio la potenza più importante della SCO, non ha cercato di imporre la sua egemonia sull’Organizzazione, per ridurla a una cinghia di trasmissione tra gli altri mercati e la sua economia. Come russo, Sharavin era contro la SCO a causa della minaccia che rischiava di minare il potere russo, e il suo ingresso nel campo dei sostenitori della SCO può essere effettivamente spiegato dal comportamento cinese.

- Sharavin ha confermato l’importanza essenziale dell’Afghanistan per la SCO, come l’ha espresso Walberg. Ha anche evidenziato i progressi sostanziali realizzati nella cooperazione operativa tra le forze dell’anti-terrorismo russe e cinesi durante le manovre congiunte di aprile, nel quadro della SCO. Questi progressi riguardano in sostanza la cooperazione: queste forze non erano precedentemente in grado di cooperare nel settore, oggi lo sono. Sembra che il progresso della cooperazione tra Cina e Russia sia essenzialmente dovuto all’egida della SCO, mentre le collaborazioni precedenti (esercitazioni congiunte) non hanno dato questi risultati.

- Il problema dell’adesione è complesso, e ci sembra che ci siano più domande di adesione che sollecitazioni da parte dei membri della SCO. L’adesione del Pakistan e dell’India è altamente possibile in un periodo di tempo relativamente breve. L’adesione dell’Iran resta problematica, per ora, nonostante la sollecitazione dello stesso Iran, soprattutto perché la Russia non vuole compromettere le sue relazioni con gli Stati Uniti, ma ciò è un fattore congiunturale che può mutare. D’altra parte, Sharavin ha detto che la domanda di adesione della Bielorussia, sostenuta dalla Russia pochi anni fa, non ha avuto seguito per ora, perché gli altri membri della SCO hanno obiettato che la Bielorussia non è un paese asiatico. Questi casi hanno evidenziato la necessità di attuare un quadro giuridico rigoroso per definire le condizioni di adesione alla SCO, cosa che è in fase di studio e attuazione.

- Alla domanda se la SCO può diventare una NATO asiatica, Sharavin ha detto di no per un motivo, che non ha nulla a che fare con la potenza o con la coesione dell’organizzazione. La Cina è estremamente attenta a non cedere nulla della propria sovranità, ha detto, e una organizzazione tipo NATO implica, secondo la sua visione, una perdita di sovranità. I cinesi sono molto sensibili su questo punto. Al contrario, Sharavin non dice nulla di negativo contro l’interpretazione politica che la SCO formi, de facto, un blocco politico-militare che sarebbe l’equivalente per l’Asia della NATO.

Da questo insieme di osservazioni, si possono sviluppare alcune osservazioni in merito a punti specifici della SCO, ma anche sui paesi che la costituiscono, come sulla politica generale con cui questa organizzazione potrebbe svolgere un ruolo.

Il primo punto riguarda l’organizzazione stessa. La SCO matura perché le sue necessità politiche e di sicurezza s’impongono da sole. Questa non è una organizzazione geopolitica, nella misura in cui la geopolitica comporta una “volontà di potenza“, un ampliamento dinamico, ma un’organizzazione che dal carattere economico iniziale è diventata in gran parte politica, e che s’iscrive, in modo sempre più evidente, come organizzazione politica di sicurezza e di stabilizzazione. Questo sviluppo è stato reso possibile dall’intelligenza cinese, che contrasta coll’aspetto principale dell’affermazione di potenza del comportamento degli Stati Uniti nella NATO, in particolare dal 1989-1991. La Cina non impone la propria egemonia, al contrario impone la sua concezione strutturale affermando come fondamentale il rispetto della sovranità nazionale. Ne scaturisce una organizzazione molto più aperta, più flessibile e più stabile; al contrario della NATO, dove la potenza dominante impone tutte le sue decisioni all’unanimità, anche se molti membri sono in disaccordo; la SCO, posta davanti a problemi verso cui i suoi membri non sono d’accordo, lascia in sospeso tali problemi per non imporre a nessuno delle costrizioni o uno sganciamento. (Perciò l’adesione di Bielorussia e Iran resta in sospeso.)

Il secondo punto è che la SCO, ben più che un antagonista più o meno diretto della NATO, si definisce innanzitutto in base alle leggi oggettive, politiche e geografiche. Si percepisce in particolare (nel caso della Bielorussia) l’affermazione che si tratta di una organizzazione asiatica, e che intenda restarlo. In questo caso, e dato che la SCO sta lavorando bene, dobbiamo osservare che la Russia, ben consolidata all’interno dell’Organizzazione, dovrebbe tendere a muoversi sempre più verso il suo status di potenza asiatica e di rimanervici, a spese del suo status di potenza europea, poiché continua ad incontrare delle battute d’arresto a causa dell’inconsistenza europea, dell’allineamento europeo agli Stati Uniti, dell’irresponsabilità delle azioni degli Stati Uniti in Europa, dell’instabilità dei rapporti della NATO con essa, ecc. Se la SCO continua a crescere, la Russia lascerà da parte ogni idea di appartenenza alla NATO e andrà sempre più verso l’adesione alla SCO e oltre, all’appartenenza ai gruppi che contrastano l’ordine americanista-occidentalista. Un cambiamento di atteggiamento della Russia nei confronti dell’adesione dell’Iran alla SCO (da un atteggiamento riluttante a uno positivo), potrebbe essere un forte segnale in questo senso, sia per la posizione di una Russia più asiatica e più contraria all’ordine costituito, sia per la posizione della SCO sempre più contraria all’ordine americanista-occidentalista.

Il terzo punto, che sembrerebbe negare il secondo, ne è piuttosto il complemento cronologico. Considerando la maturità della SCO, insieme con il perseguimento e, forse, l’accentuazione della politica disordinata della NATO, è molto probabile che la SCO diventi un’ancora di stabilità in una assai ampia regione, e con dei membri di una assai potente, e di conseguenza, senza volerlo direttamente, forza antagonista alla NATO. Più che un conflitto antagonista di tipo geopolitico tra due egemonie concorrenti, sarà un conflitto del tutto naturale, in questi tempi di crisi generale, tra una forza strutturante (SCO) e una forza destrutturante (NATO).

 

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio

http://www.aurora03.da.ru

http://www.bollettinoaurora.da.ru

http://aurorasito.wordpress.com

Vo Nguyen Giap, Masse armate ed esercito regolare

Un ponte siciliano per… Tripoli

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Per la verità sulla guerra coloniale contro la Jamahirya libica finalizzata al saccheggio dell’Africa.

Per la liberazione immediata dei patrioti libici detenuti in Italia solo per aver detto questa verità.

Incontro Pubblico

Sabato 16 Luglio ore 18,

Via Natoli 82 is. 91, Messina

promosso da:

Istituto “Terra e LiberAzione”

Coordinamento Progetto Eurasia

Centro Studi Naturalisti “Nazione Siciliana”

Intervengono

Rosa Cassata (CSN/Nazione Siciliana)

Avv. Luca Tadolini (difensore dei Patrioti libici detenuti in Italia)

Alessandro Lattanzio (Istituto “Terra e Liberazione”)

Stefano Vernole (Coordinamento Progetto Eurasia)

Mario di Mauro (Fondatore “Terra e Liberazione”)

Il fronte arancio-bruno

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Lo scorso mese la stampa russa ha documentato un certo numero di avvenimenti più o meno gravi che sembrava a prima vista non avessero alcuna relazione tra loro. Esaminando più da vicino questi avvenimenti, salta all’occhio un certo numero di elementi, che lasciano pensare che non si tratti solamente di fatti diversi, ma proprio di si manifestazioni con un’origine in comune.

Da Krasnodar alla Siberia occidentale

Il 9 maggio 2010 un’esplosione di gas ha troncato la vita a 90 minatori nella miniera di Rapadskaia. Tre giorni dopo si è tenuta nella piccola cittadina di Mejdouretchensk una manifestazione pacifica di 1.500 persone, i cui manifestanti richiedevano salari più adeguati e una inchiesta imparziale sui tragici incidenti. A sera, alcuni giovani autonomi hanno bloccato le ferrovie e hanno affrontato violentemente le forze dell’ordine. Queste violenze inaspettate e imprevedibili sono state opera di teppisti e criminali conosciuti nella regione, e tra i 28 manifestanti interpellati, non uno era un minatore. Nei luoghi degli incidenti e sul percorso della manifestazione che è degenerata, sono stati trovati sandwich, birre e striscioni, il che prova il livello minimo di preparazione di questa manifestazione parallela. Oltretutto nello stesso momento sono stati lanciati su numerosi siti stranieri, in particolare britannici, tedeschi o ancora su quello di un movimento anarchico ucraino, appelli alla violenza che sostenevano tra gli altri l’opposizione bielorussa e che richiamavano (ecco perché l’Ucraina) alla violenza contro lo stato russo. È stupefacente che un piccolo movimento anarchico ucraino si prenda cura di manifestazioni nel profondo della Siberia russa. In seguito a questi accadimenti, sui social network e su internet sono apparse associazioni misteriose e false sotto il nome di “unione dei residenti di Kouzbass”, che facevano appello tra le altre cose alla secessione della Siberia, e questi appelli furono subito ripresi dai siti indipendentisti caucasici e dal giornale d’opposizione Novaya Gazeta.

Ancora più stupefacente, nel 2009 c’è stato in Russia il caso Dimovsky. Questo ufficiale di polizia è stato presentato come un eroe dal main-stream mediatico occidentale per aver denunciato nell’autunno 2009 la corruzione regnante in seno allo stato e alle forze di polizia russe. Il poliziotto poteva permettersi guardie del corpo e automobili private, conferenze stampa e biglietti aerei. È stato sospettato, da Sergueï Kucheruk (capo della polizia della regione di Krasnodar), di essere un agente dei servizi occidentali e in particolare, tramite il comitato dei diritti umani di Novorossisk, una sotto-filiale dell’USAID, una delle teste di ponte del dispositivo arancione in Eurasia. Costui ha semplicemente affermato che “l’unione dei residenti di Kouzbass” era reale e che egli era pronto a lavorare per quest’ultima. Tuttavia questa organizzazione è virtuale. Come si sono stabiliti i legami tra di loro? Per il deputato Serguey Shatirov, queste manifestazioni sul terreno o su internet sono legate, organizzate dall’interno e hanno visibilmente un fondamento “arancione”.

Rivolta in estremo oriente?

Durante l’estate 2010, un gruppo chamato “fratelli della foresta” si è dato alla macchia nell’estremo oriente russo, dopo aver dichiarato guerra allo stato. Il gruppo, composto di skinhead, oltre che da “nazbols” (militanti rosso-bruni) opera nella regione ed è stato protagonista di numerose aggressioni, di omicidi, incendi, irruzioni in commissariati e dell’omicidio di un miliziano.

Il nome scelto da questa organizzazione, fratelli della foresta o Fratelli della foresta, è il nome dato in precedenza ai gruppi di ex collaboratori lasciati dietro di sé dai nazisti nei paesi baltici e in Ucraina dopo l’avanzata delle truppe sovietiche nel 1944. La rivolta dei fratelli della foresta è terminata dopo l’assalto delle forze speciali che ha portato alla cattura di quattro membri e alla morte dei restanti. Il gruppo intendeva denunciare la corruzione del sistema di polizia (alcuni membri erano stati vittime di torture) ma ugualmente la decadenza della società, considerato che nel loro ultimo video pubblicato su internet prima della loro morte, essi denunciano principalmente: “la corruzione, il consumo di droghe e la difficoltà di trovare ragazze ancora vergini a 15 anni”. Cosa senza dubbio più sorprendente di ogni altra, il loro odio verso l’impero russo e verso la federazione è tradotto in questa frase: “Noi non riconosciamo né le leggi federali né le leggi locali, noi rigettiamo totalmente l’autorità della vostra Federazione di Russia e diamo il benvenuto a coloro che si sono uniti alla resistenza nel Caucaso del nord, e agli altri, individui degni, onesti e nobili”. Così questi rivoluzionari d’estrema destra supportavano i ribelli islamici e wahabiti contro l’esercito federale russo. Ancora una volta, la retorica secessionista e anti federale sembra al centro delle rivendicazioni.

In un testo apparso sul sito del DPNI (il principale movimento d’estrema destra russa), i membri del gruppo hanno dichiarato di essersi schierati contro il fascismo giudaico, come i loro gloriosi antenati si erano schierati contro il fascismo tedesco. Contemporaneamente a questo “sostegno” piuttosto logico dell’estrema destra russa ci sono stati dei sostegni più sorprendenti. Alcune associazioni dei diritti dell’uomo, come ad esempio l’associazione Agora, di cui è stata fatta pubblicità ad esempio sul sito dell’oppositore liberale Garry Kasparov,  hanno denunciato la brutalità della polizia dopo l’intervento contro i giovani ribelli. Va notato che l’associazione Agora è ugualmente accusata di finanziare il terrorismo sul territorio della Federazione russa, e cioè nella repubblica musulmana del Tatarstan. Da allora è stata aperta un’inchiesta per controllare i finanziamenti di questa organizzazione. Questo sostegno di piccoli gruppi di estrema destra da parte di associazioni liberali e in difesa dei diritti dell’uomo è una caratteristica del fronte arancio-bruno che opera in Eurasia, e in particolare in Russia.

Dicembre 2010: Mosca

Nello scorso dicembre, dopo la morte di un tifoso calcistico, ucciso per mano di cittadini del Caucaso russo, migliaia di giovani tifosi si sono riuniti l’11 dicembre per commemorare la sua morte e criticare la rimessa in libertà dei presunti assassini. La manifestazione si è rapidamente trasformata in un raduno politico. Ci sono stati violenti scontri con le forze dell’ordine, ed un meeting di contestazione contro “la corruzione, l’immigrazione e il potere”.

Nei giorni e nelle settimane seguenti, tensioni in crescita hanno portato a una giornata di confronto comunitario virtuale il 15 dicembre a Mosca, quando migliaia di nazionalisti e cittadini del Caucaso del nord si sono riuniti senza affrontarsi realmente. Manifestazioni di questi nazionalisti in collera hanno avuto luogo in numerose città della Russia (Perm, Kirov, Kaluga, Samara, Izhevsk, Voronezh, Tomsk, Ufa, Kaliningrad…). Anche se queste manifestazioni potrebbero sembrare spontanee, sussistono dei dubbi quando il loro scoppio corrisponde alla loro utilità. L’eccellente commentatore di Ria-Novosti, Ilya Kramik, ha dimostrato in un articolo: la curiosissima agitazione sul web, in particolare l’invio di messaggi falsi che invitavano i Caucasici ad armarsi e a riunirsi la sera del 15 dicembre. Questo messaggio conteneva tra i destinatari liste di falsi dirigenti caucasici.

In parallelo sono apparsi su numerosi forum russi messaggi che invocavano a “stroncare i Caucasici”. Sono corse voci di colonne di veicoli del Caucaso che si dirigevano a Mosca ecc. Questa agitazione informatica destinata a creare una destabilizzazione al cuore della società civile russa ha causato la creazione di una brigata informatica specializzata a sorvegliare lo spazio di internet. È inoltre da notare che ancora una volta si sono fatti sentire i sostegni dei nazionalisti ucraini, e in Ucraina la stragrande maggioranza dei movimenti di estrema destra non ha celato la totale ostilità al potere russo e ha sostenuto largamente la rivoluzione arancione del 2004.

La nuova estrema destra russa al centro del movimento?

Due movimenti russi hanno contribuito a mantenere la pressione, il DPNI che abbiamo già citato più in alto e che ad esempio ha chiamato il 14 dicembre i Russi ad armarsi e gli anziani a non lasciare le proprie case, ma in egual misura anche un movimento poco conosciuto dagli stranieri, l’alleanza nazional-democratica. Questo movimento molto recente (datato agli inizi del 2010) – il cui sito intitolato “Nazdem” fa intuitivamente pensare a “Nazbol”, e la cui fiamma nel logo fa anche stranamente pensare a quella di radio Svodoba o a quella dell’associazione di Soros Freedom House – ha giocato un ruolo importante nell’organizzazione delle manifestazioni. L’utilizzo di striscioni in inglese porta a chiedersi quale fosse realmente il pubblico designato, i russi o piuttosto i media stranieri. Ciò ci ricorda le azioni nell’anno 2000 a Mosca del perenne oppositore Kasparov, il quale ha organizzato manifestazioni ad hoc, vietate, ma soprattutto destinate ai media stranieri. Questa curiosa associazione segue una logica molto orientata verso i diritti dei cittadini e destinata alla società civile. I Nazdem si appellano ugualmente all’integrazione della Russia nella NATO e nell’UE, all’indipendenza del Caucaso, oltre che allo smembramento della federazione nella forma attuale (tale idea fa pensare alle intenzioni indipendentiste dei partigiani della foresta). Inoltre, i Nazdem affermano il loro sostegno a Israele e alla comunità internazionale attuale contro gli stati facinorosi, primo tra tutti l’Iran. Infine, i Nazdem sostengono l’opposizione bielorussa anche se la loro pagina rimanda a quello che ricorda fortemente una ONG filo-occidentale, esortando la Bielorussia a unirsi all’Unione Europea. Inoltre va notata dopo le elezioni presidenziali in Bielorussia la volontà di alcuni provocatori arancioni di creare problemi all’opposizione bielorussa, come in quest’immagine. In un recente articolo Alexandre Douguine accusa le organizzazioni nazionaliste che fanno appello all’indipendenza del Caucaso di essere sponsorizzate dai servizi occidentali.

Alleanze tra i liberali (arancioni) e i radicali (bruni)?

Ancora una volta quindi, come quando i partigiani regionalisti dell’estremo oriente hanno sostenuto i Boieviki Ceceni, si sviluppano alleanze contro natura. L’Alleanza Nazionale democratica ha deciso di sostenere il movimento d’opposizione liberale S31 che ci ricordiamo essere una coalizione che unisce tanto le associazioni di difesa dei diritti dell’uomo, i movimenti di estrema sinistra, le associazioni arancioni come il comitato Helsinki, o memoriali, quanto quelle nazionali bolsceviche di Edouard Limonov (che ha, lo ricordo, la doppia nazionalità francese e russa), ma anche i liberali Nemtsov e Kasparov.

Fuori dalla Russia, ricordo che ormai è un dato di fatto che Strategie 31 sia sostenuta da Boris Berezovski. Ci si può chiedere se il movimento dell’11 dicembre non sia ormai altro che una pallida copia del movimento del 31 di ogni mese, sebbene a questa questione sia stata fatta una smentita formale. Infine il principale organizzatore liberale di S31, e un responsabile del DPNI, sono stati arrestati e condannati a 15 giorni di prigione per una manifestazione vietata a fine 2010. Più di recente, è stato invece un leader del movimento l’altra Russia, Igor Bereziouk, che è stato arrestato per la sua partecipazione alle violenze del 15 dicembre scorso in piazza rossa.

Che cosa possiamo dire-dedurre da tutto ciò? Sicuramente, la Russia ha già conosciuto manifestazioni di rivolta e di contestazione. Ma dopo l’apparizione delle rivoluzioni colorate in tutto lo spazio eurasiatico postsovietico, la Russia è stato il solo paese ad essere risparmiato. Di sicuro tale resistenza a queste rivoluzioni colorate ha delle ragioni strutturali (relativa buona salute dell’economia) tanto quanto politiche (solidità del regime e del sostegno popolare a questo regime). Tuttavia quando nel 2011 i principali regimi colpiti dalle rivoluzioni colorate sono crollati, sembra che il movimento sia ancora attivo, e che giochi la carta della destavilizzazione politica per la contestazione sociale. L’idea è astuta e la contestazione della corruzione senza dubbio giustificata. Ma gli obiettivi di coloro che portano al crollo del regime non corrispondono all’instaurazione di un nuovo regime pulito e non corrotto, ma la presa del controllo geopolitico e geostrategico del cuore dell’isola-mondo, l’Eurasia.

Traduzione di Alessandro Parodi


“Rivolte arabe”: dove va la Turchia?

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Passano i giorni, ma la posizione assunta da Ankara sulle gravi emergenze libica e siriana (nel primo caso un’aggressione militare “atlantica” al di fuori di ogni norma del diritto internazionale, nel secondo azioni di gruppi armati spacciati dalla propaganda occidentale come “manifestazioni democratiche”) continua indubbiamente a suscitare perplessità e un certo sconcerto nell’opinione pubblica turca.

L’astensione di Russia e Cina al Consiglio di Sicurezza dell’ONU  nei confronti della risoluzione 1973 ha determinato un “vuoto di potere” eurasiatico che ha pesantemente condizionato anche la politica turca.  La mancata opposizione russo-cinese alla guerra di Libia – un conflitto foriero di sconvolgimenti che potranno durare per anni – unita al drammatico e talvolta pilotato riassestamento del mondo arabo hanno provocato un vero tourbillon nell’intera area influenzando la politica di Ankara, per lo meno a breve termine.

Certamente un certo ruolo lo stanno giocando quelle forze interne – vertici militari in testa, ma anche tutta una serie di analisti e intellettuali all’opera per  cercare di radicalizzare il  momento di difficoltà dei rapporti turco- siriani   – che mirano a un ritorno del “figliol prodigo” nella casa occidentale.

Quanto al governo, c’è da sottolineare una certa differenza di approccio tra Capo dell’esecutivo e ministro degli Esteri, soprattutto sulla questione siriana. Se Erdoğan tiene una posizione più dura, arrivando ad accusare di “atrocità” il regime di Damasco, Davutoğlu ha intravisto nell’ultimo intervento del Presidente Assad “elementi positivi, da tradurre in passi concreti”, e parlando con il suo omologo tedesco Westerwelle ha sottolineato che “la Turchia condivide il destino della Siria”.

L’allarme per le migliaia di profughi giunti in territorio turco – emergenza che sembra ora parzialmente rientrare, ma è presto per fare previsioni – si giustifica anche per il timore che fra i tanti rifugiati siano presenti terroristi del PKK, del PEJAK o similari:  ipotesi tutt’altro che peregrina, visto che ad animare la “rivolta siriana”, secondo più fonti, hanno provveduto guerriglieri venuti da fuori, in combutta con elementi interni.

Lo stesso scenario verificatosi nel marzo 2004, allorché nella zona di Qamisli – una piccola area a prevalenza curda al confine con la Turchia – vi furono prima dimostrazioni a favore di Bush, “liberatore” dell’Iraq, poi rivolte e assalti alle sedi del Baath, a partire dall’episodio/pretesto di un incontro di calcio fra squadre locali; disordini scoppiarono anche ad Aleppo e sulle montagne vicine:  fu una “rivolta” ben poco spontanea (al proposito significative le testimonianze raccolte da Lorenzo Trombetta e  a suo tempo pubblicate da “Limes”), bensì pianificata e sostenuta dai servizi israeliani – ben presenti nel nord Iraq – e statunitensi attraverso i leader curdi iracheni Barzani e Talabani.

Tutto ciò dovrebbe essere chiaro ai dirigenti turchi e in particolare Davutoğlu nel richiamare la comunità di destino fra Turchia e Siria mostra di tenerlo presente.

Sul piano generale, comunque,  è la relazione con i Paesi arabi che va precisata e definita dopo i cambiamenti – ancora incerti – in atto nel mondo arabo.

L’AKP sembra in questa fase privilegiare  accordi con movimenti quali i Fratelli Musulmani trascurando invece quelli – fin qui perseguiti – con regimi nazionali e cosiddetti laici (tali appunto quelli libico e siriano); questo percorso potrebbe provvisoriamente coincidere con quello delle potenze occidentali, ansiose di liberarsi – con i bombardamenti “umanitari” e la gestione delle “rivolte arabe” – di Paesi scomodi per la loro rivendicazione di sovranità. Ma questa dicotomia tra regimi laici e regimi a sfondo religioso, che da un lato dimostra una certa latente conflittualità e divisione del mondo arabo e islamico, poggia sull’insidiosa strumentalizzazione che ne fanno Stati Uniti e loro alleati, e a maggior ragione – ecco l’utile ruolo di una Turchia “neottomana” –  andrebbe sanata con   riconoscimenti reciproci nel quadro di un positivo dialogo fra regimi diversi ma solidali.

E’ difficile fare previsioni, tuttavia appare veramente anacronistico un riallineamento di Ankara sulle posizioni atlantiste e occidentali di qualche lustro fa : l’orientamento generale stesso della popolazione turca, non più disponibile a crociate contro i “cattivi vicini”, offre qualche elemento decisivo in tal senso.

FMI: le dimissioni di DSK non sono un fatto ordinario

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L’affaire Strauss Khan potrebbe avere altre implicazioni rispetto a quelle propugnate dai media, quali la possibile aggressione sessuale oppure la perturbazione politica nella designazione dei candidati alle presidenziali francesi. Nel dibattito sulla questione si è parlato di tutto: sessismo, violenza contro le donne, seduzione “alla francese”, omertà dei politici e dei media francesi di fronte a simili condotte, differenze fra sistema giudiziario europeo e statunitense; di tutto meno che delle potenziali conseguenze che le dimissioni di Strauss Khan avrebbero sulla politica del FMI. Ed invece l’affaire Strauss Khan potrebbe costituire il sintomo di un cambiamento di strategia dello stesso Fondo Monetario Internazionale; tali dimissioni forzate cadono infatti in un momento decisivo per la definizione delle operazioni del Fondo. Sotto la presidenza di DSK, quest’ultimo è stato prioritariamente coinvolto nel salvataggio della zona euro, così come nel progetto di una valuta internazionale atta a ridurre progressivamente la dipendenza dell’economia mondiale dal dollaro americano.
Sin dal momento della sua candidatura,  Christine Lagarde ha rimarcato le proprie differenze di vedute rispetto a  Dominique Strauss Khan. Ella ha insistito sul fatto che il FMI “non deve esercitare il proprio ruolo solamente in Europa, ma deve anche rispondere alle richieste di assistenza provenienti dai paesi del Medio Oriente e dell’Africa del Nord”. Da tale semplice dichiarazione traspare già una deviazione rispetto alle politiche cui ha dato impulso Strauss Khan: l’intervento del FMI non sarà più centrato principalmente sul continente europeo; piuttosto dovrà offrire il suo supporto materiale anzitutto alla politica statunitense di riassetto del Medio Oriente e dell’Africa del Nord. Si tratta, in tale contesto, di un mutamento d’ordine strategico, poiché il FMI è diventato – sotto la direzione di Strauss Khan – un fondo monetario europeo, il quale ha giocato un ruolo centrale non solo nel salvataggio dei paesi dell’Est, ma anche della zona euro. L’intervento del FMI ha protetto i paesi in difficoltà dagli attacchi operati dalle agenzie di rating statunitensi, ed ha  permesso loro di accedere ai prestiti anche al di fuori di condizioni di mercato. Nell’Aprile 2011, i crediti ottenuti dai paesi europei costituivano circa l’80% dell’ammontare concesso dal Fondo.

 

Mentre gli europei facevano affidamento sui contributi del Fondo – per un secondo piano di prestiti di circa cento miliardi di euro in favore di Atene – il nuovo direttore del FMI, M. Lipsky, si è rifiutato di prendere in considerazione tale progetto.

Gli Stati Uniti hanno posto fine ad un periodo di vacche magre per l’istituzione quando, cedendo a intense pressioni, erano finalmente giunti ad accettare una triplicazione delle risorse del FMI in occasione del G20 di Londra del 2 Aprile 2009; in questo modo 500 miliardi di dollari si sono aggiunti ai 250 di risorse preesistenti. E’ stata inoltre prevista una somma di 250 miliardi proveniente da una emissione supplementare dei Diritti Speciali di Prelievo (DSP), l’unità di conto del FMI, al fine di permettere l’aumento delle proprie risorse da parte del Fondo stesso e finanziare i paesi messi in difficoltà dalla crisi finanziaria.
Attualmente, il DSP non è che una moneta di riserva detenuta dalle banche centrali e non costituisce strumento di pagamento se non per certe transazioni del Fondo. La Cina, dal canto suo, ha preso in considerazione la possibilità che i DTS costituiscano una moneta di pagamento in grado prima o poi di rimpiazzare il dollaro.

In un saggio pubblicato il 23 Marzo 2009 ed intitolato Riformare il Sistema Monetario Internazionale, Zhou Xiaochuan, governatore della banca centrale cinese, vedeva nel FMI il germe di una banca centrale internazionale in grado di gestire la liquidità mondiale con un obiettivo di stabilità globale dei prezzi in DSP. Di conseguenza, egli ha proposto una ridefinizione dei Diritti Speciali di Prelievo a partire da attività reali direttamente negoziabili. Il valore del DSP non sarebbe più costituito dalla media ponderata dei tassi di cambio delle monete nazionali che lo compongono, così come le controparti della loro emissione non sarebbero più dei diritti fissi assegnati agli Stati che impegnano la propria moneta nella composizione del DSP, ma le riserve di cambio depositate in funzione dell’attività economica reale. Zhou Xiaochuan propone un ordine finanziario internazionale regolato sul peso economico attuale delle nazioni, con particolare considerazione dell’economia cinese; il FMI disporrebbe così di un potere di emissione autonomo.
La Cina non è isolata: la Russia, il Brasile ed anche l’India hanno mostrato interesse per queste proposte ed il FMI stesso non è rimasto inerte: dal 7 Gennaio 2010 al 13 Aprile dello stesso anno ha pubblicato almeno tre rapporti favorevoli alla creazione di una nuova moneta internazionale. Il FMI ha proposto che i Diritti Speciali di Prelievo servano non solo come moneta di riserva, ma anche come moneta di pagamento di certe attività, come l’oro e il petrolio, attualmente negoziati in dollari. Il Fondo esaminerà parimenti la possibilità di emissione di obbligazioni in DSP, che ridurrebbe la dipendenza delle banche centrali dai buoni del Tesoro americano.
Nicolas Sarkozy si era congratulato di tale contributo al dibattito sulla riforma del sistema monetario internazionale, che costituirebbe una priorità della presidenza francese del G20 del 3 e 4 Novembre 2011 a Cannes. In occasione della riunione del G20 di metà febbraio, Christine Lagarde aveva già dichiarato che il suo paese avrebbe lavorato alla realizzazione di una transizione pianificata verso un sistema finanziario mondiale che si basi su di una pluralità di valute nazionali. Tuttavia al G8 di Deauville del 26 Maggio, sottoposto parimenti alla presidenza francese, la questione non è stata affrontata, e questo nonostante ne fosse stata prevista la discussione in preparazione del G20 incentrato sull’organizzazione monetaria a livello globale. Se il summit ha stanziato un aiuto di 40 miliardi di dollari ai paesi delle “primavere arabe”  ed ha affermato che Gheddafi deve lasciare il potere, ha invece passato sotto silenzio tale problematica, il cui richiamo avrebbe infastidito gli Stati Uniti.

* Jean-Claude Paye, sociologo, contribuisce frequentemente a “Eurasia”. Sulla rivista ha pubblicato: Spazio aereo e giurisdizione statunitense (nr. 4/2007, pp. 109-113), Gli scambi finanziari sotto controllo USA (nr. 1/2009, pp. 109-120), La gerarchizzazione del sistema finanziario (nr. 1/2010, pp. 237-248), La crisi dell’euro e il mercato transatlantico (nr. 1/2010).

Traduzione di Giacomo Guarini

ЛИВИЯ, МЕЖДУНАРОДНЫЙ УГОЛОВНЫЙ СУД И ПРОБЛЕМЫ МЕЖДУНАРОДНОГО ПРАВА

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6 июля на юридическом факультете РГТЭУ состоялся круглый стол: “ЛИВИЯ, МЕЖДУНАРОДНЫЙ УГОЛОВНЫЙ СУД И ПРОБЛЕМЫ МЕЖДУНАРОДНОГО ПРАВА”. В дискуссии участвовали российские и зарубежные дипломаты, эксперты по международному праву из ведущих вузов страны, политологи, журналисты, члены общественных организаций и движений. Круглый стол был организован Российским комитетом солидарности с народом Ливии и Сирии. На круглом столе присутствовали  более 12 докторов Юридических наук, а так же специалисты по международному уголовному праву:

1) БАБУРИН Сергей Николаевич – д.ю.н., проф., Заслуженный деятель науки РФ, ректор РГТЭУ

2) ВАЩЕНКО Алексей Михайлович – корреспондент газеты «Завтра»

3) ГЛОТОВА Светлана Владимировна — к.ю.н., доц., член исполкома Российской ассоциации международного права; член Всемирной ассоциации международного права; член комиссии по международному праву Ассоциации юристов России; член научно-консультативного совета при министре иностранных дел России, доцент кафедры международного права МГУ им. М.В.Ломоносова;

4) ГОЛИК Юрий Владимирович – д.ю.н., проф., профессор кафедры уголовного права и процесса РГТЭУ;

5) ДАРБАШ Муфтах – Заместитель посла Ливии в Российской Федерации;

6) ДЖАТИЕВ Владимир Солтанович – д.ю.н., проф., Заведующий кафедрой уголовного права и процесса РГТЭУ

7) ЖДАНОВ Николай Васильевич – д.полит.н., к.юн., профессор кафедры международного права РУДН

8 ) КАПИТОНОВ Сергей Анатольевич – д.ю.н., профессор, зав. кафедры теории и истории государства и права, Елецкий государственный университет им. И.А.Бунина

9)  МЕЛКОВ Геннадий Михайлович – д.ю.н., проф., Заслуженный юрист РФ, профессор кафедры конституционного и муниципального права РГТЭУ

10) ОВЧИНСКИЙ Владимир Семенович – д.ю.н., член Совета по внешней и оборонной политике (СВОП), генерал-майор милиции (в отставке)

11) ОСАВЕЛЮК Алексей Михайлович – д.ю.н., проф., зам. зав. кафедрой конституционного и муниципального права РГТЭУ

12) ПЕРЕСЫПКИН Олег Герасимович – посол СССР в Ливии 1984 – 1986;

13) САУЛЯК Олег Петрович – д.ю.н., доц., декан юридического факультета РГТЭУ

14) ФОМИН Олег Иванович – Член Совета Императорского Православного Палестинского Общества, арабист

15) ШАМБА Тарас Миронович – д.ю.н, проф.. Заслуженный юрист РФ, зав. кафедрой адвокатуры, нотариата, гражданского и арбитражного прогресса РГТЭУ

16) КОЖЕУРОВ Ярослав Сергеевич – кандидат юридических наук

17) Малев Дмитрий Васильевич -  Чрезвычайный и полномоченный посол РФ в Гвинея Канакри и Сьера Лионе

18) Антоненко Алексей Петрович – политолог

19) Сологубовский Николай Алексеевич – журналист, писатель

20) Орлов Владимир Петрович – заместитель председателя Совета МОО «ВЕЧЕ»

На обсуждение круглого стола были вынесены следующие вопросы:

Кому выгодно физическое уничтожение Муаммара Каддафи?

Кто является нарушителем резолюции 1973 Совбеза ООН о введении бесполётной зоны над Ливией?

Являются ли ракетно-бомбовые удары по Ливии легитимными, не нарушают ли они положения Устава ООН и других международных актов?

По итогам обсуждения поставленных вопросов, участники круглого стола пришли к единодушному мнению о том, что Международный Уголовный Суд своими действиями по выдаче ордера на арест Муаммара Каддафи нарушил международное право, а НАТО при исполнении резолюции 19-73 вышло за рамки не только правового поля, но и за рамки разумного и действует без правового основания.

Участники круглого стола приняли решение принять обращение к СБ ООН с требованием немедленного прекращения бомбардировок Ливийских городов силами НАТО, так как это противоречит резолюции 19-73. Кроме того участники круглого стола решили направить обращение в Международный Уголовный Суд с требованием отзыва ордера на арест Муаммара Каддафи.

 

Anikó Steiner, Sciamanesimo e folclore

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Anikó Steiner
Sciamanesimo e folclore
Collana: Turul

Edizioni all’insegna del Veltro

Pagine: 88
Prezzo: 10,00 euri

L’Autrice esegue un vaglio accurato degli elementi più significativi e, per così dire, paradigmatici, reperibili come moduli costanti nella varietà delle favole ungheresi, mostrando come a questi moduli corrispondano, sotto una figurazione simbolica, altrettante fasi dell’esperienza iniziatica sciamanica. A questo punto la Steiner non solo isola e ordina in successione logica questi elementi, ma li pone, contemporaneamente, in confronto con elementi tratti dalla tradione popolare ungherese e con quanto è conosciuto delle espressioni di analoga natura presso popoli dello stesso ceppo. Ciò permette di ritrovare le forme comuni e quelle che, invece, sono proprie, peculiari del popolo magiaro.

Profondo studio sulle fiabe ungheresi che dimostra la stretta relazione tra la cultura popolare magiara e le tradizioni sciamaniche centro-asiatiche e siberiane. Di sicuro interesse per l’appassionato mongolista.

Per aquisti:

http://www.insegnadelveltro.it

René Grousset, Il Conquistatore del mondo

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René Grousset

Il Conquistatore del mondo

Traduzione di Elena Sacchini
Collana L’oceano delle storie
isbn: 9788845925931
Adelphi, Milano 2011

Lo scenario è uno dei più contrastati e smaglianti dell’Alta Asia, la storia quella di Temüjin, meglio noto come Gengis Khan. Una storia che René Grousset ricostruisce risalendo alle sue remote scaturigini mitiche – l’accoppiamento tra il Lupo Grigio-blu e la Cerbiatta Selvatica, capostipiti di quella che diventerà la «razza di ferro» dei Mongoli – e racconta con ritmo serrato, senza per questo tralasciare alcun dettaglio rivelatore.

Assistiamo così alle vicende dell’avo di Temüjin, Qutula, sorta di Eracle mongolo la cui voce rimbomba «come il tuono nelle gole delle montagne», e del padre, Yisügei il Coraggioso, già in lotta con quella corte cinese che tratta i nemici con cru­deltà esemplare, impalandoli su asini di legno. Poi alla nascita e alla crescita di un bambino dagli «occhi di fuoco», «il viso acceso da un bagliore misterioso», che non esita a sbarazzarsi del giovane fratellastro prima di unirsi alla bellissima Börte, «consigliera avvertita e autorevole».

Poi ancora alla lunga teoria di scontri vittoriosi contro i Merkit e i principi mongoli avversari, fino alla conquista dell’egemonia indiscussa attraverso la «battaglia nella tempesta» (contro l’intrigante fratello di sangue Jamuqa) e quella dei «Settanta mantelli di feltro» (con­tro le ultime resistenze tatare). E infine all’espansione di un regno quasi senza limiti, che lambiva il palazzo imperiale di Pechino e la Via della Seta.

Non meno folto di episodi, l’epilogo della vita di Gengis Khan corrobora i tratti di una personalità insieme monolitica e contraddittoria, che unisce ferocia e saggezza, alta diplomazia e brutalità, amoralismo e improvvise accensioni sentimentali.

Una personalità che Grousset restituisce magistralmente in tutti i suoi chiaroscuri – narrando, nel contempo, l’affascinante odissea di un gruppo di pastori nomadi della steppa e cacciatori della foresta trasformatisi prima in guerrieri erratici e poi, sotto il loro khan, in un popolo di conquistatori.

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