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Due esperti analizzano le proteste di massa in Nord Africa e Medio Oriente

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Fonte: “La discussione”, 16 giugno 2011, p. 7

 

La cosiddetta primavera araba, foriera di rivolte contro l’oppressore in Nord Africa e Medio Oriente, c’entra ben poco con i blogger e i social network. In effetti, organizzare un moto di popolo via Internet – sulla falsa riga dei no global in occasione dei G8 – in Paesi dove la diffusione del web è scarsa sarebbe un’impresa davvero ardua. Pertanto, la protesta di massa che ha riempito le piazze di Egitto, Tunisia, Libia, Yemen, Bahrein è stata organizzata dagli islamisti, dalla Fratellanza musulmana. È questa l’analisi fornita da due studiosi, Daniele Scalea e Pietro Longo – redattori della rivista di geopolitica Eurasia e rispettivamente segretario scientifico e ricercatore del neonato (libero e indipendente) Istituto di alti studi in geopolitica e scienze ausiliarie (Isag) – nel libro “Capire le rivolte arabe: alle origini del fenomeno rivoluzionario” (Avatar-Isag, 164 pagine, 18 euro). Nella quarta di copertina gli autori si chiedono: “Sappiamo davvero perché queste rivolte stiano scoppiando? Conosciamo veramente i nostri vicini arabi, le loro aspirazioni e gl’ideali che li animano? Ci rendiamo conto di quale potrebbe essere il volto del mondo quando l’ondata della rivolta avrà finito d’abbattersi sulla regione?”. “In questo libro – proseguono – si cerca di fare chiarezza, in una veste agile e sintetica, ma discostandosi dalle semplificazioni giornalistiche e dai proclami romantici per concentrarsi invece sulle dinamiche politiche, economiche e strategiche in atto”. Il punto sta proprio qui: su queste rivolte si è detto e scritto tutto e il contrario di tutto, che sono pilotate per fare gli interessi delle lobby del petrolio, per contrastare gli interessi europei nel Mediterraneo, che – al contrario – sono scaturite da un anelito di democrazia. In ogni caso, affermano Scalea (storico) e Longo (arabista), non è stata detta la verità, complice anche un diffuso pressappochismo dei media occidentali. La verità è che gli islamisti hanno presa sulla popolazione, perché propongono uno stato sociale da contrapporre a liberalizzazioni e asservimenti pedissequi alle potenze straniere. La Fratellanza musulmana – nata in Egitto, dove probabilmente cercherà di organizzare un nuovo assetto sociale sul modello della Turchia – attiva nell’istruzione, nella sanità e nel sociale in genere, si sta ramificando in tutto il mondo islamico e recluta sempre più sostenitori proponendosi come unica alternativa possibile per il bene del popolo.


MERCOSUR o morte

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Fonte: http://licpereyramele.blogspot.com/2011/06/mercosur-o-muerte.html

A Buenos Aires è stata appena pubblicata la quarta edizione di “L’Uruguay come problema”, dell’uruguaiano Alberto Methol Ferré (d’ora in poi AMF), accompagnata da “Altri scritti” (Publicaciones del Sur, 2010), in cui Luis Vignolo (figlio) narra che suo padre, che aveva lo stesso nome, descriveva AMF come l’ “Hegel negretto”… “Un pensatore che concepisce la dialettica della storia trasformando la periferia in centro”. Questi elogi esplicitano l’enorme valore intellettuale dell’elogiato, considerato come uno dei visionari che hanno concepito il Mercato Comune del Sud (MERCOSUR). Nel suo “Omaggio a Carlos Quijano” (2001), AMF spiega che l’America Latina ha sperimentato tre periodi totalizzanti di agitazione. Il primo, approssimativamente tra il 1520 e il 1560, in cui – a causa della fondazione di città e paesi, senza per questo dimenticate genocidi e etnocidi – la Spagna riesce a far dialogare tra loro tutte le varie parti dell’America Latina, dopo che erano rimaste divise per millenni: gli imperi Inca e Azteco non erano a conoscenza della reciproca esistenza.

Il secondo sommovimento generale scoppia nel 1808 e si prolunga fino al 1830. In quest’arco di tempo, Bolivar fallisce nell’intento di unificare l’America Latina nel Congresso Anfizionico di Panama. Cosicché si formano Stati parrocchiali (l’espressione è di Toynbee), che si danno le spalle mentre guardano alla madrepatria. L’affermazione di ognuno coincide con l’esclusione del vicino. Il terzo cambiamento (quello fondante), grazie al quale la politica sudamericana fa capolino nell’arena internazionale, si ha con il MERCOSUR, il 26 marzo del 1991. Si tratta, dice Jorge Abelardo Ramos (d’ora in avanti JAR), dell’avvenimento storico più importante dell’epoca, visto che sin dalle guerre d’indipendenza non era successo nient’altro di più trascendente.

Il geopolitico Mario Travassos ha sostenuto che l’unica cosa che il Brasile avrebbe dovuto ritenere importante è l’America del Sud, dato che, ha aggiunto, più in “alto” è territorio nordamericano. Tuttavia, un MERCOSUR forte richiamerà Messico, America Centrale e Caraibi verso la Patria Grande. AMF avverte che il Brasile da solo non può creare quell’unità del Sudamerica a causa delle sue differenze culturali. L’Argentina non ha la forza per farlo. Peròn diceva che l’integrazione Brasilia – Buenos Aires faciliterà l’unità. Methol sottolinea che le relazioni del Brasile con i suoi deboli vicini lo spingono a mettere in atto politiche imperialistiche. L’alleanza del Brasile con Bolivia, Uruguay o Paraguay assomiglia a un’annessione. È l’abbraccio dell’orso, aggiungeremmo noi. Noi boliviani subiamo in prima persona questa situazione. Lo stesso Perón inseguì un’intesa doganale con il Cile, al fine di poter negoziare l’integrazione economica con il Brasile a migliori condizioni.

Il punto centrale della questione risiede nel sapere se il MERCOSUR potrá avanzare mentre gli inglesi rafforzano la loro presenza nell’Atlantico del Sud e l’Argentina permette che le transnazionali sudamericane controllino le sue risorse strategiche, come le miniere, il petrolio, le banche, le foreste e le distese patagoniche, e conceda al Regno Unito la condizione di socio privilegiato. Carlos Menem ha firmato il MERCOSUR, ma ha seppellito nel dimenticatoio gli eroi delle Malvine. AMF segnalava, con assoluto realismo, che la strada che si allontana dal MERCOSUR consiste nel trasformare l’America “Negra”, in maggior o minor misura, in colonie simile a Puerto Rico, ma ancora più povere e derelitte. Il MERCOSUR rappresenta il culmine degli sforzi fatti precedentemente da CEPAL, ALALC, URUPABOL, Trattato del Bacino de La Plata, Parlamento Latinoamericano e Patto Andino.

Nel 2008 dal MERCOSUR nasce l’Unione Sudamericana (UNASUR), la quale possiede una capacità di proiezione ancora maggiore visto che abbraccia varie dimensioni, da quella militare fino a quella culturale. La scelta tra MERCOSUR o morte è tutta nelle mani delle generazioni di latinoamericani di oggi. La prima opzione implica nel medio periodo la configurazione della Nazione Continente dell’America Latina. La seconda vuol dire rassegnarsi al fatto che il Sudamerica si converta in tanti nuovi Puerto Rico.

*Andrés Soliz Rada, ex Ministro degli Idrocarburi della Bolivia

(trad. di Francesco Saverio Angiò)

Michel Aflaq, La resurrezione degli Arabi

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Michel Aflaq

La resurrezione degli Arabi

Edizioni all’insegna del Veltro

Collana “Gladio e Martello” diretta da Stefano Bonilauri

pp. 70, € 7,00

per ordini:

insegnadelveltro1@tin.it

Il panarabismo delineato da ‘Aflaq resta ancora oggi una delle dottrine politiche più raffinate mai elaborate nel mondo arabo. E l’importanza di un suo recupero, di un ritorno agli ideali che ne furono all’origine, appare tanto più importante quanto più incombono le minacce vecchie e nuove con cui i popoli arabi continuano a dover fare i conti. L’antico colonialismo ha semplicemente cambiato maschera, sostenuto dall’imperialismo del capitale apolide che si serve di suoi fiduciari locali: coloro che il Ba‘ath definiva gli esponenti della reazione araba, capeggiata dal regime dell’Arabia Saudita e dalle monarchie petrolifere del Golfo. Senza scordare naturalmente il progetto sionista, che ‘Aflaq individuò sin dai suoi primordi come una minaccia decisiva con cui era impossibile scendere a compromessi.

Dall’Introduzione di Alessandro Iacobellis

Giovanni Armillotta, Imperialismo e rivoluzione latinoamericana

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Giovanni Armillotta

Imperialismo e rivoluzione latinoamericana

Presentazione di Alejandro César Simonoff

Aracne Editrice (Roma 2011)

– ISBN: 978-88-548-4109-3

200 pagine

€ 12,00

Il Libro

Imperialismo e rivoluzione latinoamericana tratta la storia del Continente dai confini settentrionali del Viceregno della Nuova Spagna alla Terra del Fuoco. Dalla scoperta, all’epopea della Rivoluzione messicana, sino al tradimento dei partiti prosovietici. Dallo sfruttamento spietato di Spagna, Portogallo Gran Bretagna e Stati Uniti d’America che hanno favorito il sottosviluppo, fino al riscatto cubano passando per la Teologia della Liberazione.

Dai disperati tentativi della guerriglia guevarista, tupamara, camilista e filoalbanese ad arrivare alle odierne speranze di cambiamento. Un volo di condor – e una rilettura marxista slegata da obbedienze partitiche – su di un secolo di storia contemporanea americana.
Per anni, in Italia, a scrivere della rivoluzione nei Paesi latinoamericani e la barbarie repressiva dell’imperialismo, occorreva essere dotati di patente, permessi e licenze.

O essere del piccì moscovita istituzionale e, quindi, dal patto Johnson-Kosygin (1967) in poi, considerare le contraddizioni, le lotte e la guerriglia quali correggibili fenomeni ormonali e non di classe – il desiderio dei nipoti di Brežnev e Togliatti di diventare i futuri figli di Bush jr. ed Obama dovrà attendere ancora un quarto di secolo.

O essere del partito della destra doppiopettista e non ringraziare mai abbastanza dittatori, generali, gorilla e presidenti liberali i quali, agli ordini della Casa Bianca, ci difendevano dal comunismo massacrando Allende e rovesciando Arbenz, Perón e tanti altri con “smanie” d’indipendenza e riscatto continentale.

Alejandro César Simonoff, professore dell’Universidad Nacional de la Plata, nella presentazione ha scritto: «Cercare di spiegare in un testo l’antimperialismo latinoamericano è un’impresa complessa ed appassionante. E compierlo in forma chiara e precisa accresce le sfide. È difficile ma non impossibile, e Giovanni Armillotta l’ha fatto con straordinaria maestria».

Il volume si divide in diciotto capitoli ed è ricco di tabelle statistiche e mappe. Seguono appendici riguardanti cifre e demografia. Inoltre a corredo del volume nove indispensabili carte geopolitiche aiutano il lettore a inquadrare meglio i fatti e gli eventi in oltre mezzo millennio di storia. Per finire l’appendice Le “avanzate” civiltà precolombiane, smitizza i luoghi comuni che da sempre hanno accompagnato favorevolmente i giudizi sulle sanguinarie culture antecedenti la scoperta, le quali – di gran lunga – superavano la ferocia dei colonizzatori europei.

Il volume, in cui è d’ausilio un esaustivo Indice dei nomi, è il testo del Seminario Imperialismo e rivoluzione in America Latina nell’àmbito della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Pisa per l’Anno Accademico 2010-2011.

Giovanni Nappi

L’Autore

Giovanni Armillotta (PhD), è direttore responsabile di «Africana», fra i soli diciotto periodici italiani consultati dall’«Index Islamicus» dell’Università di Cambridge. È l’unico studioso che collabora contemporaneamente alle due più importanti riviste italiane di geopolitica e sui loro siti-web: «Limes» ed «Eurasia». È giornalista, nonché cultore di Storia delle Americhe e Storia latinoamericana all’Università di Pisa.

ARACNE EDITRICE S.r.l.
info@aracneeditrice.it – tel./fax (+39)06.93781065
orario apertura: lunedì-venerdì/open: Monday-Friday: 8:30-18:30
Indirizzo/Address: – Via Raffaele Garofalo, 133-AB – 00173 Roma – ITALY

Kosovo: anche gli “eletti” cominciano a tremare

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La partizione del Kosovo, della quale negli ultimi tempi hanno parlato a più riprese esponenti politici serbi, “non fa parte della prospettiva europea dei Balcani occidentali, e non può essere pertanto una soluzione ai problemi del Kosovo.” Questo è quanto riferisce l’Ambasciatore d’Italia a Pristina, Michael Louis Giffoni (nato a New York), che ha l’incarico di ‘facilitatore politico’ nel nord del Kosovo a maggioranza di popolazione serba. ”Da vari anni ripeto che l’Unione europea lavora e ha una visione dei Balcani legata all’integrazione e alla cooperazione, al dialogo e alla prospettiva europea. In quest’ottica concetti come la partizione del Kosovo sono fuori luogo e non aiutano a migliorare la situazione nella regione”, ha detto Giffoni. A suo avviso, ”invece di creare nuovi confini bisogna rendere meno impenetrabili quelli già esistenti, che e’ poi la tendenza in atto in Europa”.

A parlare di una divisione del Kosovo come ‘unica soluzione realistica’ all’impasse che persiste sulla questione di tale paese, del quale Belgrado rifiuta di riconoscere l’indipendenza, e’ stato in particolare il vicepremier e ministro dell’interno serbo, Ivica Dacic. L’Ambasciatore Giffoni ha confermato la sua posizione in una intervista al quotidiano kosovaro “Koha Ditore”, nella quale ha affermato che quelle su una possibile partizione del Kosovo devono essere considerate idee private e personali di taluni esponenti politici. ”Tali concetti sono contrari ai principi della cooperazione regionale e della stabilità nei Balcani, poiché eventuali cambiamenti delle frontiere avrebbero serie conseguenze sull’intera regione. Io continuo a credere che la vita dei cittadini nel nord del Kosovo (a maggioranza di popolazione serba, ndr), e nelle altre parti del Kosovo e della Serbia, può migliorare con la cooperazione e non con le divisioni”.

Nel progetto di una eventuale divisione, la parte nord del Kosovo passerebbe alla Serbia e in tal caso non e’ escluso che una regione del sud della Serbia a maggioranza di popolazione di etnia albanese, la Valle di Presevo, chieda l’annessione al Kosovo.
Che il Kosovo vada diviso tra Serbia e Albania, è appunto l’opinione espressa da Ivica Dacic in una intervista sull’ultimo numero del settimanale “Nin”. ”Abbiamo cercato di difendere il Kosovo con la guerra, e abbiamo fallito. E’ per questo che parlo di demarcazione, prima che sia troppo tardi. Vale a dire una correzione dei confini fra i due Stati vicini, Serbia e Albania”. A suo parere, la Serbia ha fatto un errore nel non parlare con l’Albania. ”La demarcazione tra Serbia e Albania e’ l’unica opzione realistica”, ha detto il ministro dell’interno, e ha aggiunto che il Kosovo potrebbe unirsi al’Albania allo stesso modo di come la Republika Srpska (Rs) – l’entità a maggioranza serba della Bosnia-Erzegovina – potrebbe unirsi eventualmente alla Serbia.
Ufficialmente, la posizione del governo di Belgrado – che si rifiuta di riconoscere l’indipendenza di Pristina – e’ che il Kosovo resta territorio della Serbia, una sua provincia meridionale.

Da marzo e’ cominciato un dialogo fra Serbia e Kosovo per la soluzione di problemi concreti della vita quotidiana, ma Pristina non intende in alcun modo tornare a parlare e a rimettere in discussione il tema dell’indipendenza, considerato ormai risolto per sempre. Da Pristina sono giunte subito reazioni contrariate alle nuove dichiarazioni di Dacic e il premier Hashim Thaci ha detto che i rappresentanti di Belgrado devono smetterla di parlare di una possibile divisione del Kosovo altrimenti, ha osservato, le richieste di Pristina potranno andare ancora al di là dell’indipendenza. Si tratta, ha affermato, di ”idee antistoriche”. L’idea della spartizione non vede favorevoli nemmeno i vertici della Chiesa ortodossa serba, in quanto la maggior parte dei monasteri si trova nella parte meridionale del Kosovo, nella Metohija. Il vescovo Teodosije, rappresentante della Chiesa ortodossa serba in Kosovo, si e’ detto contrario ad ogni ipotesi di divisione, affermando che una tale decisione causerebbe una pericolosa escalation di violenza della quale le vittime principali sarebbero i serbi. Nelle dichiarazioni rilasciate a “Radio Gracanica”, Teodosije ha detto di ritenere che le affermazioni fatte di recente da taluni politici serbi al riguardo vanno considerate a titolo personale e non rispecchiano la posizione ufficiale del governo di Belgrado. ”Io credo fermamente che le autorità serbe, nel rispetto della Costituzione, faranno di tutto per preservare il Kosovo e che non prenderanno alcuna decisione a danno della popolazione kosovara”, ha detto il vescovo Teodosije. ”Il Kosovo – ha aggiunto – non deve essere diviso ma deve restare così com’è”. Per il rappresentante della Chiesa ortodossa una spartizione del Kosovo provocherebbe nuove violenze, ”e noi sappiamo che a soffrirne sarebbe in particolare il nostro popolo”.

La netta contrarietà anche degli Stati Uniti all’ipotesi di una divisione territoriale del Kosovo su base etnica, e’ stata sottolineata a Pristina da Philip Gordon, vicesegretario di stato nordamericano per l’Europa e l’Eurasia. ”Noi siamo contrari, e non prendiamo in considerazione tale ipotesi. Non pensiamo che sia una soluzione pratica e nell’interesse di chicchessia”, ha detto Gordon ai giornalisti al termine di colloqui con la dirigenza kosovara. ”In ogni paese vi sono minoranze, e le democrazie dovrebbero badare ai loro interessi senza ridisegnare i confini”, ha aggiunto l’esponente Usa secondo il quale una partizione del Kosovo avrebbe ”conseguenze su scala regionale. L’indipendenza e l’integrità territoriale del Kosovo non possono essere messi nuovamente in discussione” – ha affermato Gordon, soprattutto dopo che lo sono stati quelli della Serbia, aggiungiamo noi…

Nel frattempo, però, nuove possibili modifiche dell’accordo militare concluso nel 1999, con il quale fu istituita una striscia di sicurezza sulla linea di demarcazione fra Serbia e Kosovo, sono state esaminate in un colloquio che il capo del comitato militare della Nato, ammiraglio Giampaolo Di Paola, ha avuto a Belgrado col capo di stato maggiore delle Forze armate serbe, generale Miloje Miletic. In una conferenza stampa congiunta, Di Paola ha detto che tale accordo ha già subito modifiche in passato, e che ora sono in corso trattative per nuovi cambiamenti. Miletic da parte sua ha osservato come si tratti di un tema molto sensibile e importante per le relazioni fra Serbia e Nato. L’intesa sulla striscia di sicurezza intorno al Kosovo, che dopo le modifiche passate è attualmente di 5 km, è parte degli accordi di pace firmati a Kumanovo (Macedonia) il 9 giugno 1999, con i quali fu posto fine ai bombardamenti aerei della Nato contro la Serbia di Slobodan Milosevic. Con la fascia di sicurezza fu istituita anche una zona di interdizione al volo, ancora in vigore. A più riprese esponenti militari serbi hanno sollecitato la completa abolizione di tale fascia di sicurezza e di tutte le restrizioni ancora in vigore dal momento, si sottolinea, che “esercito serbo e truppe della Kfor (Forza Nato in Kosovo) non sono nemici”.

Nonostante le rassicurazioni di Belgrado, quattro comandanti di polizia nel nord del Kosovo, tutti di etnia serba, sono stati sospesi per il loro rifiuto di accettare i trasferimenti decisi dalla polizia centrale kosovara (Kps) nell’ambito di quella che viene definita una ‘rotazione’ nel servizio. Come ha detto il direttore della polizia, Resat Malici, i comandanti che rifiutano i trasferimenti saranno tutti destituiti e licenziati se non accetteranno il provvedimento. I responsabili di polizia nel nord del Kosovo, abitato in maggioranza da popolazione serba, non riconoscono l’autorità centrale a Pristina e si rifiutano di obbedire agli ordini della dirigenza di polizia (di etnia albanese). “Quelli che accetteranno le decisioni sui trasferimenti, manterranno il posto di lavoro, ma dovranno svolgere la propria attività nelle nuove sedi loro assegnate”, ha precisato Malici citato dai media a Pristina. La direzione di polizia ha stabilito di trasferire il comandante di polizia di Kosovska Mitrovica nord (la parte della città divisa controllata dai serbi) a Jarinje, quello di Zvecan a Leposavic, il comandante di Leposavic a Kosovska Mitrovica nord e quello di Zubin Potok alla centrale regionale di polizia sempre a Kosovska Mitrovica nord.

I problemi con la polizia serba non sono però gli unici; la Kfor, la Forza della Nato in Kosovo, ha spostato il luogo di una esercitazione congiunta con la missione europea Eulex a causa di un blocco stradale attuato da un gruppo di imprenditori serbi, che protestano da alcuni giorni contro l’arresto di un loro collega che si rifiuta di pagare le tasse alle autorità kosovare. Come riferiscono i media a Pristina, un accordo e’ stato raggiunto dai responsabili militari della Kfor e Ratomir Bozovic, presidente dell’Associazione imprenditori di Zubin Potok. Invece che lungo la strada fra Kosovska Mitrovica e Ribarice – bloccata dagli imprenditori – le esercitazioni di Kfor e Eulex si terranno su una strada vicina.
Jevrem Pantelic, l’imprenditore serbo kosovaro di Zubin Potok, è stato arrestato una settimana fa con l’accusa di evasione fiscale, a causa del suo rifiuto di versare le imposte alle autorità kosovare albanesi di Pristina.

Nel frattempo, però, anche gli “eletti” cominciano a tremare, a causa della lotta intestina che si svolge tra gli sponsor internazionali del Kosovo. Il 20 giugno è giunta la notizia che gli investigatori di Eulex, la missione europea in Kosovo, hanno aperto un’inchiesta a carico di Pieter Feith, capo dell’Ufficio civile internazionale (Ico) a Pristina, che avrebbe influenzato la nomina del governatore della Banca centrale kosovara, Gani Gerguti. Notizia annunciata dal quotidiano “Express”. Secondo il giornale vi sarebbero prove che Feith, fino a poche settimane fa anche rappresentante Ue a Pristina, ha avuto un ruolo determinante nella nomina del governatore della Banca centrale Gerguri. Non sono stati forniti altri particolari sulle presunte pressioni esercitate dal diplomatico olandese, uomo di Javier Solana e dei britannici (ma sgradito a diverse ambasciate europee), nella nomina del governatore. Pieter Feith, nota “Express”, ha ribadito a più riprese in passato, in particolare dopo le elezioni dello scorso dicembre, che non vi può essere posto nel governo kosovaro per persone indagate. Eulex, la missione europea in Kosovo, ha però smentito subito che Pieter Feith sia indagato per il ruolo avuto nella nomina del governatore della Banca centrale kosovara. ”Le presunte accuse sono state esaminate dai procuratori, che hanno stabilito che non vi e’ alcun motivo di avviare un’inchiesta, e il caso e’ stato così chiuso”, ha detto in un comunicato Irina Gudeljevic, portavoce di Eulex. Il portavoce dell’Ico Andy McGuffie ha detto da parte sua che Feith e’ rimasto molto sorpreso alla notizia della presunta inchiesta a suo carico, chiedendo subito spiegazioni a Eulex e alla giustizia kosovara.

Sembra di assistere alla stesso copione del passato, cioè alla rapidità con la quale Carla Del Ponte e i suoi collaboratori al Tribunale dell’Aja assolvevano i piloti della NATO incriminati per i bombardamenti sulla Serbia senza nemmeno guardare le prove a loro carico. Che in questo momento Eulex non possa permettersi anche lo scandalo Feith, si deve probabilmente alle nuove accuse elevate proprio dalla missione europea in Kosovo nell’ambito dell’inchiesta sulla vicenda del traffico di organi. Come ha annunciato a Pristina il portavoce di Eulex, Blerim Krasniqi, destinatari delle accuse sono un cittadino turco e uno israeliano, che sarebbero implicati direttamente nei traffici illeciti di organi. Nel marzo scorso Eulex aveva già messo sotto accusa altre quattro persone, tutti cittadini kosovari. In tutto sono ora nove le persone chiamate a rispondere in tale inchiesta, sette dei quali sono albanesi kosovari, mentre due il turco Yusuf Sonmez e l’israeliano Moshe Harel, sono accusati di tratta di esseri umani, criminalità organizzata e esercizio illegale della professione medica. I reati sarebbero stati commessi nel 2008 nella clinica ‘Medicus’ di Pristina, dove sarebbe stati effettuati trapianti illegali di organi ai danni di cittadini serbi e albanesi rapiti dall’UCK albanese. Yusuf Sonmez, che aveva esercitato alla clinica ‘Medicus’ e che e’ stato definito il ‘Frankenstein turco’ dai media kosovari, era stato arrestato e poi subito rilasciato in Turchia a metà gennaio.

Visto che purtroppo la pratica dell’espianto e del traffico di organi da parte di cittadini israeliani è già stata documentata in Palestina e non solo¹, sarebbe opportuno che il bravo relatore sui diritti umani del Consiglio di Europa, lo svizzero Dick Marty, fosse un po’ più esplicito sulla sparizione nel suo rapporto del ruolo avuto dalle compagnie private israeliane e dal Mossad nell’addestramento del “Gruppo di Drenica”², senza giustificarla “per un malinteso con il collaboratore (che ha mal interpretato una correzione manoscritta) che ha tradotto in inglese le note è sorta quella divergenza, poi corretta nella versione definitiva³.” Il coraggio di Marty, che fu censore anche dei metodi giudiziari della Del Ponte e dei voli della CIA in Europa è noto, tanto più che la Russia intende dare il suo appoggio all’iniziativa della Serbia per chiedere un’indagine indipendente sotto l’egida dell’Onu sul traffico di organi umani messo in atto in Kosovo alla fine degli anni novanta. Il rappresentante permanente russo alle Nazioni Unite, Vitali Ciurkin, citato dalla “Tanjug”, ritiene che Eulex, la missione europea in Kosovo, non sia in grado di condurre da sola un’inchiesta adeguata, per questo Mosca appoggerà la proposta serba per indagini sotto l’ombrello Onu. Le autorità di Belgrado hanno detto a più riprese che Eulex – che nei mesi scorsi ha annunciato l’avvio di una propria indagine sul traffico di organi – non ha poteri giurisdizionali al di fuori del territorio del Kosovo, e che per questo non può condurre un’indagine completa e esauriente, dal momento che il traffico di organi umani riguardò anche l’Albania. Ciurkin ha aggiunto che Mosca e’ per la prosecuzione della presenza internazionale in Kosovo, e ritiene che nessuna decisione potrà essere presa senza il consenso della Serbia.

Quest’ultima, però, si trova tra l’incudine e il martello.
La delegazione del Parlamento tedesco in visita in questi giorni a Belgrado è stata molto chiara sulle sue aspirazioni europee: se vuole aderire all’UE, la Serbia deve riconoscere il Kosovo e aderire alla NATO, viste “le strette relazioni esistenti” tra l’Alleanza Atlantica e l’Unione Europea, in caso contrario la Germania ne bloccherà il processo di avvicinamento all’Europa.
La vendita di Ratko Mladic al Tribunale dell’Aja, evidentemente, non è sufficiente.

 

* Stefano Vernole è redattore di “Eurasia”, è coautore di “La lotta per il Kosovo”, All’Insegna Del veltro, Parma, 2007 e autore di “La questione serba e la crisi del Kosovo”, Noctua, Molfetta, 2008.

 

Note

  1. http://www.guardian.co.uk/world/2010/dec/17/kosovo-organ-donor-ring-israel
  2. http://www.eurasia-rivista.org/kosovo-il-rapporto-marty-e-stato-censurato-da-israele/7839/
  3. Mia corrispondenza per posta elettronica con Dick Marty.

 
 

Miliardi, intrallazzi e potere: è questa la webdemocrazia

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Fonte: “Il Secolo d’Italia

 

Gli originali si affidano a Viadeo, ASmallWorld, Ciprock, Formspring. I nostalgici si tengono Badoo, Netlog o, se sono di bocca buona, MySpace. I professionisti usano solo LinkedIn. Tutti gli altri, semplicemente, usano Facebook e Twitter. È la galassia dei social network, colonna portante di quel “sesto potere” incarnato da internet in tutte le sue ramificazioni. 

“Società aperta” o “case chiuse”?
Per alcuni si tratta dell’incarnazione della popperiana “società aperta”. Per altri di uno strumento rivoluzionario contro gli ultimi dispotismi. La realtà è più prosaica. Anche chi, qualche mese fa, ha proposto di assegnare il Nobel per la pace al web, del resto, sembra non aver fatto i conti con la realtà. Il 12% (24.644.172) di tutti i siti web, infatti, è dedicato alla pornografia, così come il 35% di tutti i download effettuati da Internet, l’8% delle email (2,5 miliardi) e il 25% delle ricerche su un motore di ricerca. Ma anche al netto delle webdonnine allegre, resta da chiedersi perché internet dovrebbe essere interpretato come mezzo di diffusione della pace più di quanto non lo sia rispetto all’odio, alla guerra, al pregiudizio, visto che la stessa Al Qaeda non sembra digiuna di competenze informatiche.

I conti in tasca al web
Ma dicevamo dei social network. Loro sì, ci assicurano, sono vere palestre di democrazia. Eppure i professionisti dell’antiberlusconismo, in questi anni, ci hanno insegnato che democrazia e grandi concentrazioni di capitali, soprattutto da parte di chi si occupa di comunicazione, non vanno proprio d’accordo. I social network, tuttavia, non sono certe organizzazioni caritatevoli. Nel 2007 il fatturato della creazione di Mark Zuckerberg era stato stimato per 150 milioni di dollari. La cifra è raddoppiata nel 2008 (280-300 milioni) per duplicarsi ancora nel 2009 (600-700 milioni) e toccare 1,1 miliardi nel 2010. Quest’anno, invece, il social network supererà Yahoo come più grande venditore di pubblicità su internet negli Stati Uniti. Le entrate del portale, infatti, saliranno dell’80,9% a 2,19 miliardi di dollari, pari a una quota del 17,7% del mercato. Più staccato Twitter, che grazie alla pubblicità ha raccolto nel 2010 “solo” 50 milioni di dollari. In quest’anno, tuttavia, si prevede una crescita del 200% fino a quota 150 milioni di dollari, con proiezioni a 250 milioni di dollari per quel che riguarda il 2012. Sicuri che la nuova “società aperta” possa nascere da una simile macchina da soldi?

Chi è che ci guadagna?
Già: soldi, soldi, soldi. Nelle tasche di chi? Di Mark Elliott Zuckerberg, nel caso di Facebook. Nel 2008 Forbes lo ha nominato «il più giovane miliardario del mondo» (il ragazzo è nato nel 1984) grazie al suo patrimonio di 13,5 miliardi di dollari. La storia molto americana del self made man che ha sfondato grazie a una buona idea è già stata smontata dal film The social network, che ha mostrato una vicenda personale di avidità e sgomitate. Nel club degli investitori di Facebook, tuttavia, non figura ovviamente il solo Zuckerberg. Da qualche tempo, infatti, c’è anche Goldman Sachs, che ha messo sul piatto 450 milioni di dollari. Mica bruscolini. Da tempo, inoltre,Microsoft ha acquistato una quota dell’azienda pari all’1,6% del capitale per 240 milioni di dollari. E occhio ai russi: la Digital Sky Technologies, dell’oligarca Yuri Milner, detiene il 10% del pacchetto azionario di Facebook, ma ha le mani in pasta anche in Twitter e in Groupon. Milner, peraltro, è anche in affari con quel volpone di Mikhail Khodorkovsky, speculatore e già bestia nera di Vladimir Putin.

I social network e le rivolte arabe
Ok, si dirà. Dietro ci sono le solite cricche, ma la ratio dello strumento è indubbiamente “liberante” e antiautoritaria. Vedi le rivolte spontanee dei giovani del Maghreb, sollevatisi contro la tirannia anche grazie alla libera informazione della rete. E invece no. Pietro Longo e Daniele Scalea, nel loro Capire le rivolte arabe (Avatar, € 18,00, pp. 164), hanno ben mostrato che se i social network hanno avuto un peso scarso e quasi nullo nella mobilitazione di massa dei manifestanti (organizzata, anche se da noi non se n’è parlato, dai Fratelli musulmani), ciò non di meno hanno avuto qualche peso nella pianificazione a monte di una rivolta che tutto appare fuorché spontanea. Gli autori raccontano di come due sottosegretari del Dipartimento di Stato Usa, James K. Glassman e Jared Cohen, abbiano creato la Alliance of Youth Movements (Aym). Jared Cohen è oggi il direttore di “Google Ideas” e «al tempo dei disordini iraniani del 2009, quando ancora lavorava per il governo, fu lui – come rivelato dal New York Times – a contattare Jack Dorsey, fondatore di Twitter, per convincerlo a rimandare una manutenzione programmata e lasciare così quello strumento di coordinamento a disposizione dei manifestanti anti-Ahmadinejad. Jared Cohen ha confessato a Foreign Affairs di essersi trovato in Egitto durante le agitazioni che hanno portato alla deposizione del presidente Mubarak. Tra i co-fondatori dell’Aym, oltre a Cohen, ci sono anche Jason Liebman (ex dipendente di Google[...]) e Roman Tsunder di Access 360 Media [...]. A quella o alle successive riunioni dell’Aym hanno partecipato anche Dustin Moskowitz (co-fondatore di Facebook), Scott Heiferman (dirigente di MeetUp.com) e il già citato Jack Dorsey (fondatore di Twitter)». Ma in fondo era per una buona causa. O forse voi pensate male?

Bombardamenti umanitari? Gli obiettivi geostrategici della guerra in Libia

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Sabato 25 giugno 2011 alle ore 15.30 si è tenuta a Milano, presso il Centro Culturale San Fedele di Piazza San Fedele 4, la conferenza “Bombardamenti umanitari? Gli obiettivi geostrategici dietro la guerra in Libia”.

Sono intervenuti come relatori: Aldo Braccio (redattore di “Eurasia”), Maurizio Cabona (giornalista e saggista), Roberto Giardina (redattore del “Quotidiano Nazionale”), Luca Tadolini (difensore di Nuri Ahusain) e Joe Fallisi (testimone oculare dello scoppio della guerra in Libia).

L’organizzazione è stata a cura dell’Istituto di Alti in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG). L’evento rientra nel Ciclo 2010-2011 dei Seminari di Eurasia.

Guarda il video integrale della conferenza

 



Congreso Europeo de Solidaridad con el Pueblo de Bahrein

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Tiberio Graziani, presidente dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) e direttore di “Eurasia”, è stato invitato ed ha preso parte al Congreso Europeo de Solidaridad con el Pueblo de Bahrein, svoltosi a Madrid il 25 e 26 giugno 2011, presso l’Hotel Jardin Metropolitano di Avenida Reina Victoria, 12.L’evento è stato organizzato da Junta Islàmica de la Comunidad de Madrid, “Por la Paz Ahora”, Asociaciòn Ahlul Bait e Comité de Solidaridad con Bahrein, in collaborazione con Federaciòn Musulmana de Espana, UMME, Cambio e Plataforma “Mujeres Artistàs”.

T. Graziani ha preso parte alla sessione domenicale, dal titolo “Occidente y la crisis de Bahrein“, moderata da Manuel Dominguez Moreno (presidente del Gruppo EIG Multimedia, direttore della rivista “Cambio 16″). In questa stessa sessione sono intervenuti come relatori anche Waseem Alkhateeb (direttore di “Alhalbait.nl”), Teresa Aranguren (giornalista esperta di Medio Oriente), Anna Stamou (direttrice delle pubbliche relazioni dell’Associazione Musulmana di Grecia), Juan José Véliz (direttore di “Islamisktforum.se”) e Emilio González Ferrín (arabista, professore presso l’Università di Sevilla).

 




Il capitale strategico del Pakistan

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La caduta del bipolarismo coincisa con il collasso dell’Unione Sovietica ha sortito numerosi effetti collaterali che sono andati a scompaginare i rigidi rapporti di forza rimasti piuttosto stabili per l’intera durata della Guerra Fredda. Un paese come la Somalia – situato in una posizione strategicamente cruciale che garantiva il controllo dei flussi commerciali tra Europa, Africa e Asia – si è visto ridimensionare drasticamente di valore il proprio capitale geopolitico, mentre i paesi nati direttamente dalla disgregazione del gigante sovietico stanziati in Asia centrale hanno acquisito un peso strategico tale da attirare le mire egemoniche di tutti i principali attori del complesso scenario internazionale.
Ciascuno degli attori in questione privilegia taluni aspetti specifici a discapito di altri per perseguire i propri obiettivi nella regione. La Russia si rivolge alle molte minoranze russofone presenti nelle nazioni dell’Asia centrale e vanta forti legami risalenti ai tempi dell’Unione Sovietica con le loro rispettive nomenklature; la Cina si trova da un lato a dover soddisfare l’esorbitante domanda interna di idrocarburi, di cui l’Asia centrale è ricchissima, dall’altro a dover sventare le spinte centrifughe e secessioniste dell’area musulmana e turcofona dello Xinjiang (o Turkestan orientale, come amano definirlo i turchi) abitata dall’etnia Uighur; la Turchia cerca di esercitare la propria influenza sull’area facendo leva, per l’appunto, sulla cultura turcofona che l’accomunava con molte popolazioni centroasiatiche mentre l’Iran, dal canto suo, mira ad assurgere a bastione regionale sciita rivolgendosi alle nutrite minoranze centroasiatiche professanti la medesima confessione e al ceppo etnico tajiko, che mantiene rapporti non troppo buoni con Ankara.
Vi sono poi due ulteriori paesi nevralgici interessati a inserirsi nel grande gioco centroasiatico, ovvero il Pakistan e l’India; il primo per imbastire trame diplomatiche che sfocino in intese commerciali e (soprattutto) militari con le ex repubbliche sovietiche, il secondo per realizzare il duplice obiettivo di placare le rivendicazioni della vasta componente interna musulmana relative alla questione del Kashmir e di contenere le spinte separatiste delle quattro regioni geopolitiche che Come Carpentier de Gourdon ritiene orientate, per ragioni etniche e politiche, verso l’esterno. Sia Pakistan che India sono accomunate dal fatto di aver acquisito prestigio e peso internazionale grazie all’estinzione del bipolarismo e alla pragmatica logica su cui si reggeva tale equilibrio. La presenza di due blocchi incommensurabilmente preminenti aveva ristretto gli spazi di manovra dei soggetti minori costringendoli a perseguire i propri obiettivi di politica estera allineandosi all’uno o all’altro polo dominante.
Tale logica si estese anche ai due paesi in questione, con il Pakistan che andò a rinfoltire i ranghi dall’asse atlantico mentre l’India non perse occasione per schierarsi al fianco dell’Unione Sovietica. L’invasione dell’Afghanistan effettuata dall’Armata Rossa nella fine del dicembre 1979 restituì fedelmente tale schema di alleanze. Allora gli Stati Uniti presieduti dal democratico Jimmy Carter si collocarono nel solco tracciato un decennio prima dal repubblicano Richard Nixon, il quale con la ratifica della Carta Cinese aveva posto una non secondaria condizione per la disfatta definitiva dell’Unione Sovietica inserendosi nella frattura URSS – Cina e sfruttando la terzietà di quest’ultima rispetto alla rigida logica bipolare della Guerra Fredda. Carter concesse carta bianca all’abile Consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski, il quale aveva progettato di rifornire di fondi e armamenti i centri di reclutamento e addestramento stanziati in Pakistan affinché mobilitassero un onda popolare di mujahiddin islamici in grado di rovesciare il governo centrale filosovietico di Kabul. La rivoluzione sortì l’effetto sperato a Washington e il governo di Kabul fu costretto a chiedere aiuto a Mosca, che rispose prontamente inviando truppe sovietiche in territorio afghano. I mujahiddin riuscirono a impantanare la potentissima macchina militare sovietica che un decennio dopo (febbraio 1989) fu costretta a ritrarsi. Gli Stati Uniti ottennero così un fondamentale successo nella lunga battaglia di logoramento dell’Unione Sovietica e tornarono prepotentemente alla ribalta nell’ambito della cruciale area centroasiatica dopo aver perso il controllo dell’Iran in seguito alla rivoluzione popolare che era culminata con l’ascesa al potere dell’Ayatollah Ruollah Khomeini.
La sconfitta dell’Unione Sovietica (1989) che fu preludio al disgregamento totale (1991) sortì però forti contraccolpi sulla posta strategica su cui poteva contare il Pakistan, in quanto caddero le condizioni di esistenza di un paese cuscinetto in grado di frenare l’espansione comunista sui paesi del Golfo e sulle rotte petrolifere arabe. Ad Islamabad non rimase quindi che esaltare la propria forte connotazione specificamente religiosa per brandire la spada dell’Islam sunnita in chiave antisciita (e quindi antiraniana) e (soprattutto) per cementare l’intera area musulmana contro la variegata e complessa nazione indiana. Il contenzioso legato al Kashmir si affrancò quindi dalla stretta dimensione bilaterale (Pakistan – India) per allargarsi a macchia d’olio coinvolgendo l’intera regione centroasiatica e sortendo quindi pesanti ripercussioni sull’intero universo musulmano.
La religione venne quindi piegata dal Pakistan in pura chiave panislamica, a specifici fini strumentali al fine di ovviare all’indiscutibile superiorità demografica ed economica indiana. Non è un caso che il Pakistan rimanga ancora oggi nell’occhio del ciclone per via della forte impronta fondamentalista della sua società, del suo esercito e dei suoi servizi segreti (ISI), la cui mano si è intravista tanto nella pianificazione (in combutta con gli Stati Uniti) della guerra civile afghana quanto in quella della guerra cvile tajika, oltre ad esser stata messa in relazione a talune diramazioni del terrorismo ceceno. I fatti dell’11 settembre 2001 sono stati anch’essi accostati a determinati ambienti del potere di Islamabad, accusati di esser storicamente legati a doppio filo alle frange integraliste dedite al terrorismo.
Si tratta di una realtà piuttosto nota, di cui l’oscura vicenda relativa all’assedio di Kunduz (novembre 2001) funge da esempio paradigmatico al riguardo. Allora le milizie dell’Alleanza del Nord affiancate da quelle statunitensi lasciarono che una nutrita congrega di talebani scappasse incolume verso il Pakistan dopo un lungo e durissimo assedio. Gli Stati Uniti cedettero così alle pressioni del presidente pakistano Pervez Musharraf che si trovava a sua volta a far fronte a una pericolosa situazione in cui buona parte del proprio stato maggiore e dei propri servizi segreti schierati (alcuni sotto traccia, altri apertamente) a fianco dei talebani erano sul punto di dar luogo a un putsch nei suoi confronti, che qualora fosse giunto in porto avrebbe inevitabilmente abbattuto la tradizionale, altissima soglia di ambiguità di Islamabad dirottando l’asse politico del Pakistan in chiara direzione filotalebana privando così gli Stati Uniti di un infido ma necessario alleato (pur sui generis) nell’area. I reiterati equilibrismi pakistani hanno però irritato (si pensi alla vicenda relativa alla presunta uccisione di Osama Bin Laden) l’attuale amministrazione statunitense retta dal presidente Barack Obama, fino al punto di portare il segretario (uscente) alla Difesa Robert Gates ad affermare apertamente che la guerra all’Afghanistan può esser vinta anche senza l’appoggio di Islamabad.
Tale inusuale affermazione pronunciata da un alto esponente del governo statunitense rispecchia, se debitamente contestualizzata, le forti tensioni che vigono e che hanno pian piano lacerato la travagliata alleanza USA – Pakistan, dovute per lo più al costante avvicinamento di Islamabad all’orbita cinese, della cui sicurezza dinnanzi alle non troppo velate minacce statunitensi il governo di Pechino si è fatto garante. Le tensioni andranno presumibilmente ad acuirsi gradualmente e il Pakistan si troverà a barcamenarsi nel mezzo del dualismo sino – statunitense.
Se saprà sfruttare efficacemente i (non pochi) fattori strategici di cui è titolare – legati alla posizione geografica in cui è stanziato e alla natura della propria società – gettandosi alle spalle i miopi tatticismi antindiani e promuovendo l’integrazione continentale da iscrivere in una strategia di ampio respiro trarrà enormi benefici dalla (non facile) situazione vigente. Se, di converso, perseguirà la solita politica orientata al perseguimento di obiettivi a corto raggio si troverà ben presto ad esser soffocata dalla proprompente potenza indiana, che troverà terreno fertile per rinsaldare i legami con Washington. Con esiti potenzialmente catastrofici in chiave economica e politica in tutta l’area centroasiatica.

Congresso Europeo di Solidarietà con il Popolo del Bahrein – Dichiarazione di Madrid

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Fonte: http://www.facebook.com/pages/Congreso-Europeo-de-Solidaridad-con-el-pueblo-de-Bahrein/174871059240499

http://solidaridadbahrein.blogspot.com/

http://solidaridadbahrein.blogspot.com/2011/06/ponencias-e-informacion-del-congreso.html

Dichiarazione di Madrid

Il Congresso Europeo di Solidarietà con il Popolo del Bahrein esprime la sua incondizionata solidarietà al popolo del Bahrein, vittima di una repressione selvaggia e costante da parte del suo stesso governo e di un’invasione di truppe straniere guidate dalle forze militari dell’Arabia Saudita.

La repressione contro il popolo del Bahrein è stata simboleggiata dalla distruzione del monumento situato in Piazza della Perla, epicentro delle manifestazioni in favore della libertà che hanno avuto luogo a Manamà e altri città a febbraio e marzo. Lo sgombero della piazza, ottenuto con l’uso di carri armati ed elicotteri, ha provocato la morte e il ferimento di centinaia di persone, tra cui donne, bambini e anziani, il cui unico crimine è stato chiedere libertà, democrazia e la fine delle torture e delle vessazioni che caratterizzano l’azione del regime della famiglia Al Jalifa in Bahrein.
Poco dopo, le truppe saudite e del Bahrein hanno circondato numerose località tagliando l’erogazione di energia elettrica e posizionando blocchi sulle vie di comunicazione per controllare la popolazione. A ciò si sono aggiunti i blitz negli ospedali, come quello di Suleimaniya, dove feriti, medici, infermiere e personale sanitario sono stati arrestati e torturati.
La sola colpa dei medici e del personale sanitario contro cui si è scatenata la repressione – che viola tutte le norme e regole etiche internazionali e che, pertanto, dovrebbe essere condannata a livello internazionale – è quella di aver fatto il loro dovere e assistito i feriti. Al contempo, la condanna abbattutasi sugli attivisti per la democrazia per il solo fatto di chiedere per il popolo del Bahrein gli stessi diritti contenuti nella Dichiarazione delle Nazioni Unite e nelle altre convenzioni internazionali rappresenta un altro affronto inaccettabile per il diritto e la decenza internazionali.
Il Congresso vuole sottolineare in particolare il ruolo eroico svolto dalle donne nella lotta per la libertà in Bahrein e mostra la sua solidarietà verso tutte quelle detenute, inclusa Ayat al Qarmezi, ed esige l’immediata scarcerazione di tutte loro.
A ragione di ciò, il Congresso chiede:
- l’immediata liberazione di tutti i prigionieri politici del Bahrein.
- l’immediata messa in pratica delle riforme politiche chieste dal popolo del Bahrein, che garantiscano le libertà e i diritti per tutti i cittadini, incluso quello di eleggere democraticamente la forma di governo, secondo le norme internazionali.
- il ritiro delle truppe d’occupazione saudite e degli altri paesi del Golfo e la cessazione di ongi ingerenza di questi paesi negli affari interni del Bahrein.
- la fine delle torture, violenze sessuali e altri maltrattamenti compiuti dalle forze di sicurezza del Bahrein.

- il processo per crimini di guerra e contro l’umanità presso un tribunale internazionale nei confronti del sovrano del Bahrein, Hamad bin Isa al-Khalifa, e di tutti i membri della sua corte e del suo governo che sono colpevoli di tali fatti, e del re dell’Arabia Saudita, Abdula bin Abdul Aziz, e di tutti i membri della sua corte e del suo governo che, a ogni livello decisionale, abbiano preso parte all’invasione del Bahrein. Allo stesso tempo, è necessario processare tutti i militari e i membri delle forze di sicurezza del Bahrein e saudite colpevoli di crimini contro il popolo del Bahrein.

Il Congresso esprime inoltre la sua solidarietà verso tutte le dimostrazioni di sostegno al popolo del Bahrein che hanno luogo in diversi paesi, in particolare verso quelle manifestazioni nate nelle città saudite in favore del popolo del Bahrein e a sostegno della democrazia e della libertà nella stessa Arabia Saudita.

Madrid, 26 giugno 2011

(trad. di F. S. Angiò)

Il ruolo del Consiglio di Cooperazione del Golfo nel panorama del Vicino Oriente

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E’ di pochi giorni la notizia di un invito formale da parte del Gulf Cooperation Council (GCC) nei confronti di Marocco e Giordania ad aderire all’organizzazione regionale che raggruppa i Paesi dell’area del Golfo. La proposta di allargamento ai due Paesi, anch’essi monarchici e sunniti, potrebbe ampliare gli obiettivi non solo ad un semplice contenimento iraniano nell’area – che verrebbe rafforzato grazie alla presenza delle due monarchie tendenzialmente conservatrici degli Hashemiti di Giordania e degli Alawiti di Marocco – ma anche all’intenzione di arginare le proteste di questi mesi nella regione MENA (Middle East and North Africa), attraverso, cioè, una sorta di alleanza stabile tra le monarchie arabe. Questa iniziativa guidata da ragioni di carattere politico, economico e sociale, potrebbe comportare vantaggi reciproci: da un lato, le economie di Giordania e Marocco – tra le più povere dell’intera area MENA, secondo gli indicatori del FMI e della Banca Mondiale – potrebbero giovarsene in quanto anche altre economie non petrolifere, come il Bahrain, hanno potuto usufruire del sostegno fiscale e finanziario degli Stati membri; dall’altro lato, l’organizzazione, allargando la sua membership potrebbe meglio affrontare le ondate rivoluzionarie nell’area. Come riportato dal canale satellitare qatariota al-Jazeera, il GCC raggiungerebbe un duplice scopo: per paura di una possibile estensione delle rivolte nell’area del Golfo si garantirebbe la protezione dalle minacce provenienti dall’interno e, contemporaneamente, terrebbe alta l’attenzione contro eventuali mosse iraniane.

Origini ed evoluzione del Consiglio di Cooperazione del Golfo

L’organismo, creato nel 1981 sotto la duplice pressione statunitense e saudita, aveva come obiettivo immediato quello di proteggere la regione del Golfo dal pericolo rappresentato dalla guerra Iran-Iraq e dai possibili riflessi della rivoluzione khomeinista negli altri Paesi. Il GCC è attualmente composto da sei Stati (Kuwait, Qatar, Bahrain, Oman, Emirati Arabi Uniti e la stessa Arabia Saudita), monarchie sunnite legate da vincoli religiosi o familiari ai Saud. Il GCC ha sviluppato fin dalla sua nascita compiti essenzialmente economici e sociali, lasciando in secondo piano le questioni politiche, raramente affrontate nel consesso e lasciate alla sfera di autonomia degli Stati membri. L’organizzazione ha per scopo, dunque, l’instaurazione nel Golfo di un Mercato Comune sul modello europeo – ufficialmente raggiunto il 1 gennaio 2008 – come prima tappa di una moneta unica (Khaliji) che sarebbe dovuta essere stata adottata nel 2010 da tutti i membri. Negli anni il GCC è riuscito a lanciare un sistema di libero mercato che si prefiggeva la stabilità e l’unificazione politico-economica degli Stati firmatari l’accordo di Riyadh del 1981. Negli ultimi anni, però, il graduale aumento dell’influenza regionale dell’Iran e la comune percezione della minaccia sciita hanno spinto i membri del GCC a potenziare la cooperazione militare dell’organizzazione. Già dal 1984, l’organizzazione ha iniziato ad istituire una gruppo inter-force di difesa comune, chiamato “Peninsula Shield”. Pur iniziando a modificare i suoi obiettivi originari da cooperazione economica a politico-militare, in realtà, i Paesi del CCG sono sempre rimasti dipendenti dalle garanzie di sicurezza e dai finanziamenti degli Stati Uniti, come è avvenuto durante la guerra del Golfo (1990-1991), in cui un suo membro (l’Arabia Saudita), pur tra le diffidenze degli altri, concesse le sue basi per le azioni militari. Proprio gli Stati Uniti ne hanno incoraggiato l’evoluzione, auspicando, come recentemente affermato dal Generale David Petraeus, neo-direttore della CIA, la creazione di una forza militare integrata fra i Paesi membri. Infatti, dal punto di vista della stabilità interna, l’organizzazione agisce seguendo l’art. 1 della propria Carta (una sorta di art. 5 della Carta Atlantica): l’aggressione contro un qualsiasi membro è considerata un’aggressione contro gli altri. Proprio per questo motivo, in occasione delle rivolte in Bahrain, Riyadh ha inviato a Manama le sue truppe, dietro avallo del GCC, a cui si è unito anche il contingente kuwaitiano ed emiratino, consentendo alla monarchia sunnita degli al-Khalifa di continuare a mantenere il potere.

Attivismo politico del GCC

Dopo l’azione in Bahrain, l’organizzazione ha incrementato il suo prestigio e il suo attivismo, adoperandosi, dapprima, nel sostenere la campagna militare della NATO in Libia, e successivamente, proponendosi come intermediario nella difficile transizione yemenita – pur non essendo lo Yemen membro di tale organizzazione regionale. La decisione di intervenire in Yemen è dovuta al fatto che il Paese è confinante con Arabia Saudita e Oman, paesi geo-strategicamente importanti, e la sua instabilità potrebbe essere un detonatore per altre rivolte nell’area e per una diffusione di cellule terroristiche in territorio saudita.

Cosa comporta l’allargamento del GCC a Giordania e Marocco? Innanzitutto, questi due Paesi non si affacciano sul Golfo e culturalmente sono molto lontani dal tradizionalismo autoritario delle monarchie dell’area. In secondo luogo, a differenza proprio delle monarchie del Golfo, Amman e Rabat sono viste nel mondo come delle case regnanti tendenzialmente propense a concedere riforme che, però, non debbano costituire un pericolo per il potere centrale. Infine, le rivolte nell’area Golfo sono state avvertite da tutti i governi della regione come una minaccia, soprattutto, alla loro struttura economica e al ruolo centrale che il GCC ha raggiunto nella politica estera, anche a discapito della Lega Araba. Infatti, la scelta di non intervenire in Yemen e in Bahrain lasciando carta bianca al Consiglio di Cooperazione del Golfo, il silenzio sulla rivolta siriana e l’ambiguità sulla situazione in Libia hanno mostrato l’ascesa regolare e l’accresciuto potere politico del GCC nei confronti del più importante consesso del mondo arabo. Quel che preoccupa il GCC è che l’effetto domino della “Primavera Araba” potrebbe minare il flusso di investimenti stranieri nella regione e incrinare i rapporti con l’Occidente, e in particolar modo, con il solido alleato statunitense. Sembrerebbe emergere, pertanto, con maggior vigore, l’intento di arginare i crescenti movimenti di protesta all’interno e di contenere l’attivismo regionale iraniano attraverso un allargamento del “fronte delle alleanze”.

Ad ogni modo, l’eventuale allargamento a Giordania e Marocco non sarebbe stato condiviso da tutta l’organizzazione e Kuwait, Oman e Qatar avrebbero espresso riserve, suggerendo tutt’al più una “partnership privilegiata” e non una piena adesione. E’ emerso in modo evidente che le logiche che stanno guidando le recenti azioni del GCC sono dettate dagli interessi geopolitici e geostrategici dell’Arabia Saudita: infatti, da un lato si è evidenziata la necessità di fronteggiare il nemico storico, l’Iran e, in quest’ottica, la Lega Araba, sembra non riuscire a contenere le schermaglie interne; dall’altro lato c’è l’interesse a perpetuare la propria egemonia e, pertanto, le proteste di questi mesi risultano un pericolo molto grande alle economie petrolifere dei Paesi in questione.

La questione iraniana

Il pericolo iraniano, reale o percepito, viene vissuto dai Paesi del Golfo con notevole apprensione. I segnali di riavvicinamento tra Egitto e Iran – dopo 32 anni di rottura delle relazioni diplomatiche – le rivolte nelle regioni con una importante popolazione di religione sciita nell’area Golfo – in Bahrain, in Yemen e nel Qatif, il più ricco bacino petrolifero nell’area orientale dell’Arabia Saudita – e la fragile stabilità dell’Iraq – il governo del premier Nuri al-Maliki dipende pesantemente dall’appoggio dello sciita Moqtada al-Sadr (che controlla circa 40 seggi in Parlamento) – sono segnali di quanto la situazione possa giocare a favore di Teheran. I timori dell’organizzazione sono coincidenti con quelli della casa dei Saud. Per sedare sul nascere le vibranti proteste nel Paese, Re Abdallah bin Abdul Aziz ha annunciato un piano di 36 miliardi di dollari statunitensi per rilanciare l’economia nazionale e ha spedito nel Qatif ben 10.000 militari per tenere sotto controllo eventuali rivolte a carattere sciita. Infatti, l’Arabia Saudita, come già dimostrato in Bahrain, non ha alcun interesse ad un contagio rivoluzionario e, allo stesso tempo, non può permettersi neppure l’esplosione di un conflitto incontrollato vicino ai suoi confini, come potrebbe avvenire in Yemen.

Il ruolo statunitense

Gli Stati Uniti, storico partner politico e commerciale di tutti i Paesi del GCC, sono rimasti spiazzati da questa iniziativa. L’Arabia Saudita, infatti, non godrebbe più dei rapporti privilegiati con l’alleato statunitense e avrebbe mostrato insofferenza nei suoi confronti in virtù delle critiche dell’amministrazione Obama sull’intervento saudita in Bahrain e sullo scarso rispetto dei diritti umani nel Paese. Tale disappunto è stato manifestato da Riyadh attraverso una nota congiunta a nome del GCC. Pur non mettendo in dubbio i rispettivi interessi strategici, l’Arabia Saudita avrebbe minacciato, insieme agli altri Paesi del GCC, di non esser più disposta a fronteggiare le esigenze politiche di Washington nella regione, con particolare riguardo alle questioni relative all’Iran e alla pace nel Vicino Oriente. Pertanto, la Casa Bianca vedrebbe nella proposta di allargamento del GCC un tentativo saudita di trascinare due Paesi sostanzialmente moderati come Giordania e Marocco nella sua sfera di influenza. Inoltre, l’attuale amministrazione statunitense sembrerebbe voler smarcare la propria immagine nella regione dall’atteggiamento interventista dell’era Bush. Come puntualizzato in un intervento del Professore Fish ad al-Jazeera: «Obama non vuole essere visto come un bullo o come un predicatore ipocrita, a questo proposito egli intende differenziarsi chiaramente da Bush. Le rivolte stanno dimostrando i limiti del potere finanziario saudita di influenzare gli eventi in una regione la cui popolazione è stufa di tirannia». E le ire saudite possono spiegarsi alla luce del precedente egiziano. Obama dapprima ha sostenuto il Presidente Mubarak, ma quando la sua popolazione ha deciso che fosse giunto il momento di cambiare, l’intera amministrazione statunitense ha appoggiato le masse popolari egiziane. Il timore saudita risiede proprio in questo episodio: pur essendoci legami economico-politico-finanziari importantissimi, i sauditi non son più sicuri dell’appoggio incondizionato alle loro iniziative in patria e nella regione. Pertanto, la frattura esistente tra Arabia Saudita e Stati Uniti potrebbe approfondirsi. Ad ogni modo, proprio la sussistenza di timori condivisi farebbe pensare che, nonostante le attuali divergenze politiche, gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita e i Paesi del GCC troveranno un accordo per mantenere gli stretti rapporti militari e consolidare i propri legami strategici. Tuttavia, questa situazione potrebbe cambiare in futuro.

Prospettive e conclusioni

Un GCC così rivitalizzato sta modificando strategie e alleanze, mettendo alla prova il tradizionale ruolo degli USA come unico garante della stabilità del Golfo. In maniera sempre più chiara, la regione si trova di fronte non solo a sconvolgimenti interni, ma ad una potenziale “rivoluzione” nella sua stessa architettura di sicurezza. Difatti, si assiste ad una svolta nel “nuovo” GCC, in virtù del fatto che l’organizzazione del Golfo ha dismesso i panni di un sistema di cooperazione economica evolvendosi in un patto di tipo militare-strategico sullo stile del vetusto Patto di Baghdad (1955). Sembra evidente la mancanza di linee politiche chiare,tuttavia, ci si chiede, ad esempio, come la Giordania o il Marocco potranno adattarsi al modello di integrazione economica del GCC, viste le specifiche condizioni di partenza. D’altra parte, l’allargamento a Marocco e Giordania potrebbe intensificare le linee di conflitto regionale sia tra “rivoluzione e controrivoluzione”, sia tra sunniti e sciiti, mentre gli sforzi riformisti potrebbero cadere nel dimenticatoio. Infine, il nuovo GCC, e in particolare il ruolo dell’Arabia Saudita, potrebbe risultare in netto contrasto con gli Stati Uniti in merito al futuro delle riforme arabe e alle priorità statunitensi nell’area. Come sottolineato dagli stessi sauditi, le relazioni tra GCC e Stati Uniti potrebbero cambiare a causa di divergenze politiche e di interessi forti che coinvolgono entrambe le parti. Al momento attuale, le relazioni strategiche tra il GCC e gli Stati Uniti sembrano comunque stabili, ma l’emergere di nuove realtà o minacce, nel breve o medio periodo, potrebbero condurre all’incrinarsi di questo patto strategico. Washington, nel relazionarsi ad un nuovo scenario modificato a livello regionale – e quindi internazionale – potrebbe legarsi di volta in volta ad alleati ritenuti affidabili solo a seconda delle proprie esigenze politiche, relazioni che, si potrebbe prefigurare, non vadano oltre gli intervalli di quattro anni, proprio come gli anni di durata di un mandato presidenziale negli Stati Uniti.

* Giuseppe Dentice, Dottore in Scienze Internazionali e Diplomatiche (Università di Siena)

 

Guerre umanitarie: la pulizia etnica dei Libici Neri

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Fonte: “Megachip

 

Editoriale di Black Star News

I “ribelli” a Misurata in Libia hanno cacciato l’intera popolazione nera della città, secondo un racconto agghiacciante di «The Wall Street Journal» con il titolo “Città libica lacerata da faida tribale”. I “ribelli” ora si trovano in vista della città di Tawergha, a 40 km di distanza, e giurano di ripulirla da tutte le persone di colore, una volta che si impadroniscano della città. Non è questa la perfetta definizione del termine “genocidio”? Secondo l’articolo del «Wall Street Journal», i “ribelli” si riferiscono a se stessi come «la brigata per l’eliminazione degli schiavi, pelle nera». Il giornale cita un comandante ribelle, Ibrahim al-Halbous, all’atto di dichiarare sui libici neri che «dovrebbero fare le valigie,» e che «Tawergha non esiste più, solo Misurata».

Non leggerete un articolo di questo tipo nel «New York Times», che è diventato giornalisticamente corrotto e compromesso come la vecchia «Pravda» dell’era sovietica. Questa rubrica ha insistito fin dall’inizio del conflitto di Libia sul fatto che i “ribelli” hanno abbracciato il razzismo e usato l’accusa che Muammar Gheddafi avesse impiegato mercenari provenienti da altri paesi africani come un pretesto per massacrare i libici neri.

Le prove di pubblico linciaggio di persone di colore sono disponibili online attraverso semplici ricerche di Google o YouTube, anche se il «New York Times» ha completamente ignorato questa storia cruciale. Qualcuno ritiene che se gente di origine africana controllasse gli editoriali del «New York Times» o addirittura le pagine delle notizie una storia così grande e negativa sarebbe stata ignorata?

Se il caso fosse capovolto e i libici neri stessero commettendo pulizia etnica contro i libici non di colore, qualcuno crede che le persone che ora controllano gli editoriali o le pagine di news al «New York Times» ignorerebbero una storia del genere? Evidentemente, non è motivo di fastidio per i guru del «Times» il fatto che i libici neri siano presi specificamente di mira in funzione di una loro liquidazione per via del colore della loro pelle.

Invece il «New York Times» ha altro da fare, come in un recente editoriale che vantava il suo sostegno alla campagna di bombardamenti della NATO, che solo in questa settimana a quanto si riferisce ha ucciso 20 civili. Il «Times» ha anche ignorato l’appello del parlamentare Dennis Kucinich affinché la Corte penale internazionale (CPI) indaghi i comandanti della NATO su possibili crimini di guerra in relazione ai civili libici uccisi.

Il «Times» non può scrivere sulla pulizia etnica dei libici neri e dei migranti da altri paesi africani in quanto diminuirebbe la reputazione dei “ribelli” che il giornale ha pienamente preso sotto le sue amorevoli cure, perfino dopo che la Corte penale internazionale ha pure riferito che anche loro hanno commesso crimini di guerra. Invece, il «Times» si trova a suo agio con la narrazione semplicistica: «Gheddafi cattivo», e «ribelli buoni», a prescindere addirittura dal fatto che il «Wall Street Journal» ha anche riferito che i ribelli sono stati addestrati da ex leader di al-Qa‘ida che erano stati affrancati dalla detenzione statunitense nella Baia di Guantanamo.

Il «New York Times» ha anche del tutto ignorato il piano di pace dell’Unione Africana (UA), che fa appello essenzialmente a un cessate il fuoco, per dei negoziati finalizzati a una costituzione, ed elezioni democratiche, il tutto da far monitorare alla comunità internazionale.

Quindi, cosa possiamo dire del «New York Times» per il fatto di aver ignorato la pulizia etnica dei libici neri da parte dei “ribelli” di Misurata, con l’aiuto della NATO? Questo rende per caso «The New York Times» colpevole della pulizia etnica, in quanto il giornale non solo ignora deliberatamente la storia, ma altresì dipinge falsamente i “ribelli” come salvatori della Libia?

Telefonate al «New York Times» al (212) 556-1234 e domandate del redattore degli Esteri per chiedergli perché il suo giornale non stia riferendo nulla della pulizia etnica dei libici neri.

 

“Dire la verità per dar forza”.

 

Fonte: http://www.blackstarnews.com/news/135/ARTICLE/7478/2011-06-21.html.

Traduzione per Megachip a cura di Pino Cabras e Melania Turudda.

Al-Qaida e la ribellione libica

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Fonte: “National Review

 

Un nuovo rapporto di due think tank francesi conclude che i jihadisti hanno giocato un ruolo predominante nella ribellione della Libia orientale contro il governo di Muammar Gheddafi, e che i “veri democratici” rappresentano solo una minoranza della ribellione. Il rapporto, inoltre, mette in discussione le giustificazioni addotte per l’intervento militare occidentale in Libia, sostenendo che essi sono in gran parte basati su esagerazioni dei media e su “una sfacciata disinformazione.”  

Gli sponsor del rapporto sono il Centro Internazionale di Ricerca e Studio sul Terrorismo e di Aiuto alle Vittime del Terrorismo (CIRET-AVT) e il Centro francese per la ricerca sull’Intelligence (CF2R) di Parigi. Le organizzazioni hanno inviato una missione di sei esperti in Libia per valutare la situazione e consultarsi con i rappresentanti di entrambi i lati del conflitto. Dal 31 marzo al 6 aprile, la missione ha visitato la capitale libica Tripoli e la regione della Tripolitania, dal 19 aprile al 25 aprile ha visitato la capitale dei ribelli Bengasi e la regione circostante della Cirenaica, nella parte orientale della Libia.

Il rapporto individua quattro fazioni tra i membri del Consiglio nazionale di transizione (NTC) libico orientale. A parte una minoranza di “veri democratici“, le altre tre fazioni comprendono partigiani della restaurazione della monarchia, che fu rovesciata da Gheddafi nel 1969, estremisti islamici che cercano di creare uno stato islamico, ed ex dignitari del regime di Gheddafi che hanno disertato presso i ribelli, per ragioni opportunistiche o altre. Vi è una chiara sovrapposizione tra gli islamisti e i monarchici, nella misura in cui il deposto re Idris I stesso era il capo della fratellanza Senussi, che gli autori descrivono come una “setta musulmana anti-occidentale che pratica una forma austera e conservatrice dell’Islam.” I monarchici sono quindi, più precisamente, “monarco-fondamentalisti”.

Il più noto dei disertori, il presidente del CNT, Mustafa Abdul Jalil, è anche descritto dagli autori come un “tradizionalista” che è “sostenuto dagli islamisti.” Gli autori sottolineano che Jalil ha svolto un ruolo importante nel “affare delle infermiere bulgare“, così chiamato per le cinque infermiere bulgare che, insieme a un medico palestinese, sono stati accusati di aver volontariamente infettato centinaia di bambini affetti da AIDS, in un ospedale di Bengasi. Come presidente della Corte d’Appello a Tripoli, per due volte Jalil ha confermato la pena di morte per le infermiere. Nel 2007, le infermiere e il medico palestinese sono stati rilasciati dal governo libico, a seguito dei negoziati in cui l’allora moglie del presidente francese Nicolas Sarkozy, Cecilia, ha giocato un ruolo molto pubblicizzato.

Il rapporto descrive i membri del Gruppo combattente islamico libico, affiliato ad al-Qaida, come “il pilastro principale dell’insurrezione armata.” “Così, la coalizione militare sotto la guida della NATO, sta sostenendo una ribellione che comprende terroristi islamici,” scrivono gli autori. Alludendo al ruolo di primo piano svolto dalla regione Cirenaica nella fornitura di reclute ad al-Qaida in Iraq, aggiungono, “Nessuno può negare che i ribelli libici, che sono oggi sostenuti da Washington, ieri erano solo dei jihadisti che uccidevano soldati statunitensi in Iraq“.

La composizione completa del CNT non è stata resa pubblica. Ma, secondo gli autori, un dichiarato reclutatore di al-Qaida, Abdul-Hakim al-Hasadi, è egli stesso un membro del CNT. (Su al-Hasadi, vedasi il mio report del 25 marzo (http://pajamasmedia.com/blog/rebel-commander-in-libya-fought-against-u-s-in-afghanistan/).) Al-Hasadi è descritto dagli autori come “il leader dei ribelli libici.” Anche se i media occidentali, comunemente dicono che lui si occupa della difesa della sua città natale, Derna, nella parte orientale della Libia, il rapporto CIRET-CF2R indica che a metà aprile, al-Hasadi lasciò la Cirenaica per via marittima, per partecipare alla battaglia di Misurata. Si suppone che ha preso le armi assieme a 25 “combattenti ben addestrati“. Misurata è nella Libia occidentale, a soli 135 miglia da Tripoli.

Per quanto riguarda gli effetti di un intervento militare occidentale a sostegno dei ribelli, gli autori concludono:

L’intervento occidentale è in procinto di creare più problemi di quanti ne risolva. Una cosa è forzare Gheddafi a lasciare. E un’altra cosa è diffondere il caos e la distruzione in Libia, a tal fine preparare il terreno per l’Islam fondamentalista. La mossa attuale rischierebbe di destabilizzare tutto il Nord Africa, il Sahel e il Medio Oriente, favorendo l’emergere di una nuova base regionale per l’Islam radicale e il terrorismo.

Quelle che seguono sono alcune evidenze ulteriormente tradotte dal rapporto CIRET-CF2R. Il rapporto completo è disponibile in francese qui (http://www.cf2r.org/images/stories/news/201106/rapport-libye.pdf).

 

Sulla battaglia di Misurata:

A poco a poco, la città sta cominciando ad apparire come una versione libica di Sarajevo agli occhi del mondo “libero”. I ribelli di Bengasi sperano che una crisi umanitaria a Misurata convincerà la coalizione occidentale a dispiegare truppe di terra per salvare la popolazione. … Nel corso del mese di aprile, l’organizzazione non governativa Human Rights Watch ha pubblicato le cifre delle vittime relative a Misurata che rivelano che, contrariamente a quanto sostenuto dai media internazionali, le forze lealiste di Gheddafi non hanno massacrato gli abitanti della città. Nel corso di due mesi di ostilità, solo 257 persone – tra cui combattenti – sono state uccise. Tra i 949 feriti, solo 22 – meno del 3 per cento – erano donne. Se le forze del regime avevano deliberatamente preso di mira i civili, le donne hanno rappresentato circa la metà delle vittime. E’ dunque ormai evidente che i leader occidentali – in primis, il presidente Obama – hanno grossolanamente esagerato il rischio umanitario, al fine di giustificare la loro azione militare in Libia. Il vero interesse di Misurata risiede altrove. … Il controllo di questo porto, a soli 220 chilometri da Tripoli, fornirebbe una base ideale per lanciare un offensiva terrestre contro Gheddafi.

 

Su Bengasi e la Regione Cirenaica:

Bengasi è ben conosciuta come un focolaio di estremismo religioso. La regione Cirenaica ha una lunga tradizione islamica che risale alla fratellanza Senussi. Il fondamentalismo religioso è molto più evidente qui che nella parte occidentale del paese. Le donne sono completamente velate dalla testa ai piedi. Non possono guidare veicoli e la loro vita sociale è ridotta al minimo. Gli uomini con la barba predominano. Spesso hanno la macchia nera della piétas sulla fronte [il "zebibah", che si forma con la ripetuta prostrazione durante le preghiere musulmane].

Si tratta di un fatto poco noto che Bengasi sia diventata, negli ultimi 15 anni, l’epicentro delle migrazioni africane verso l’Europa. Questo traffico di esseri umani è stato trasformato in una vera e propria industria, generando miliardi di dollari. Strutture mafiose parallele si sono sviluppate in città, dove il traffico è saldamente impiantato e impiega migliaia di persone, mentre corrompe poliziotti e funzionari pubblici. E’ stato solo un anno fa che il governo libico, con l’aiuto dell’Italia, è riuscito a portare questo tumore sotto controllo.

Dopo la scomparsa della sua principale fonte di entrate e l’arresto di numerosi suoi capi, la mafia locale ha preso il comando finanziando e sostenendo la ribellione libica. Numerose bande e membri della malavita della città sono noti per avere condotto spedizioni punitive contro i lavoratori migranti africani, a Bengasi e nella zona circostante. Dall’inizio della ribellione, diverse centinaia di lavoratori migranti – sudanesi, somali, etiopi ed eritrei – sono stati derubati e uccisi dalle milizie ribelli. Questo fatto è stato accuratamente nascosto dai media internazionali.

 

Sui “mercenari” africani e i tuareg:

Uno dei più grandi successi [della politica africana di Gheddafi] è stata la sua “alleanza” con i tuareg [una popolazione tradizionalmente nomade presente nella regione del Sahara], che ha attivamente finanziato e sostenuto quando il loro movimento è stato represso in Mali, negli anni ’90. … Nel 2005, Gheddafi ha accordato un permesso di soggiorno illimitato a tutti i tuareg del Mali e Nigeria in territorio libico. Poi, nel 2006, ha invitato tutte le tribù della regione del Sahara, tra cui le tribù tuareg, a formare una entità comune per opporsi al terrorismo e al traffico di droga. … È per questo che centinaia di combattenti provenienti da Niger e Mali aiutano Gheddafi [dopo lo scoppio della ribellione]. A loro avviso, erano in debito con Gheddafi e avevano l’obbligo di farlo… Molte cose sono state scritte sui “mercenari” al servizio delle forze di sicurezza libiche, ma poche di esse sono accurate. . Negli ultimi anni, degli stranieri sono stati reclutati [nell'esercito libico]. Il fenomeno è del tutto paragonabile al fenomeno che si osserva a tutti i livelli della vita economica libica. Vi è una popolazione molto ampia di lavoratori stranieri in cerca di occupazione nel paese. La maggior parte delle reclute originariamente provengono da Mali, Ciad, Niger, Congo e Sudan. …

Le informazioni provenienti dalle fonti dei ribelli, sulla presunta intrusione straniera [cioè i mercenari] sono vaghe e devono essere trattate con cautela. … D’altra parte, è un fatto provato – e la missione è stata in grado di confermarlo -, che i tuareg del Niger sono venuti a Tripoli per offrire il loro sostegno a Gheddafi. Lo hanno fatto spontaneamente e per un senso di debito. Sembra che i libici di origine straniera e i volontari genuini provenienti da paesi stranieri vengono deliberatamente confusi [nelle relazioni sui "mercenari"]. Qualunque sia il numero effettivo [di combattenti stranieri], costituiscono solo una piccola parte delle forze libiche.

 

Sul ruolo dei media internazionali:

Fino alla fine di febbraio, la situazione nella parte occidentale della città libica era estremamente tesa e ci sono stati scontri – più che in oriente. Ma la situazione è stata oggetto di esagerazione e di una vera e propria disinformazione mediatica. Ad esempio, un rapporto secondo cui aerei libici hanno bombardato Tripoli è completamente inesatto: Nessuna bomba libica è caduta sulla capitale, anche se sanguinosi scontri sembrano avere avuto luogo in alcuni quartieri. … Le conseguenze di questa disinformazione sono chiare. La risoluzione delle Nazioni Unite [mandato d'intervento] è stata approvato sulla base di tali resoconti dei media. Nessuna commissione di indagine è stata inviata nel paese. Non è esagerato dire che le segnalazioni sensazionaliste di al-Jazeera abbiano influenzato le Nazioni Unite.

 

Sull’insurrezione a Bengasi:

Non appena le proteste sono iniziate, gli islamisti e i criminali hanno immediatamente approfittato della situazione per attaccare carceri di massima sicurezza, presso Bengasi, dove i loro compagni erano detenuti. Dopo la liberazione dei loro leader, la ribellione ha attaccato stazioni di polizia ed edifici pubblici. I residenti della città si sono svegliati vedendo i cadaveri dei poliziotti appesi dai ponti. Numerose atrocità furono ugualmente commesse contro i lavoratori africani, che sono stati tutti trattati come “mercenari”. Lavoratori africani sono stati espulsi, uccisi, imprigionati e torturati.

 

Sull’insurrezione a Zawiya (una città nella parte occidentale della Libia):

Durante le tre settimane [in cui la città era controllata dai ribelli], tutti gli edifici pubblici sono stati saccheggiati e dati alle fiamme. … Ovunque vi erano distruzione e saccheggio (di armi, denaro, archivi). Non c’era traccia di combattimenti, cosa che conferma la testimonianza della polizia [che afferma di aver ricevuto ordine di non intervenire]. … Furono anche commesse atrocità (donne che sono state violentate, e alcuni agenti di polizia che sono stati uccisi), così come vittime civili durante queste tre settimane. … Le vittime sono state uccise nella maniera usata dal GIA algerino [Gruppo islamico armato]: gole tagliate, occhi cavati fuori, braccia e gambe amputate, a volte i corpi sono stati bruciati.

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio

http://www.aurora03.da.ru

http://www.bollettinoaurora.da.ru

http://aurorasito.wordpress.com/

 

La cerniera mediterraneo-centrasiatica

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È uscito il numero 1/2011 della rivista di geopolitica “Eurasia”, intitolato LA CERNIERA MEDITERRANEO-CENTRASIATICA. Il volume, composto di 31 articoli su 278 pagine, tratta della valenza geopolitica della regione che dal Mediterraneo giunge all’Asia Centrale passando per il Vicino Oriente, fungendo da cerniera tra l’Europa, l’Eurasia russa e l’Asia Orientale.

Ecco di seguito l’elenco ed un breve sommario di ciascuno degli articoli contenuti in questo numero.

 

 

Tiberio Graziani, Mediterraneo e Asia Centrale: le cerniere dell’Eurasia

La transizione dal sistema unipolare a quello multipolare genera tensioni in due particolari aree della massa eurasiatica: il Mediterraneo e l’Asia Centrale. Il processo di consolidamento del policentrismo sembra subire una impasse causata dall’atteggiamento “regionalista” assunto dalle potenze eurasiatiche. L’individuazione di un unico grande spazio mediterraneo-centroasiatico, quale funzionale cerniera della massa euroafroasiatica, fornirebbe elementi operativi
all’integrazione eurasiatica.

T. Graziani è direttore di “Eurasia” e presidente dell’IsAG

 


Aldo C. Marturano, I Bulgari dimenticati

Sin dal primo Medioevo la steppa e i suoi popoli ebbero un ruolo sconvolgente con i loro transiti verso l’Europa sia nella trasformazione e nella divisione dell’Impero Romano sia nella costituzione dei primi stati occidentali influendo, molto positivamente, sulle comunicazioni con la grande Asia e col nordest d’Europa. In particolare dobbiamo riconoscere alla pianura russa d’aver agito da tramite geografico, commerciale e culturale, e non solo logistico.

A. Marturano è autore di numerosi libri sulla Russia

 


Claudio Mutti, Ananda K. Coomaraswamy e l’unità dell’Eurasia

Facendo ricorso ad una straordinaria erudizione fondata sull’accurata analisi filologica dei testi e delle opere d’arte, Ananda Kentish Coomaraswamy (1877-1947), storico dell’arte indiana originario dello Sri Lanka, ci consente di toccare con mano, al di là della varietà delle forme tradizionali asiatiche ed europee, una essenziale unità eurasiatica. La sua opera sterminata è perciò, al tempo stesso, una denuncia del provincialismo eurocentrico ed un costante richiamo alla stretta parentela spirituale che collega tra loro la parte orientale e quella occidentale dell’Eurasia.

C. Mutti è redattore di “Eurasia”

 


Daniele Scalea, L’Asia Sudoccidentale nella geopolitica anglosassone

In quest’articolo si evidenziano il valore ed il significato assegnati all’Asia Sudoccidentale dal pensiero geostrategico anglosassone. Lo si fa ricorrendo agli spazi dedicati alla regione nelle principali opere dei quattro maggiori geopolitici anglosassoni: Alfred Thayer Mahan (1840-1900), Halford John Mackinder (1861-1947), John Nicholas Spykman (1893-1943) e Zbigniew Brzezinski (1928).

D. Scalea è segretario scientifico dell’IsAG, redattore di “Eurasia”

 


Maged Rida Butros, Le relazioni tra Egitto e Stati Uniti: il loro contenuto e il loro futuro

Questo studio analizza le vicissitudini diplomatiche e politiche intercorse tra Egitto e Stati Uniti dalla Rivoluzione degli Ufficiali Liberi fino ai giorni nostri. L’Autore – docente universitario e politico del Partito Nazionale Democratico (PND) – ha espresso un punto di vista che poteva dirsi, a suo tempo, quello “ufficiale”, ossia governativo, dal momento che lo studio fu condotto e pubblicato prima della recente ondata “rivoluzionaria” e del rovesciamento del presidente Mubarak. L’Autore dimostra l’uso strumentale che Washington ha fatto dei suoi programmi d’aiuto, non solo per indirizzare la politica estera
egiziana in senso filo-statunitense, ma talvolta pure in senso filo-israeliano. Posto che ciò si trova in linea con la tradizionale “diplomazia del dollaro”, l’articolo offre uno spunto interessante se considerato proprio alla luce dei recenti sviluppi, dato che la linea di politica estera della nuova amministrazione del Cairo rivelerà qualcosa in più in merito alla natura del recente fenomeno rivoluzionario. È auspicabile un cambiamento della posizione egiziana verso linee più coerenti con l’andamento regionale, sulla scia dell’esempio turco. Il saggio è tratto da “Al-Majalla al-‘Arabiyya li’l-‘Ulum al-Siyasiyya” (“Rivista Araba di Scienze Politiche”), no. 26/2010.

M.R. Butros è docente di Scienze politiche all’Università di Helwan (Cairo)

 


Giovanni Andriolo, Iraq: l’alfa e l’omega dell’unipolarismo USA

Ormai giunto l’annuncio del disimpegno della missione statunitense in Iraq,mun bilancio sui quasi otto anni di attività della “Coalizione dei Volonterosi” nel paese dei due fiumi s’impone. L’entità dei mezzi, delle persone e del denaro impiegati dagli Stati Uniti in Iraq solleva alcune considerazioni sull’importanza che il paese riveste per la strategia statunitense. Un’analisi delle ragioni alla base dell’invasione rivela come a sostegno della missione in Iraq stesse un piano di chiusura dell’Iran e di successiva espansione dell’Unipolarismo statunitense all’intera area geografica che va dall’Europa all’Asia Centrale. E da qui, all’intero blocco eurasiatico. Il fallimento della missione in Iraq potrebbe sancire la fine definitiva del piano di imposizione dell’Unipolarismo statunitense al mondo intero, proprio nel paese in cui tale progetto era cominciato. A meno
che con l’Iran…

G. Andriolo è ricercatore dell’IsAG

 


Elena Mazzeo, La Turchia tra Europa e Asia

La Turchia ha mostrato negli anni recenti un attivismo, per certi versi inconsueto, nella propria politica estera, mantenendo lo sguardo rivolto tanto a Occidente quanto a Oriente. Questo nuovo atteggiamento ha coinciso con la vittoria elettorale dell’Akp (Partito della Giustizia e dello Sviluppo) nel 2002 e, soprattutto, con gli anni successivi all’avvio della procedura di ammissione nell’Unione Europea (2005). La Turchia ha intrapreso un importante processo riformistico. Per proseguire in questo percorso il ruolo dell’Unione Europea potrebbe essere fondamentale nello spronare la Turchia, fornendo il sostegno necessario a superare le resistenze interne che tuttora si oppongono ai cambiamenti nel paese. Tuttavia, anche tra i paesi dell’Unione sussistono resistenze all’idea di un ingresso del paese.

E. Mazzeo è ricercatrice dell’Area studi, ricerche e statistiche dell’ICE

 


Luca Bianchi e Federica Roccisano, Il Mediterraneo: un possibile scudo contro la crisi?

La crisi finanziaria internazionale ha avuto un impatto relativamente contenuto sui Paesi in via di sviluppo dell’area del Mediterraneo. Il presente lavoro ha l’obiettivo di dimostrare come proprio questa particolare reazione possa fare dell’Area del Mediterraneo un’area di difesa o uno scudo alla crisi finanziaria per i Paesi europei e, in particolare, per il Mezzogiorno d’Italia. Il testo si divide in due parti. Nella prima parte viene fatta un’analisi degli effetti della crisi finanziaria in relazione a due aspetti caratterizzanti quali l’andamento dell’occupazione e l’andamento delle rimesse dei migranti in patria. La seconda
parte del lavoro approfondisce con maggiore attenzione la reazione dei Paesi dell’area alla crisi finanziaria.

L. Bianchi è vice-direttore del SVIMEZ, F. Roccisano è ricercatrice e coordinatrice delle relazioni internazionali di MEDAlics

 


Claudio Bertolotti, Attacchi suicidi in Afghanistan

In Afghanistan il fenomeno degli attacchi suicidi, nonostante lo stato di guerra più che trentennale, ha iniziato a manifestarsi in maniera preoccupante a partire dalla seconda metà del 2005. I gruppi di opposizione armata antigovernativi – nel testo indicati come Goa – hanno ormai adottato la tecnica suicida come parte della loro strategia, avendola appresa dai volontari stranieri giunti da altri teatri di guerra. È un fenomeno quantitativamente e qualitativamente in aumento in quanto tecnica vincente. E se l’impennata del numero degli attacchi condotti nel periodo 2005-2007 può spaventare, non
deve illudere la stabilizzazione del triennio 2008-2010, caratterizzata dall’aumento del numero di attentatori impiegati per ogni singola azione. Questo studio si basa sul confronto tra dati primari raccolti dall’autore in Afghanistan messi a confronto con dati secondari provenienti da organi di sicurezza internazionali e altri enti di ricerca.

C. Bertolotti è stato analista della NATO in Afghanistan

 


Gianluca Serra, La problematicità “normativa” del negoziato coi Talebani

SOMMARIO. 1. L’azzardo di Karzai. 2. Uno Stato per i Talebani? Profili internazionalistici della questione 3. Un negoziato coi Talebani? 3.1 Problemi concreti: dipendenza esterna e polivocità dell’interlocutore. 3.2 Questioni di diritto pubblico interno: Talebani e Stato di diritto 4. Postilla metodologica. 4.1 Stato di diritto e universalità. 4.2 Stato di diritto e dover/ voler essere.

G. Serra è dottore di ricerca in Diritto pubblico interno e comunitario (Seconda Università di Napoli)

 


Ruxandra Guillama Camba, L’UE e il conflitto georgiano

Quanto verificatosi nel Caucaso, più specificamente in Ossezia del Sud e in Abcasia, ha suscitato il nostro interesse. Per avvicinarci alla complessa situazione areale siamo partiti dal rapporto redatto sull’argomento dall’Unione Europea (UE). Con questa analisi ci si propone di rispondere ad alcuni quesiti: perché l’UE si è interessata a questo conflitto e quali sono i reali interessi che risiedono in quest’area ed hanno portato a un conflitto armato.

R. Guillama Camba è docente di Storia dell’Europa in Età Contemporanea all’Università dell’Avana.

 


Andrea Fais, Il Kazakistan, perno eurasiatico

Dotato di giganteschi giacimenti a cielo aperto, di grandi potenzialità ancora inespresse, il Kazakistan è più che mai al centro del Grande Gioco centroasiatico. In questo saggio si descrivono passato e presente di un Paese dai grandi spazi
e dalle tante risorse. Le prospettive, malgrado le frenate degli ultimi due anni e le previsioni di un netto calo del sorprendente tasso di crescita fatto registrare tra la fine degli anni Novanta e il 2008, restano buone, ed il Kazakistan sembra avere tutti i requisiti per poter recitare un ruolo di vero protagonista nello scacchiere eurasiatico e nelle logiche più stringenti del grande progetto continentale, a partire essenzialmente dalla cooperazione energetica e strategica.

A. Fais è giornalista pubblicista

 


Nikolaj Vasilevič Lukianovič, “OPEC del gas”: mito o realtà?

Le cause geopolitiche della creazione del Forum dei paesi esportatori di gas o, come viene definito dai mezzi di comunicazione, OPEC del gas, sono connesse al desiderio della Russia e degli altri paesi esportatori di gas, di elevare il loro
status nella politica e nell’economia mondiale. Eppure il funzionamento dell’OPEC del gas è vantaggioso sia per la Russia sia per l’UE e in particolare per l’Italia. Quest’organizzazione sarà capace di soddisfare regolarmente tutte le necessità dei paesi e delle regioni UE, che hanno bisogno di questo bene energetico.

N.V. Lukianovič è docente di Economia mondiale all’Università Finanziaria del Governo della Federazione Russa

 


Mario Sposato, Ucraina tra regionalismi e oligarchia

Diversi fattori concorrono a formare la cultura o le culture politiche in Ucraina: l’identità, l’appartenenza etnica, la regione, la tendenza riformatrice, condizioni socioeconomiche, la lingua, la “questione russa”, ecc. Tali fattori agiscono correlati o anche in maniera indipendente. Alcuni esercitano una maggiore influenza in detedrminate regioni, altri in altre. Tutti quanti però contribuiscono a produrre un medesimo risultato: la regionalizzazione delle attitudini politiche e, più in generale, la dicotomizzazione della società ucraina tra l’est e l’ovest. La classe politica non solo è incapace di evitare l’esasperazione di questa dicotomia favorendo un confronto costruttivo, ma le rappresenta in maniera interessata e distorta.

M. Sposato è dottore in Relazioni internazionali e diplomatiche

 


Matteo Pistilli, Alle origini del concetto di “sviluppo”: dalle colonie alla SdN

Il termine sviluppo, oltre a poter essere inteso come un termine “neutrale”, è diventato nel sistema politico, economico e sociale internazionale un vero e proprio concetto, un’ideologia, propria delle odierne organizzazioni globali, per larga parte controllate oggi dagli Stati Uniti. In primis l’Onu, ma anche le altre agenzie quali la Banca Mondiale, Il Fondo Monetario Internazionale, l’Undp e via dicendo fanno riferimento a questo concetto di difficile comprensione, irto di contraddizioni, ma che può essere inteso meglio se guardato da lontano, sin dalle sue origini. Per porre brevemente le basi di tale concetto, il presente saggio sottolinea come dalle origini del sistema internazionale moderno, dall’epoca del colonialismo alla costituzione della Società delle Nazioni, si sia evoluta un’ideologia giunta fino ai nostri giorni, egemonizzata dalle potenze e dal pensiero cosmopolita.

M. Pistilli è vice-presidente dell’IsAG

 


Sebastian A. Cutrona, L’immutabilità della geopolitica classica

Il saggio è stato originariamente presentato durante l’insegnamento di Geopolitica del XXI secolo relativo al corso di laurea specialistica (Maestría) in Geografia, all’Universidad de Costa Rica, nel febbraio 2009. La traduzione italiana si basa sulla versione pubblicata in “Revistas Ciencias Sociales”, vol. 121, no. 3, pp. 149-165, col titolo La inmutabilidad de la Geopolítica Clásica. Malgrado risalga ad oltre due anni fa, come risulta evidente dagli esempi proposti al suo interno, il saggio del prof. Cutrona rimane pienamente attuale nelle sue tesi e conclusioni, che possono essere riassunte, riprendendo il “Resumen” originale, come segue: «Nel quadro del postmodernismo, le principali basi teoriche della Geopolitica tradizionale cominciarono ad essere messe fortemente in dubbio da una nuova corrente di ricercatori identificati nella Scuola critica della disciplina. Eppure, le diverse ombre nei rapporti tra Russia e Stati Uniti d’America sembrano riconfermare le premesse fondamentali della Geopolitica tradizionale: l’Heartland di Halford Mackinder, il contenimento e le sfere d’influenza di George Kennan». Il “reset” nelle relazioni russo-statunitensi, registratosi nel 2010, si può interpretare come una fase di distensione contingente e temporanea, non molto diversa da quella che avvenne nel 2001-2002. A nostro giudizio, il discorso sulla dialettica USA-Russia imbastito da Cutrona non risulta invalidato dagli eventi successivi. Inoltre, in esso si possono ravvisare spunti di riflessione molto interessanti ed attuali, come quello sulla logica della “influenza incrociata” nella costruzione delle rispettive sfere d’influenza.

S.A. Cutrona è docente di Politica internazionale all’Università Nazionale di La Rioja

 


Marcello Gullo, Malvine: da Cristoforo Colombo a Juan Peron

Il generale Perón ha svelato una verità largamente nascosta: il fatto che l’Argentina è passata dalla dipendenza ufficiale dalla Spagna alla dipendenza ufficiosa dalla Gran Bretagna. La dolorosa verità, la verità nascosta, è che l’Argentina ha cambiato il collare ma non ha smesso d’essere cane. Si è passati dal collare visibile spagnolo al collare invisibile inglese. Si sono avuti bandiera, inno e esercito ma, l’Inghilterra l’ha incatenata ai suoi piedi con il prestito Baring Brothers e la sottile colonizzazione culturale. Dopo l’indipendenza l’Argentina è diventata una colonia ufficiosa dell’impero britannico.

M. Gullo è un politologo e saggista argentino

 


Alfredo Musto, Nella fase post-atlantica c’è l’incertezza strategica di Washington

Quella che possiamo indicare come la fase post-atlantica costituisce il torno temporale del passaggio dall’epoca bipolare e dalla tentazione unipolare ad un riassetto multipolare in via di definizione. Per forza di cose, nello stesso tempo costituisce una graduale decomposizione della struttura sistemica a matrice americana. In questo incerta transizione, tra le diverse carte giocabili, quella di un rinnovato controllo dei mercati dell’area asiatica – come dimostrano gli eventi – rimane per Washington prioritaria. La globalizzazione non sfugge alla geopolitica.

A. Musto è ricercatore dell’IsAG

 


Pavel Provintsev, Il ruolo della comunità scientifica per la sicurezza tecnologica globale

Tutti i processi globali, politici, economici e sociali, sono stati ampiamente determinati dal livello di conoscenza scientifica e del potenziale tecnologico in uno specifico momento storico. Le analisi e le previsioni di cambiamenti dell’ambiente di vita e dell’uomo stesso, come le valutazioni di vittoria o sconfitta in ambito militare o economico, non sono possibili da fare senza considerare il fattore tecnologico. Oggi, il genere umano è entrato in una nuova fase del suo sviluppo, caratterizzata dall’apparente incapacità di realizzare l’impatto delle applicazioni tecnologiche globali e di evitare le minacce causate dall’espansione tecnologica.

P. Provintsev è direttore della Fondazione Russa per lo Sviluppo delle Alte Tecnologie

 


Vasile Simileanu, Il dialogo geopolitico

Concetti come quelli di civiltà, progresso, democrazia, diritti umani, economia di mercato, sicurezza ecc., costruiti per definire un mondo ormai al tramonto, stanno esaurendo il loro potenziale descrittivo e sono sempre meno in grado di
costituire criteri di valutazione globale. La transizione verso una società globale impone analisi geopolitiche ampie, che sappiano studiare le particolarità culturali, linguistiche e religiose. D’altra parte, le manifestazioni di unificazione cumulate con quelle separatiste o pan-nazionaliste genereranno nuove fonti di conflitto e nuove provocazioni sul piano geopolitico. Nel clima internazionale che si va prefigurando, si impone l’avvio di un dialogo geopolitico, in cui le strategie bellicose siano sostituite da strategie di promozione della pace e di disponibilità al dialogo tra civiltà. La geopolitica può adempiere ad una funzione unica, trasformando le teorie del secolo XX in teorie di promozione della pace e del dialogo tra culture, religioni e civiltà.

V. Simileanu è direttore della rivista rumena “Geopolitica”

 


Ernest S. Sultanov, Crisi del sistema e problema dell’élite

L’attuale classe dirigente mondiale proviene dalle esperienze della “new economy” e dalla “nuova politica”, condizionando le prospettive del mondo. Non si tratterà solo di produrre e consumare in modo più efficiente, ma anche di cambiare tutto il meccanismo di vari indici, fra quelli anche i dominus – il PIL e il tasso d’interesse. La stessa società dovrà mutare visto che qualcosa dovrà sostituire il consumo nella scala sociale. Con il cambiamento dei valori cambierà anche l’arte, dovendo forgiare i nuovi tipi di eroi.

E. Sultanov è membro del Comitato Scientifico di “Eurasia”

 


T. Graziani, Intervista a Muratbek S. Imanaliev

M.S. Imanaliev è segretario generale dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai

 


M. Coppola e T. Graziani, Intervista a Jakhongir Ganiev

J. Ganiev è ambasciatore dell’Uzbekistan a Roma

 


E. Verga, Intervista a Alfredo Mantica

A. Mantica è sottosegretario per gli Affari esteri

 


D. Mraovic, Intervista a Falco Accame

F. Accame è presidente dell’ANA-VAVAF

 


L. Bionda, Intervista a Roberto Pace

R. Pace è presidente della Camera di Commercio e Industria Italo-Moldava di Chisinau

 


A. Bulgarelli, Intervista a Costanzo Preve

C. Preve è un filosofo e saggista italiano

Bombardamenti umanitari? Gli obiettivi geostrategici della guerra alla Libia

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Si è svolta sabato 25 giugno 2011 a Milano, presso il Centro Culturale San Fedele, la conferenza Bombardamenti umanitari? Gli obiettivi geostrategici della guerra alla Libia, organizzata dall’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) nell’ambito del Ciclo 2010-2011 dei Seminari di Eurasia. Sono intervenuti, davanti ad alcune decine di persone, Aldo Braccio (redattore di “Eurasia”), Maurizio Cabona (giornalista e saggista), Roberto Giardina (redattore del “Quotidiano Nazionale”), Luca Tadolini (difensore di Nuri Ahusain) e Joe Fallisi (testimone oculare dello scoppio della guerra). Di seguito i video integrale dell’evento. 

Prima parte:

Seconda parte:

Terza parte:


Tripoli bombardata, non cede

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Fonte: “Reseau Voltaire

 

Un gruppo internazionale di ricercatori della Rete Voltaire è attualmente in Libia. Ha potuto visitare i luoghi dei bombardamenti. Con la fiducia delle autorità libiche, ha incontrato alcuni dei leader politici e della sicurezza, nonostante le condizioni di guerra. La loro conclusione è diametralmente opposta alle immagini trasmesse dalla stampa occidentale. Thierry Meyssan consegna le loro prime osservazioni.  



Al centesimo giorno del bombardamento della Libia, la NATO ha annunciato il suo imminente successo. Tuttavia, gli obiettivi della guerra non sono chiaramente specificati, non è chiaro quale sarebbe il successo. Contemporaneamente, la Corte penale internazionale ha annunciato l’incriminazione del leader libico Muammar Gheddafi, del figlio Saif al-Islam e del capo dell’intelligence interna, Abdallah al-Sanoussi, per “crimini contro l’umanità“.

Se si fa riferimento alla risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza, la Coalizione dei volenterosi dovrebbe stabilire una no-fly zone per evitare che le truppe del tiranno uccidano il suo stesso popolo. Tuttavia, le informazioni iniziali, in base alle quali l’aeronautica libica avrebbe bombardato le città libiche, che si erano sollevate contro il governo di Tripoli, non sono ancora state confermate, anche se sono ritenute attendibili dalla Corte penale internazionale. Tuttavia, le azioni della NATO hanno superato di gran lunga la creazione di una no-fly zone per trasformarsi in una sistematica distruzione delle forze armate nazionali, di aria, terra e mare.

Gli obiettivi della NATO sono probabilmente altri. I leader dell’Alleanza hanno citato più volte il rovesciamento del “regime” di Muammar Gheddafi, anche l’eliminazione fisica del “Fratello Leader”. I media occidentali si riferiscono a “defezioni di massa” dei quadri di Tripoli e al loro allineamento alla causa degli insorti a Bengasi, ma non possono fare nomi, ad eccezione di quelli dei politici da tempo noti per essere favorevoli alla riconciliazione con Washington, come l’ex ministro degli esteri Moussa Koussa.

L’opinione pubblica internazionale è massicciamente male informata. Washington ha tagliato le trasmissioni televisive libica sul satellite Arabsat, di cui è ancora azionista la Jamahariya. Il Dipartimento di Stato non dovrebbe tardare a fare lo stesso con Nilesat.
In violazione dei suoi impegni internazionali, Washington ha rifiutato un visto per il nuovo rappresentante libico presso le Nazioni Unite. Non può venire nello Stato di New York a esporre il suo punto di vista, mentre il suo predecessore, unitosi al CNT, continua a occupare il suo posto.

Con la voce di Tripoli smorzata, è possibile diffondere qualsiasi menzogna, senza timore di smentita.

Non c’è da stupirsi visto che a Tripoli, dove è stato scritto questo articolo, i comunicati della NATO e le accuse della Corte penale internazionale sembrano irreali. L’ovest della Libia è pacifico. A volte, le sirene annunciano l’arrivo di bombardieri o missili. Seguiti subito dopo dalle esplosioni che essi provocano. Non c’è bisogno di correre ai ripari, da un lato perché il tempo è troppo breve e, secondo, perché non ci sono quasi ripari.

I bombardamenti sono mirati con estrema precisione. Il munizionamento guidato colpisce gli edifici presi di mira, e in questi edifici, le parti puntate. Tuttavia, la NATO perde il controllo in volo di un missile guidato su dieci. Questo cade alla cieca. In qualsiasi punto della città, causando morte a caso.

Se una parte degli obiettivi della NATO sono “militari“: basi e caserme; la maggior parte sono “strategici“, vale a dire economici. Per esempio, l’Alleanza ha bombardato la zecca della Libia, un’amministrazione civile incaricata di stampare i dinari. Oppure, i suoi commando hanno sabotato fabbriche che erano in competizione con quelle dei membri della Coalizione. Altri obiettivi sono definiti “psicologici“. Si tratta di colpire direttamente i leader politici e militari, massacrando le loro famiglie. I missili vengono poi puntati verso abitazioni private, e in particolare sulle camere da letto dei figli dei dirigenti.

L’atmosfera nella capitale e sulla costa è pesante. Ma la popolazione resta salda. I libici osservano che nessuno dei loro problemi interni giustifica il ricorso alla guerra. Indicano le rivendicazioni sociali e le questioni regionali, come esistono nei paesi europei, ma niente che dovrebbe portare a lacerare le famiglie come si sta facendo imponendo la spartizione del paese.

Di fronte alla NATO, decine di migliaia di cittadini ricchi hanno fatto le valigie e se ne sono andati a cercare rifugio nei paesi vicini, tra cui la Tunisia, lasciando ai poveri la cura per difendere il paese che li ha arricchiti. Molte aziende sono chiuse senza che nessuno sappia se si trovano ad affrontare problemi di approvvigionamento o se i loro proprietari sono fuggiti.

Come in Siria, la maggior parte degli oppositori politici fa blocco col governo per proteggere l’integrità del paese contro l’aggressione straniera. Tuttavia, alcuni libici, anonimi e invisibili, informano la NATO per individuare gli obiettivi. I loro genitori, un tempo ospitavano l’esercito coloniale italiano, ora gridano con i loro omologhi di Bengasi, “1, 2, 3, Sarkozy sta arrivando!”. Ogni nazione ha i suoi traditori e i suoi collaborazionisti.

Le atrocità commesse dai mercenari del principe Bandar in Cirenaica, hanno convinto molti esitanti. La TV mostra continuamente le azioni dei leader di al-Qaida in Libia, alcuni dei quali sono stati rilasciati direttamente da Guantanamo, per combattere a fianco degli Stati Uniti. Le insopportabili immagini di linciaggi e mutilazioni nelle città erette a emirati islamisti, come di moda in Afghanistan e in Iraq, da persone disumanizzate dalle torture subite ed eccitate da potenti droghe. Non è necessario essere un vecchio sostenitore della Rivoluzione di Gheddafi per supportarla oggi, di fronte agli orrori cui i jihadisti si dedicano nelle “zone liberate” dalla Alleanza [1].

Niente, da nessuna parte in Occidente suscita una rivolta o guerra civile. Nessuna barricata, né carri armati nelle strade. Su tutte le strade, le autorità hanno istituito posti di blocco ogni due chilometri. Gli automobilisti in paziente attesa saggiamente, loro stessi sono attenti a scoprire elementi infiltrati dalla NATO.

Il colonnello Gheddafi arma la popolazione. Quasi due milioni di fucili automatici sono stati consegnati ai civili. L’obiettivo è che ogni adulto, maschio o femmina, difenda la sua casa. I libici hanno imparato la lezione dell’Iraq. Saddam Hussein era seduto sull’autorità del Baath e dell’esercito, escludendo il suo popolo dalla vita politica. Quando il partito fu decapitato e qualche generale disertò, il governo crollò improvvisamente lasciando il paese senza resistenza e nel caos. La Libia è organizzata secondo un sistema unico di democrazia partecipativa, paragonabile alle assemblee del Vermont. La gente è abituata ad essere consultata e responsabile. Si è dunque mobilitata in massa.

Inaspettatamente, le donne sono più determinate degli uomini nel portare le armi. Ciò riflette l’incremento negli ultimi anni della partecipazione delle donne alle assemblee popolari. Ciò riflette, forse, anche la disinvoltura che ha colpito i quadri di questo Stato socialista dallo standard di vita elevato.

Tutti sanno che tutto verrà deciso quando le truppe di terra della Nato sbarcheranno, se oseranno farlo. La strategia di difesa è interamente concepita per scoraggiare uno sbarco, mobilitando la popolazione. Qui i soldati francesi, inglesi e statunitensi non saranno accolti come liberatori, ma come invasori coloniali. Dovranno affrontare infiniti combattimenti urbani.

I libici s’interrogano sulle mosse esatte della NATO. Mi sorprende constatare che spesso, leggendo gli articoli di Voltaire, tradotti e ripresi da molti siti web e alcuni giornali, che sono informati sui reali problemi, c’è qui, come dappertutto, una mancanza di informazioni sulle relazioni internazionali. La gente sa e s’inorgoglisce delle iniziative e dei risultati del governo per l’Unità africana o per lo sviluppo del Terzo Mondo, ma ignora molti aspetti della politica internazionale e sottovaluta il potere distruttivo dell’impero. La guerra sembra ancora lontana, fino a quando il predatore vi sceglie come preda.

Che cos’è questo successo che la NATO annuncia imminente? Per ora, il paese è diviso in due. La Cirenaica è stata proclamata repubblica indipendente, anche se si sta preparando a ristabilire la monarchia, ed è stata riconosciuta da diversi stati, a partire dalla Francia. Questa nuova entità è governata, di fatto, dalla NATO, ma ufficialmente da un misterioso Consiglio di Transizione Nazionale, non eletto, e i cui membri, se esistono, sono segreti per non essere chiamati a rispondere delle loro azioni. Una parte dei beni libici sono stati congelati ed ora sono gestiti, a loro massimo beneficio, dai governi occidentali. Parte della produzione di petrolio viene venduta a condizioni molto competitive alle società occidentali che ne fanno incetta. E’ forse questo il successo: il saccheggio coloniale.

Emettendo mandati di arresto internazionali contro Muammar Gheddafi, suo figlio e il capo dell’intelligence nazionale, la Corte penale internazionale sta cercando di mettere sotto pressione i diplomatici libici, per costringerli a dimettersi. Tutti sono a rischio, in caso di caduta della Libia, di essere perseguiti per “complicità in crimini contro l’umanità”. Quelli che si dimettono lasceranno un vuoto dietro di loro, senza alcuna possibilità di essere sostituiti. I mandati di arresto, quindi, emergono da una politica di isolamento del paese.

La Corte fa anche comunicazione di guerra. Ha definito Saif al-Islam “il primo ministro de facto”, cosa che certamente non è vera, ma dà l’impressione di un regime familistico. Vi si ritrova il principio d’inversione dei valori, tipico della propaganda statunitense. Mentre i ribelli di Bengasi brandiscono la bandiera della monarchia Senussi e il pretendente al trono si spazientisce a Londra, è la democrazia partecipativa che viene presentata come un regime dinastico.

Dopo i primi cento giorni di guerra, la stampa della NATO a malapena nasconde la delusione. I libici non sono insorti contro il “regime“, tranne in Cirenaica. Nessuna soluzione militare è in vista. L’unica via per l’Alleanza atlantica di uscire a testa alta a buon mercato, è quella di dividere semplicemente il paese. Bengasi diventerebbe l’equivalente di Camp Bondsteel, la mega base militare statunitense in Europa, avendo acquisito lo status di stato indipendente come il Kosovo. La Cirenaica sarà la base che mancava ad AFRICOM per controllare il continente.


 

[1] Suppongo che queste osservazioni possano sorprendere il lettore. Réseau Voltaire tornerà in dettaglio nei prossimi articoli.


 

Traduzione di Alessandro Lattanzio

http://www.aurora03.da.ru

http://www.bollettinoaurora.da.ru

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Le tappe strategiche della Guerra Fredda

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Le sconfitte definitive del Terzo Reich maturata nell’aprile 1945 e del Giappone avvenuta quattro mesi dopo (agosto 1945) consacrarono l’Unione Sovietica quale principale potenza dell’intero continente eurasiatico.

Gli Stati Uniti erano di fatto l’unica nazione dotata di ricchezza e potenza sufficiente per opporsi efficacemente allo strapotere sovietico che minacciava di allargare la propria egemonia all’Europa e all’Asia orientale, cosa che nei palazzi di Washington era vista come una riedizione rivisitata e corretta della vecchia linea politica elaborata da John Quincy Adams ed enunciata nel 1823 dal presidente James Monroe, mediante la quale gli Stati Uniti avevano rivendicato il diritto di gestire autonomamente e senza alcun tipo di supervisione ed interferenza europea le questioni politiche riguardanti l’intero continente americano (America Settentrionale ed Indiolatina).

Il profilarsi di una prospettiva simile spinse il presidente Harry Truman a rinnegare buona parte delle posizioni assunte a Jalta (febbraio 1945) dal suo predecessore Franklin Delano Roosevelt, il quale aveva comunicato al suo dirimpettaio Josif Stalin l’intenzione di ritirare tutti i contingenti statunitensi stanziati in Europa nell’arco del biennio successivo e gettato le basi per una collaborazione con il governo di Mosca per la gestione delle situazioni critiche in cui versavano i paesi sconfitti dell’Asse.

La Seconda Guerra Mondiale si era oramai conclusa e gli Stati Uniti che si erano coalizzati con l’Unione Sovietica per sconfiggere Germania e Giappone non esitarono dunque a rompere tale sodalizio per ergersi a bastioni occidentali di contenimento alla temuta espansione comunista.

Fin dai primi giorni della Guerra Fredda le mire dell’Unione Sovietica si concentrarono sull’Iran, paese alquanto ricco di idrocarburi sul cui territorio erano ancora stanziate, fin dagli ultimi mesi della Seconda Guerra Mondiale, numerose guarnigioni dell’Armata Rossa che Stalin, all’inizio del 1946, non dava segno di voler ritirare nonostante i rassicuranti impegni in tal senso che si era solennemente assunto a Jalta in presenza di Rooselvelt. Le pressioni statunitensi si fecero quindi pesantissime e a Stalin non rimase che procedere al ritiro, che venne ultimato nei primi giorni del maggio 1946.

Un altro paese ad attirare le attenzioni sovietiche era la Turchia, il cui controllo avrebbe assicurato a Mosca uno sbocco sul Mediterraneo orientale. Tra la primavera e l’estate del 1945 Stalin – collocandosi nel solco tracciato dai suoi “predecessori” storicamente interessati ad assumere il controllo degli stretti – pretese con insistenza che il governo di Ankara concedesse una vasta area del proprio territorio dalla quale si dominava lo stretto dei Dardanelli all’Unione Sovietica, intenzionata ad installarvi alcune basi militari.

Nel frattempo la Grecia era oggetto di una sanguinosa guerra civile divampata nel 1944 che rischiava di far slittare il paese verso l’orbita comunista. E’ altamente probabile che i comunisti greci credettero che rendendo ulteriormente incandescente la situazione avrebbero convinto l’Unione Sovietica a schierasi apertamente al loro fianco rendendo così molto più agevole il compito di rovesciare il potere costituito, ma così non accadde.

Stalin assunse un atteggiamento affine a quello degli antichi spartani durante la crisi di Melo magistralmente descritta da Tucidide nella “Guerra del Peloponneso”.

Allora gli isolani di Melo avevano deciso di respingere al mittente i reiterati ultimatum lanciati dagli ambasciatori ateniesi sfidando apertamente Pericle, confidando che sollevandosi contro il predominio ateniese avrebbero sollecitato Sparta ad intervenire in loro aiuto.

Atene represse nel sangue l’insurrezione di fronte al freddo e lucido sguardo di Sparta, che assistette all’eccidio senza batter ciglio.

Come Sparta, l’Unione Sovietica non si mobilitò a favore dei comunisti greci e lasciò che gli Stati Uniti e i loro subordinati britannici si organizzassero per ristabilire la situazione.

Il 12 marzo 1947 il presidente Harry Truman pronunciò dinnanzi al Congresso un famoso discorso mediante il quale enunciò i tratti fondamentali della dottrina che prese poi il suo nome. Egli prese spunto dalle crisi turca e greca per farsi promotore dell’autonomia dei popoli e allargare poi il discorso per sostenere apertamente che era giunta l’ora per gli Stati Uniti di opporsi irriducibilmente alla minaccia sovietica, dichiarando una guerra senza quartiere al comunismo. Chiese al Congresso 400 milioni di dollari da girare ai governi turco e greco, e li ottenne.

I fondi vennero distribuiti, i comunisti greci furono duramente sconfitti e la Turchia trovò la forza necessaria per opporre un secco rifiuto alle richieste di Stalin. Si trattò di mosse tattiche, di prove tecniche che prelusero all’entrata di Grecia e Turchia nella NATO, che avvenne nel febbraio 1952.

Tali successi non scacciarono però il timore principale che scuoteva i doppipetti di Washington, ovvero che l’Unione Sovietica avrebbe trovato la forza per dominare l’intero continente europeo. Questo timore non riguardava tanto un’improbabile sortita dell’Armata Rossa che avrebbe raggiunto le sponde dell’Oceano Atlantico, quanto la reale possibilità che i forti partiti comunisti di Francia e (soprattutto) Italia legati a doppio filo a Mosca riuscissero a far leva sulle spaventose condizioni in cui versavano le loro rispettive popolazioni nei primi anni del dopoguerra  ottenendo quell’appoggio di massa necessario per giungere al potere.

Il Piano Mashall ideato nel giugno 1947 e finalizzato esplicitamente a sradicare “fame disperazione e caos” nacque in risposta alla tremenda situazione sopra descritta.

Il vero oggetto della contesa riguardava però la gestione della situazione tedesca. Pare che nei primi anni del dopoguerra né statunitensi né sovietici avessero le idee chiare sul da farsi.

Il timore che un paese strategicamente cruciale come la Germania potesse finire interamente sotto l’orbita avversaria spinse entrambi gli schieramenti a propendere per una divisione formale di due Germanie, una Orientale legata al blocco sovietico e una Occidentale ripartita a sua volta in tre zone di influenza affidate rispettivamente a Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia.

Stalin si mostrò favorevole a tale ipotesi a patto che i paesi occidentali non avessero unificato le tre zone tedesche di loro competenza decretando la formazione di un unico stato indipendente filoccidentale.

Tuttavia le preoccupazioni degli Stati Uniti vertevano sulla necessità di estromettere totalmente l’Unione Sovietica dalla Germania Occidentale e spinsero il presidente Truman e i suoi consiglieri a incoraggiare la costruzione di una Germania Occidentale potente, ricca e armata di tutto punto.

L’obiettivo in questione fu annunciato pubblicamente durante la Conferenza di Londra del dicembre 1947 e gli sforzi operati in tal senso dagli Stati Uniti e dai loro alleati si concretizzarono il 21 settembre 1949, data che coincise con la formazione della Repubblica Federale Tedesca, potente bastione occidentale di contenimento all’espansione sovietica verso ovest che funse da contraltare alla Repubblica Democratica Tedesca legata all’Unione Sovietica.

I sovietici, dal canto loro, accolsero (non poteva essere altrimenti) con orrore la nascita della Repubblica Federale Tedesca, allarmati come erano dallo spettro dell’integrazione economica e politica del blocco della Germania Ovest nel sistema dei paesi occidentali.

Il sostegno fornito dall’Unione Sovietica agli insorti cecoslovacchi che portò al colpo di stato del febbraio del 1948 e all’instaurazione di un governo comunista aderente al blocco orientale fu una sorta di ritorsione di Stalin, una mossa tattica in risposta all’unilateralità con cui furono gettate le basi per la nascita della Repubblica Federale Tedesca.

A tali mosse ritorsive va aggiunta poi la crisi aperta dall’Unione Sovietica agli sgoccioli del luglio 1948, che culminò con il blocco di Berlino e con lo sbarramento dei corridoi idrici che collegavano la capitale tedesca con le zone d’occupazione occidentale.

Il colpo di stato parzialmente eterodiretto in Cecoslovacchia portò gli Stati Uniti a comprendere l’inderogabilità di escogitare una struttura sovranazionale costituita da una fitta rete di alleanze militari che fungesse da deterrente alle mire espansionistiche sovietiche.

Gli enormi sforzi profusi in questa direzione furono coronati il 4 luglio del 1949, data in cui la North Atlantic Treaty Organization (NATO) vide la luce.

Il blocco a Berlino da parte dell’Unione Sovietica fu aggirato mediante un ponte aereo progettato dagli Stati Uniti che in breve termine spinse Stalin a ordinare il ritiro delle truppe nel maggio del 1949.

Tuttavia gli interessi sovietici non erano orientati solo ed esclusivamente all’Europa ma anche all’Asia orientale. Non a caso Stalin dispose il ritiro dell’Armata Rossa dalla Manciuria (maggio 1946) solo quando le pressioni statunitensi che si richiamavano al rispetto degli accordi presi dal leader sovietico durante la Seconda Guerra Mondiale (che prevedevano il ritiro del contingente sovietico entro l’1 febbraio 1946) si erano fatte fortissime.

A destare serie preoccupazioni al governo statunitense erano anche gli sviluppi relativi alla situazione in Cina, nell’ambito della quale i comunisti guidati da Mao Tze Tung apparivano inesorabilmente avviati al trionfo sul Kuomintang capeggiato da Chiang Kai Shek, cosa che avrebbe avvicinato pericolosamente il gigante cinese all’Unione Sovietica.

Malgrado i rapporti tra Stalin e Mao Tze Tung fossero effettivamente travagliati e complessi, l’Unione Sovietica fornì il proprio (esiguo) appoggio al movimento comunista cinese, mentre gli Stati Uniti, dal canto loro, si fecero (tiepidi) promotori della causa portata avanti dai nazionalisti.

Gli aiuti statunitensi non fecero però che procrastinare l’inevitabile disfatta di Chiang Kai Sheck, che avvenne puntualmente nel 1949 sotto i pesanti colpi inferti dalle soverchianti forze comandate da Mao Tze Tung. Lo stesso Segretario di Stato Dean Acheson fu costretto a prendere atto della sconfitta nel celebre passo della lettera datata 30 luglio 1949 mediante la quale trasmise al presidente Harry Truman il contenuto del cosiddetto “libro bianco” sulla Cina: “Niente di ciò che questo paese ha fatto o avrebbe potuto fare entro i limiti ragionevoli delle sue capacità avrebbe potuto alterare il risultato: nulla che sia stato lasciato intentato da questo paese ha contribuito all’esito. E’ stato il prodotto di forze interne alla Cina che questo paese ha cercato invano di influenzare”.

L’offensiva sferrata il 25 giugno 1950 dalla Corea del Nord a danno della Corea del Sud si inserì prepotentemente in questo particolare contesto e fu immediatamente attribuita alla mano pesante di Stalin, bollato dagli Stati Uniti come manovratore super partes di tutta l’operazione. Gli Stati Uniti non esitarono infatti a scendere in campo al fianco della Corea del Sud, ingaggiando un sanguinoso conflitto triennale contro la Corea del Nord e il suo alleato di ferro cinese che ripristinò la situazione vigente alla vigilia della guerra.

In compenso gli Stati Uniti approfittarono della situazione per giustificare un esorbitante aumento delle spese militari da un lato e il mantenimento di un forte contingente del proprio esercito sul suolo sudcoreano che vige ancora oggi, in assenza dell’Unione Sovietica e a Guerra Fredda conclusa da svariati anni, dall’altro.

Gli Stati Uniti beneficiarono delle ingenti spese militari per innalzare ed installare progressivamente – durante l’intero arco temporale in cui si svolse la Guerra Fredda – potenti strutture di deterrenza in tutte le aree critiche del pianeta come l’Europa, il Medio Oriente, il Golfo Persico e l’Asia orientale al fine di contenere e sostituire la propria spinta espansionista a quella sovietica.

Gli anni Cinquanta videro la nascita del Patto di Varsavia (maggio 1955) che funse da contraltare alla Nato ma trascorsero, se si prescinde dall’insurrezione di Budapest del 1956 repressa di fronte alla quale gli Stati Uniti adottarono il medesimo atteggiamento assunto dall’Unione Sovietica nei confronti della rivoluzione comunista in Grecia, in una condizione di relativa stabilità in cui gli stati Uniti guidati da Dwight Eisenhower rafforzarono il proprio status di superpotenza sui rispettivi subordinati regolando, in occasione della crisi di Suez (1956), gli ultimi residui imperiali di Francia e Gran Bretagna che furono costrette a raccogliere i cocci dei propri sogni di gloria mandati in frantumi.

Gli anni Sessanta conobbero una brusca escalation di tensione non assolutamente legata alla costruzione del cosiddetto “Muro di Berlino” (1961) quanto al fallimento dello sbarco nella Baia dei Porci (1961) che preluse alla crisi missilistica relativa installazione di testate balistiche nucleari sovietiche a Cuba, che Fidel Castro aveva concordato con l’alleato Nikita Kruscev.

Quella vicenda si risolse con un sostanziale nulla di fatto che effettivamente avvantaggiò agli Stati Uniti di John Fitzgerald Kennedy, i quali si sentirono rafforzati dalla dimostrazione di forza contro l’Unione Sovietica per insinuare la propria presenza nel Sud – Est asiatico al fine di evitare che l’intera area finisse sotto il controllo dell’asse comunista Cina – Unione Sovietica.

La Guerra del Vietnam fu intrapresa ufficialmente dal successore di Kennedy Lyndon Johnson, il quale approfittò dell’incidente “a orologeria” avvenuto nel Golfo del Tonkino (1964) – che si inserisce alla perfezione nella tradizione degli “strani” (per usare un eufemismo) incidenti (Maine del 1898, Lusitania del 1915, Pearl Harbor del 1941) strumentalizzati ad arte per giustificare la discesa in campo delle forze armate statunitensi nei vari conflitti – per ottenere dal Congresso il sostegno necessario a sferrare l’attacco.

Allora il Vietnam era territorialmente diviso in due aree, con il nord comunista che si accingeva ad entrare in rotta di collisione con il sud filoccidentale. La preponderanza del Vietnam del Nord sostenuto dall’Unione Sovietica costituiva una minaccia da sventare per Washington, che si insinuò nel conflitto ma si scontrò ben presto contro l’accanita resistenza dell’esercito nordvietnamita comandato da Ho Chi Minh e da Voh Nguyen Giap.

La stagnazione del conflitto apparve ben presto in tutta la sua evidenza, specchio dell’incapacità dell’esercito statunitense e dei suoi vertici militari di far fronte alla prima vera (seppur embrionale) guerra asimmetrica.

La soverchiante potenza di fuoco della macchina militare statunitense si rivelò infatti del tutto inadeguata a fronteggiare le veloci e ben addestrate armate nordvietnamite, e quella che era stata presentata alla vigilia come una semplice operazione militare di breve durata finì per insabbiare il più potente esercito del mondo in un terribile pantano.

Fu Richard Nixon a tirare fuori gli Stati Uniti dalle sabbie mobili vietnamiti, ritirando gradualmente l’esercito dal conflitto e lasciando l’intera posta in gioco nelle mani dei comunisti del Vietnam del Nord.

Tuttavia l’abilità di Nixon consistette nel trarre i debiti insegnamenti dal conflitto e conseguentemente nel “trasformare” quella che è comunemente e altrettanto superficialmente considerata una colossale sconfitta per gli Stati Uniti in una tappa tattica rientrante in un progetto strategico di più ben ampio respiro.

Nixon fece leva sui dissidi sino – sovietici relativi in parte all’accusa ideologica di “socialimperialismo” lanciata da Mao Tze Tung nei confronti dell’Unione Sovietica impegnata a reprimere i moti di Praga del 1968 e a ragioni più strettamente geopolitiche per sfruttare la terzietà cinese rispetto al bipolarismo allora imperante ed esaltare i punti di discordia di Pechino con Mosca.

Impedendo poi il perdurare della stagnazione militare in Vietnam e accelerando la vittoria di Ho Chi Minh gli Stati Uniti evitarono il logoramento dell’alleanza Vietnam – Unione Sovietica e conseguentemente che le frange filocinesi nell’ambito della fazione nordvietnamita si facessero soverchianti.

Si gettarono così le basi per il classico “divide et impera”, che negli anni a seguire fruttò i risultati graditi a Washington.

In sostanza, la debacle subita (o accettata) dagli Stati Uniti di Nixon rinsaldò l’alleanza tra Unione Sovietica e Vietnam, con quest’ultimo che si sentì rinforzato a sufficienza per invadere ben presto la vicina Cambogia (1978) guidata col pugno di ferro dai Khmer Rossi di Pol Pot, maoista di ferro che godeva del pieno appoggio del governo di Pechino.

Nella rete di alleanze Unione Sovietica – Vietnam contrapposta a quella Cina – Cambogia si inserirono così gli Stati Uniti, che appoggiarono i secondi contro i primi e spinsero a loro volta l’India a mostrarsi favorevole alla causa sovietica in virtù dell’accesa rivalità, non ancora sopita, con la Cina.

Il trentennale trattato di amicizia sino – sovietico ratificato nel 1950 poteva così dirsi chiuso con qualche mese d’anticipo e infatti lo stesso Deng Xiao Ping decise si punire l’intraprendenza del Vietnam ordinandone l’invasione, che alla prova dei fatti non sortì nessun effetto di grande rilievo fatta eccezione per l’aver manifestato palesemente l’aperta ostilità tra Cina e Unione Sovietica.

I quattordici anni che intercorsero tra il 1975 (data del ritiro definitivo degli Stati Uniti dal Vietnam) e il 1989 (disfatta sovietica in Afgahnistan e crollo del Muro di Berlino) conobbero eventi che risultarono inoppugnabilmente cruciali nel determinare il noto esito del confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica.

Dopo la Guerra del Vietnam gli Stati Uniti presieduti (formalmente) da Jimmy Carter e (effettivamente) dall’abile eminenza grigia Zbigniew Brzezinski misero a punto un’abile strategia atta a “Rendere all’Unione Sovietica il suo Vietnam”.

L’occasione d’oro si presentò nel 1979, quando gli Stati Uniti decisero di rifornire di armi e di addestrare gli agguerriti mujahiddin islamici affinché rovesciassero il governo centrale filosovietico di Kabul, che pochi mesi dopo lo scoppio dei conflitti si vide costretto a chiedere aiuto al presidente Leonid Breznev, il quale inviò l’esercito in territorio afghano.

L’Armata Rossa non riuscì però a fronteggiare efficacemente l’accanita resistenza dei mujahiddin e si ritrovò ben presto impantanata in una sanguinosa guerriglia che si ripercosse pesantemente sulle casse sovietiche e culminò con la disfatta militare e il definitivo ritiro che venne ultimato nel febbraio del 1989.

Nel frattempo, il presidente Mikhail Gorbaciov si era dimostrato estremamente “molle” e bendisposto nei confronti del proprio avversario Ronald Reagan, proclamando solennemente il superamento della “Dottrina Breznev”, rinunciando a numerose posizioni pur di favorire l’apertura agli Stati Uniti e promuovendo un monumentale progetto di ristrutturazione economica (perestrojka) improntato alla “trasparenza” (glasnost) che introdusse forti riforme di tenore neoliberale.

Malgrado l’ampio riconoscimento internazionale, seppur in gran parte dovuto al conferimento del Premio Nobel per la Pace, Gorbaciov contribuì pesantemente in realtà a gettare le basi per la destrutturazione politica ed economica dell’Unione Sovietica e poi per lo smantellamento del colossale apparato pubblico russo che cadde, con il beneplacito del suo ex braccio destro Boris El’cin, in mano a una congrega di “oligarchi” (tra i quali spuntano i nomi di Roman Abramovich, Boris Berezovskij, Mikhail Kodorkhovskij) strettamente legati all’alta finanza occidentale.

Parallelamente, gli Stati Uniti hanno esteso l’influenza della NATO a molti paesi nati dalla disgregazione dell’Unione Sovietica e riavviato il progetto ABM (Anti Ballistic Missile) apertamente orientato contro la Russia.

In questo contesto si è inserito Vladimir Putin, uomo proveniente dai ranghi del KGB che è riuscito ad affermare una linea politica estremamente autoritaria mediante la quale è stato fortemente ridimensionato il peso degli “oligarchi” e molte delle aziende strategiche privatizzate all’epoca di El’cin sono tornate sotto il controllo pubblico.

In conclusione, la parentesi bipolare si è chiusa definitivamente con la caduta dell’Unione Sovietica.

Ad essa è andato a sostituirsi il rigido unipolarismo a guida statunitense che ha conosciuto il proprio apice a ridosso del 2000 per poi iniziare un lento declino accompagnato da una crescita parallela di numerose potenze regionali sparse per il mondo.

La Russia, affermandosi al rango di grande potenza, è andata indubbiamente ad iscriversi nel novero dei paesi destinati a svolgere un ruolo principale nel complesso scenario internazionale inesorabilmente avviato verso il multipolarismo.

Nuove possibilità al di là delle Ande

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In seguito alla visita del presidente cileno in Italia si prefigurano nuovi scenari senz’altro proficui dal punto di vista commerciale e diplomatico per entrambi i paesi. Il Cile può rafforzare il suo status internazionale di socio affidabile e i vincoli commerciali con l’Europa, anche nell’ottica di ridurre le disuguaglianze sociali interne. L’Italia potrà sfruttare le relazioni con Santiago per guadagnare una posizione migliore all’interno del subcontinente sudamericano e ovviare così anche ai recenti smacchi diplomatici.

Il “Berlusconi” cileno

Da più parti è stata salutata con ammirazione l’elegante discrezione con cui il presidente Piñera ha rigettato qualsiasi similitudine (nel bene e nel male) con il primo ministro italiano Berlusconi.

Di fatto, al di là dell’appartenenza a una parte politica tradizionalmente legata agli interessi di un certo settore della popolazione (l’universo del centrodestra, dalla reazione conservatrice ai moderati liberali, con una tinta cattolica trasversale) e a una comune provenienza dal mondo degli affari, i due hanno ben poco in comune.

Certamente l’imprenditore Piñera, pur avendo rinunciato a gestire personalmente le sue attività da cittadino senza incarichi di governo, continuerà più o meno apertamente a salvaguardare i propri interessi economici da cui, nonostante la presidenza, non potrà prescindere. In effetti l’ingresso di uomini d’affari all’interno del circolo politico decisionale sembra ormai essere entrato a far parte del gioco democratico, dato che sono capaci di mettere in campo risorse difficilmente eguagliabili durante le campagne elettorali e sono forti della propaganda dovuta ai successi economici personali.

La situazione del premier Berlusconi rappresenta indubbiamente un unicum nella storia del conflitto d’interesse, così come la permanenza quasi ininterrotta (voluta, comunque, dall’elettorato) dei suoi governi alla guida del Paese rappresentano una sfida al principio dell’alternanza democratica.

Da questo punto di vista, la democrazia cilena si mostra senz’altro più matura rispetto a quella italiana, nonostante questa abbia dalla sua 44 anni in più di vita e di “esperienza”.

La solidità e le ragioni di Santiago

Il Cile, con il suo nuovo presidente, sta seguendo le orme dei governi che sono stati alla guida del Paese negli ultimi 20 anni, dando la priorità allo stabilimento e al rafforzamento di legami commerciali con i “soci” del sistema internazionale, soprattutto quelli europei, al fine di diversificare i mercati di approvvigionamento e di esportazione come alternativa a Stati Uniti e Mercosur. In questo senso il viaggio di Piñera ha fatto chiaramente vedere come il Cile continui a crescere e a mostrare interesse verso gli investimenti in capitale che possono sostenere e blindare questa crescita. Al contempo, la liquidità europea viene richiamata dalla stabilità dimostrata dal sistema e dall’ambiente politico (soprattutto dopo l’ultima, definitiva prova di tenuta per una democrazia giovane, l’alternanza) che, sfidando anche l’opposizione interna e civile (come nel caso dei progetti infrastrutturali ed energetici patagonici), punta su progetti concreti, anche a lungo termine, ed esalta le potenzialità di crescita di un’economia vivace, quantunque fortemente ingiusta dal punto di vista della ridistribuzione della ricchezza. Il rischio paese è, infatti, quasi inesistente e la dinamicità del mercato avrà bisogno per lungo tempo ancora di capitali stranieri per rimanere tale.

Il Cile di Piñera è un gioiello, una “perla” sudamericana. Nonostante la crisi, continua a crescere. Piñera e il suo governo sono ben consapevoli che, nonostante lo scarso peso specifico, il Paese ogni giorno di più si configura come socio commerciale affidabile. Da qui la decisione del tour europeo per riaffermare e confermare la traiettoria cilena.

Le opportunità per l’Italia nell’attuale congiuntura

L’Italia non poteva certo lasciarsi scappare questa occasione. Il Brasile e l’Argentina, sia per tradizione che per la presenza di una forte comunità italiana, hanno sempre rappresentato la destinazione naturale degli investimenti sudamericani del Belpaese. Sfortunatamente, l’Argentina ha tradito la fiducia dei mercati e solo recentemente sta togliendosi di dosso il marchio del crack. Il Brasile è, ormai, una potenza regionale a tutti gli effetti, per certi versi globale, capace di dialogare alla pari con l’America di Bush e di Obama e forte della cornice multilaterale BRICS. In virtù di questa sua condizione, e scommettendo sulle sue potenzialità di crescita, sta rafforzando molto i suoi vincoli con questi paesi. I quali, tra l’altro, in diversa misura, sono in crescita ed estremamente attivi nell’area delle nuove tecnologie, particolarmente nel settore dello sfruttamento energetico (soprattutto il Brasile), data la necessità di trovare un modo sostenibile per mantenere gli attuali standard di sviluppo.

Poco spazio rimane dunque per l’Italia e per lo più limitato all’industria automobilistica brasiliana (sulla quale, tra l’altro, un Paese non dovrebbe fare completo affidamento per la sua crescita in epoca postindustriale), in cui essa vanta una presenza storica.

Inoltre, in un momento di crisi come quello attuale nel bacino del Mediterraneo e gli investimenti italiani nella regione in pericolo, il Cile potrebbe rappresentare un’alternativa valida nel breve e medio periodo, con tutte le potenzialità per trasformarsi in una realtà commerciale stabile nel lungo.

Finora l’Italia non si è dimostrata capace di mettersi al comando dell’iniziativa europea nel Mediterraneo, né in ambito strategico, né in quello commerciale o relativo alla cooperazione. I “grandi” euroatlantici e la Russia hanno “schiaffeggiato” il governo italiano palesandone un certo grado di dilettantismo e improvvisazione nella gestione diplomatica delle crisi recenti, e lo hanno praticamente escluso da alcuni importanti incontri riguardanti gli sconvolgimenti nordafricani e del Vicino Oriente (“Rivoluzione” Araba, dossier nucleare iraniano, modalità e opportunità dell’intervento in Libia), accusando Roma di adottare storicamente una linea d’azione internazionale che risente spesso di influenze dovute a esigenze commerciali.

Dunque, visti i presupposti, soprattutto in questo periodo, la “svolta” sudamericana potrebbe rappresentare un modo per dare nuova linfa sia alla manovra diplomatica che a quella commerciale italiana (ormai, di fatto, indistinguibile dalla prima). Il rafforzamento delle relazioni con La Moneda sarà estremamente vantaggioso per Roma e schiuderà nuovi orizzonti commerciali. In Europa la Francia, oltre a Germania e Spagna, già da tempo vanta solidi legami con il paese del Cono Sud, mentre l’Italia continuava ancora a guardare al di qua delle Ande. È evidentemente arrivato il momento di penetrare profondamente il mercato cileno, affinché entrambi i paesi possano trarne beneficio.

Povertà: il vero freno alla crescita cilena

Non mancano, tuttavia, le note negative in questa riscoperta relazione italo-cilena. Non è una novità il coinvolgimento di imprese italiane nel progetto energetico Hidroaysen, che promette di sconvolgere alcune vallate patagoniche, spazzandone via bellezza naturali e risorse, e che è stato fortemente osteggiato, anche in modo violento, all’interno del Paese dalla società civile.

Inoltre, durante la visita è mancato un approfondimento sui temi della cooperazione internazionale. Ciò è dovuto, oltre alla mancanza di volontà politica o alla esigenze di “agenda”, al fatto che Roma, negli ultimi anni, abbia delegato la sua attività di cooperazione allo sviluppo a organismi multilaterali, ai programmi comunitari e al sistema ONU. Il resto viene fatto dalle organizzazioni private. Inoltre, si confida negli scambi commerciali come strumento per produrre ricchezza presso le comunità di destinazione.

Piñera avrebbe potuto sottolineare la necessità per il Cile di trovare nuovi sistemi, ideologici e pratici, per affrontare il suo maggior problema, ovvero l’indice di povertà, che continua a drenare energie e punti percentuali alla crescita cilena, altrimenti solida. Non va dimenticato, inoltre, che Santiago ha dovuto rimboccarsi le maniche per lenire le sofferenze del terremoto del 2010, quando il IV governo Berlusconi (a capo di uno dei paesi più ricchi e sviluppati al mondo) ha organizzato un vertice del G8 nella regione abruzzese per sensibilizzare i leader del gruppo e spronarli a impegnarsi per finanziare la ricostruzione dei centri colpiti da un terremoto che certo non ha provocato, da un punto di vista strettamente tecnico – senza voler con questo mancare di rispetto alle vittime – la stessa distruzione di quello cileno o di quello, più recente, del Giappone.

Non si tratta di chiedere un’elemosina internazionale, bensì di sottolineare chiaramente ai soci europei il fatto che, per continuare a rappresentare un porto sicuro e lucroso per gli investimenti esteri, il Cile deve eliminare il problema della povertà immediatamente: su una popolazione di 16 milioni di abitanti circa, il 20% di poveri è decisamente troppo. I fondi europei e la generazione di nuovi posti di lavoro grazie agli investimenti stranieri sono un buon inizio, ma il commercio non è certo l’elisir per tutti i mali cileni.

* Francesco Saverio Angiò ha conseguito la Laurea Specialistica in Scienze Internazionali e Diplomatiche nel 2009, ottenendo il massimo dei voti dopo aver difeso una tesi sulla politica estera cilena, da cui traspare il suo interesse per il Sudamerica e la vocazione per l’analisi delle relazioni internazionali. Dopo un’esperienza nella cooperazione internazionale presso una ONG, è attualmente in attesa di iniziare un periodo di formazione presso l’UNRIC a Bruxelles.

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”

Jean Thiriart, L’Europa: un impero di 400 milioni di uomini

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Jean Thiriart

L’Europa: un impero di 400 milioni di uomini

Prefazione all’edizione italiana di Claudio Mutti

Traduzione a cura di Giuseppe Spezzaferro.
Pagine : 232

Prezzo : 24,00€

Editore : Avatar Éditions
Data di Pubblicazione : 05/2011

Collana : Segmenti
Dimensioni (cm) : 14,85 x 21
ISBN/EAN : 9781907847042

Per ordinazioni:
http://www.avatareditions.com/italia/27/leuropa-un-impero-di-400-milioni-di-uomini

L’impero che verrà

di Claudio Mutti

 

L’ultimo ricordo che ho di Jean Thiriart è una lettera che mi scrisse alcuni mesi prima di morire: mi chiedeva di indicargli una località isolata sugli Appennini, dove potersi accampare un paio di settimane per fare qualche escursione sui monti. Quasi settantenne, era ancora pieno di vitalità: non si lanciava più col paracadute, però navigava con la barca a vela sul Mare del Nord.

 

Negli anni Sessanta, in qualità di giovanissimo militante della Giovane Europa, l’organizzazione da lui diretta, ebbi modo di vederlo diverse volte. Lo conobbi a Parma, nel 1964, accanto a un monumento che colpì in maniera particolare la sua sensibilità di “eurafricano”: quello di Vittorio Bottego, l’esploratore del corso del Giuba. Poi lo incontrai in occasione di alcune riunioni della Giovane Europa e in un campeggio sulle Alpi. Nel 1967, alla vigilia dell’aggressione sionista contro l’Egitto e la Siria, fui presente a un’affollata conferenza che egli tenne in una sala di Bologna, dove spiegò perché l’Europa doveva schierarsi a fianco del mondo arabo e contro l’entità sionista. Nel 1968, a Ferrara, partecipai a un convegno di dirigenti della Giovane Europa, nel corso del quale Thiriart sviluppò a tutto campo la linea antimperialista: “Qui in Europa, la sola leva antiamericana è e resterà un nazionalismo europeo ‘di sinistra’ (…) Quello che voglio dire è che all’Europa sarà necessario un nazionalismo di carattere popolare (…) Un nazionalcomunismo europeo avrebbe sollevato un’ondata enorme di entusiasmo. (…) Guevara ha detto che sono necessari molti Vietnam; e aveva ragione. Bisogna trasformare la Palestina in un nuovo Vietnam”. Fu l’ultimo suo discorso che ebbi modo di ascoltare.

 

Jean-François Thiriart era nato a Bruxelles il 22 marzo 1922 da una famiglia di cultura liberale originaria di Liegi. In gioventù militò attivamente nella Jeune Garde Socialiste Unifiée e nell’Union Socialiste Anti-Fasciste. Per un certo periodo collaborò col professor Kessamier, presidente della società filosofica Fichte Bund, una filiazione del movimento nazionalbolscevico amburghese; poi, assieme ad altri elementi dell’estrema sinistra favorevoli ad un’alleanza del Belgio col Reich nazionalsocialista, aderì all’associazione degli Amis du Grand Reich Allemand. Per questa scelta, nel 1943 fu condannato a morte dai collaboratori belgi degli Angloamericani: la radio inglese inserì il suo nome nella lista di proscrizione che venne comunicata ai résistants con le istruzioni per l’uso. Dopo la “Liberazione”, nei suoi confronti fu applicato un articolo del Codice Penale belga opportunamente rielaborato a Londra nel 1942 dalle marionette belghe degli Atlantici. Trascorse alcuni anni in carcere e, quando uscì, il giudice lo privò del diritto di scrivere.

 

Nel 1960, all’epoca della decolonizzazione del Congo, Thiriart partecipa alla fondazione del Comité d’Action et de Défense des Belges d’Afrique, che di lì a poco diventa il Mouvement d’Action Civique. In veste di rappresentante di questo organismo, il 4 marzo 1962 Thiriart incontra a Venezia gli esponenti di altri gruppi politici europei; ne esce una dichiarazione comune, in cui i presenti si impegnano a dar vita a “un Partito Nazionale Europeo, centrato sull’idea dell’unità europea, che non accetti la satellizzazione dell’Europa occidentale da parte degli USA e non rinunci alla riunificazione dei territori dell’Est, dalla Polonia alla Bulgaria passando per l’Ungheria”. Ma il progetto del Partito europeo abortisce ben presto, a causa delle tendenze piccolo-nazionaliste dei firmatari italiani e tedeschi del Manifesto di Venezia.

La lezione che Thiriart trae da questo fallimento è che il Partito europeo non può nascere da un’alleanza di gruppi e movimenti piccolo-nazionali, ma deve essere fin da principio un’organizzazione unitaria su scala europea. Nasce così, nel gennaio 1963, la Giovane Europa (Jeune Europe), un movimento fortemente strutturato che ben presto si impianta in Belgio, Olanda, Francia, Svizzera, Austria, Germania, Italia, Spagna, Portogallo, Inghilterra. Il programma della Giovane Europa si trova esposto nel Manifesto alla Nazione Europea, che esordisce così: “Tra il blocco sovietico e il blocco degli USA, il nostro compito è di edificare una grande Patria: l’Europa unita, potente, comunitaria (…) da Brest sino a Bucarest”. La scelta è a favore di un’Europa decisamente unitaria: “Europa federale o Europa delle Patrie sono delle concezioni che nascondono la mancanza di sincerità e la senilità di coloro che le difendono (…) Noi condanniamo i piccoli nazionalismi che mantengono le divisioni tra i cittadini della NAZIONE EUROPEA”. L’Europa deve optare per una neutralità forte e armata e disporre di una forza atomica propria; deve “ritirarsi dal circo dell’ONU” e sostenere l’America Latina, che “lotta per la sua unità e per la sua indipendenza”. Il Manifesto abbozza un’alternativa ai sistemi sociali vigenti nelle due Europe, proclamando la “superiorità del lavoratore sul capitalista” e la “superiorità dell’uomo sul formicaio”: “Noi vogliamo una comunità dinamica con la partecipazione nel lavoro di tutti gli uomini che la compongono”. Alla democrazia parlamentare e alla partitocrazia viene contrapposto una rappresentanza organica: “un Senato politico, il Senato della Nazione Europea basato sulle province europee e composto delle più alte personalità nel campo della scienza, del lavoro, delle arti e delle lettere; una Camera sindacale che rappresenti gli interessi di tutti i produttori dell’Europa liberata dalla tirannia finanziaria e politica straniera”. Il Manifesto conclude così: “Noi rifiutiamo l’Europa teorica. Noi rifiutiamo l’Europa legale. Noi condanniamo l’Europa di Strasburgo per crimine di tradimento. (…) O vi sarà una NAZIONE o non vi sarà indipendenza. A questa Europa legale che rifiutiamo, noi opponiamo l’Europa legittima, l’Europa dei popoli, la nostra Europa. NOI SIAMO LA NAZIONE EUROPEA”.

Accanto a una scuola per la formazione politica dei militanti (che dal 1966 al 1968 pubblica mensilmente “L’Europe Communautaire”), la Giovane Europa cerca di dar vita a un Sindacato Comunitario Europeo e, nel 1967, a un’associazione universitaria, Università Europea, che sarà attiva particolarmente in Italia. Dal 1963 al 1966 viene pubblicato un organo di stampa in lingua francese, “Jeune Europe” (con frequenza prima settimanale, poi quindicinale); tra i giornali in altre lingue va citato l’italiano “Europa Combattente”, che nel medesimo periodo riesce a raggiungere una frequenza mensile. Dal 1966 al 1968 esce “La Nation Européenne”, mentre in Italia “La Nazione Europea” continuerà ad uscire, a cura dell’autore di queste righe, anche nel 1969 (un ultimo numero sarà pubblicato a Napoli nel 1970 da Pino Balzano).

“La Nation Européenne”, mensile di grande formato che in certi numeri raggiunge la cinquantina di pagine, oltre ai redattori militanti annovera collaboratori di un certo rilievo culturale e politico: il politologo Christian Perroux, il saggista algerino Malek Bennabi, il deputato delle Alpi Marittime Francis Palmero, l’ambasciatore siriano Selim el-Yafi, l’ambasciatore iracheno Nather el-Omari, , i dirigenti del FLN algerino Chérif Belkacem, Si Larbi e Djamil Mendimred, il presidente dell’OLP Ahmed Choukeiri, il capo della missione vietcong ad Algeri Tran Hoai Nam, il capo delle Pantere Nere Stokeley Carmichael, , il fondatore dei Centri d’Azione Agraria principe Sforza Ruspali, i letterati Pierre Gripari e Anne-Marie Cabrini. Tra i corrispondenti permanenti, il professor Souad el-Charkawi (al Cairo) e Gilles Munier (ad Algeri).

Sul numero di febbraio del 1969 appare una lunga intervista rilasciata a Jean Thiriart dal generale Peròn, il quale dichiara di leggere regolarmente “La Nation Européenne” e di condividerne totalmente le idee. Dal suo esilio madrileno, l’ex presidente argentino riconosce in Castro e in Guevara i continuatori della lotta per l’indipendenza latinoamericana intrapresa a suo tempo dal movimento giustizialista: “Castro – dice Peròn – è un promotore della liberazione. Egli si è dovuto appoggiare ad un imperialismo perché la vicinanza dell’altro imperialismo minacciava di schiacciarlo. Ma l’obiettivo dei Cubani è la liberazione dei popoli dell’America Latina. Essi non hanno altra intenzione se non quella di costituire una testa di ponte per la liberazione dei paesi continentali. Che Guevara è un simbolo di questa liberazione. Egli è stato grande perché ha servito una grande causa, finché ha finito per incarnarla. È l’uomo di un ideale”.

Per quanto riguarda la liberazione dell’Europa, Thiriart pensa a costituire delle Brigate Rivoluzionarie Europee che intraprendano la lotta armata contro l’occupante statunitense. Già nel 1966 egli ha avuto un colloquio col ministro degli Esteri cinese Chu En-lai, a Bucarest, e gli ha chiesto di appoggiare la costituzione di un apparato politico-militare europeo che combatta contro il nemico comune (1). Nel 1967 l’attenzione di Thiriart si dirige sull’Algeria: “Si può, si deve prendere in considerazione un’azione parallela e auspicare la formazione militare, in Algeria, fin da ora, di una sorta di Reichswehr rivoluzionaria europea. Gli attuali governi di Belgio, Paesi Bassi, Inghilterra, Germania, Italia sono in diversa misura i satelliti, i valletti di Washington; perciò noi nazionaleuropei, noi rivoluzionari europei, dobbiamo andare a formare in Africa i quadri di una futura forza politico-militare che, dopo aver servito nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente, un giorno potrà battersi in Europa per farla finita coi Kollabos di Washington. Delenda est Carthago” (2). Nell’autunno del 1967 Gérard Bordes, direttore de “La Nation Européenne”, si reca in Algeria, dove entra in contatto con la Segreteria Esecutiva del FLN e col Consiglio della Rivoluzione. Nell’aprile del 1968 Bordes ritorna ad Algeri con un Mémorandum à l’intention du gouvernement de la République Algérienne firmato da lui stesso e da Thiriart, nel quale sono contenute le proposte seguenti: “Contributo europeo alla formazione di specialisti in vista della lotta contro Israele; preparazione tecnica della futura azione diretta contro gli Americani in Europa; creazione di un servizio d’informazioni antiamericano e antisionista in vista di un’utilizzazione simultanea nei paesi arabi e in Europa”.

Siccome i contatti con l’Algeria non hanno nessun seguito, Thiriart si rivolge ai paesi arabi del Vicino Oriente. D’altronde, il 3 giugno 1968 un militante di Jeune Europe, Roger Coudroy, è caduto con le armi in pugno sotto il fuoco sionista, mentre con un gruppo di al-Fatah cercava di penetrare nella Palestina occupata.
Nell’autunno del 1968 Thiriart viene invitato dai governi di Bagdad e del Cairo, nonché dal Partito Ba’ath, a recarsi nel Vicino Oriente. In Egitto assiste ai lavori d’apertura del congresso dell’Unione Socialista Araba, il partito egiziano di governo; viene ricevuto da alcuni ministri e ha modo di incontrare lo stesso Presidente Nasser. In Iraq incontra diverse personalità politiche, tra cui alcuni dirigenti dell’OLP, e rilascia interviste a organi di stampa e radiotelevisivi. Ma lo scopo principale del viaggio di Thiriart consiste nell’instaurare una collaborazione che dia luogo alla creazione delle Brigate Europee, le quali dovrebbero partecipare alla lotta per la liberazione della Palestina e diventare così il nucleo di un’Armata di Liberazione Europea. Davanti al rifiuto del governo iracheno, determinato da pressioni sovietiche, questo scopo fallisce. Scoraggiato da questo fallimento e ormai privo di mezzi economici sufficienti a sostenere una lotta politica di un certo livello, Thiriart decide di ritirarsi dalla politica militante.

Dal 1969 al 1981, Thiriart si dedica esclusivamente all’attività professionale e sindacale nel settore dell’optometria, nel quale ricopre importanti funzioni: è presidente della Société d’Optométrie d’Europe, dell’Union Nationale des Optométristes et Opticiens de Belgique, del Centre d’Études des Sciences Optiques Appliquées ed è consigliere di varie commissioni della CEE. Ciononostante, nel 1975 rilascia una lunga intervista a Michel Schneider per “Les Cahiers du Centre de Documentation Politique Universitaire” di Aix-en-Provence ed assiste Yannick Sauveur nella compilazione di una tesi universitaria intitolata Jean Thiriart et le national-communautarisme européen (Università di Parigi, 1978). Quella di Sauveur è la seconda ricerca universitaria dedicata all’attività politica di Thiriart, poiché sei anni prima era stata presentata all’Università Libera di Bruxelles una tesi di Jean Beelen su Le Mouvement d’Action Civique.
Nel 1981, un attentato di teppisti sionisti contro il suo ufficio di Bruxelles induce Thiriart a riprendere l’attività politica. Riallaccia i contatti con un ex redattore della “Nation Européenne”, lo storico spagnolo Bernardo Gil Mugarza (3), il quale, nel corso di una lunga intervista (centootto domande), gli dà modo di aggiornare e di approfondire il suo pensiero politico. Prende forma in tal modo un libro che Thiriart conta di pubblicare in spagnolo e in tedesco, ma che è rimasto finora inedito.

All’inizio degli anni Ottanta, Thiriart lavora a un libro che non ha mai visto la luce: L’Empire euro-soviétique de Vladivostok à Dublin. Il piano dell’opera prevede quindici capitoli, ciascuno dei quali si articola in numerosi paragrafi. Come appare evidente dal titolo di quest’opera, la posizione di Thiriart nei confronti dell’Unione Sovietica è notevolmente cambiata. Abbandonata la vecchia parola d’ordine “Né Mosca né Washington”, Thiriart assume ora una posizione che potrebbe essere riassunta così: “Con Mosca contro Washington”. Già tredici anni prima, d’altronde, in un articolo intitolato Prague, l’URSS et l’Europe (“La Nation Européenne”, n. 29, novembre 1968), denunciando gli intrighi sionisti nella cosiddetta “primavera di Praga”, Thiriart aveva espresso una certa soddisfazione per l’intervento sovietico e aveva cominciato a delineare una “strategia dell’attenzione” nei confronti dell’URSS. “Un’Europa occidentale NON AMERICANA – aveva scritto – permetterebbe all’Unione Sovietica di svolgere un ruolo quasi antagonista degli USA. Un’Europa occidentale alleata, o un’Europa occidentale AGGREGATA all’URSS sarebbe la fine dell’imperialismo americano (…) Se i Russi vogliono staccare gli Europei dall’America – e a lungo termine essi devono necessariamente lavorare per questo scopo – bisogna che ci offrano, in cambio della SCHIAVITU’ DORATA americana, la possibilità di costruire un’entità politica europea. Se la temono, il modo migliore di scongiurarla consiste nell’integrarvisi”.

A Mosca, Thiriart ci va nell’agosto 1992 assieme a Michel Schneider, direttore della rivista “Nationalisme et République”. A fare gli onori di casa è Aleksandr Dugin, il quale nel marzo dello stesso anno ha accolto Alain de Benoist e Robert Steuckers e in giugno ha intervistato alla TV di Mosca l’autore di queste righe, dopo averlo presentato agli esponenti dell’opposizione “rosso-bruna”. L’attività di Thiriart a Mosca, dove si trovano anche Carlo Terracciano e Marco Battarra, delegati del Fronte Europeo di Liberazione, è intensissima. Tiene conferenze stampa; rilascia interviste; partecipa a una tavola rotonda con Prokhanov, Ligacev, Dugin e Sultanov nella redazione del giornale “Den’”, che pubblicherà sul n. 34 (62) un testo di Thiriart intitolato L’Europa fino a Vladivostok; ha un incontro con Gennadij Zjuganov; si intrattiene con altri esponenti dell’opposizione “rosso-bruna”, tra cui Nikolaj Pavlov e Sergej Baburin; discute con il filosofo e dirigente del Partito della Rinascita Islamica Gejdar Dzemal; partecipa a una manifestazione di studenti arabi per le vie di Mosca.
Il 23 novembre, tre mesi dopo il suo rientro in Belgio, Thiriart è stroncato da una crisi cardiaca.

Apparso nel 1964 in lingua francese, nel giro di due anni Un Empire de 400 millions d’hommes: l’Europe vide la luce in altre sei lingue europee. La traduzione italiana venne eseguita da Massimo Costanzo, (all’epoca redattore di “Europa Combattente”, organo italofono della Giovane Europa), il quale presentò l’opera con queste parole: “Il libro di Jean Thiriart è destinato a suscitare, per la sua profondità e per la sua chiarezza, un forte interesse. Ma da dove deriva questa chiarezza? Da un fatto molto semplice: l’autore ha usato un linguaggio essenzialmente politico, lontano dai fumi dell’ideologia e dalle costruzioni astratte o pseudometafisiche. Dopo una lettura attenta, nel libro si possono anche trovare impostazioni ideologiche, ma queste traspaiono dalle tesi politiche e non il contrario, come fino ad oggi è avvenuto nel campo nazionaleuropeo”.

 

Nonostante le riserve che alcune “impostazioni ideologiche” dell’Autore (eurocentrismo, razionalismo, giacobinismo ecc.) potranno suscitare, il lettore di questa seconda edizione italiana probabilmente concorderà con quanto scriveva Massimo Costanzo quarant’anni or sono; anzi, si renderà conto che questo libro, senza dubbio il più famoso dei testi redatti da Thiriart (4), è un libro preveggente ed attuale, per quanto inevitabilmente risenta della situazione storica in cui venne concepito. Preveggente, perché anticipa il crollo del sistema sovietico, e questo una decina d’anni prima dell’”eurocomunismo”; attuale, perché la descrizione dell’egemonia statunitense in Europa è ancor oggi un dato reale; anzi, l’analisi thiriartiana dell’imperialismo si avvale della lettura di un autore come James Burnham, che già negli anni Sessanta candidava gli USA al dominio mondiale assoluto.

Nella mia biblioteca conservo un esemplare della prima edizione di questo libro (“édité à Bruxelles, par Jean Thiriart, en Mai 1964”). La dedica che l’Autore vi scrisse di suo pugno contiene un’esortazione di cui vorrei si appropriassero i lettori delle nuove generazioni, questa: “Votre jeunesse est belle. Elle a devant elle un Empire à bâtir“. Diversamente da Luttwak e da Toni Negri, Thiriart sapeva bene che l’Impero è l’esatto contrario dell’imperialismo e che gli Stati Uniti non sono Roma, bensì Cartagine.

 

(1) Nel 1985 Thiriart rievocò l’episodio nei termini seguenti. “Nella sua fase iniziale, il mio incontro con Chou En-lai non fu che uno scambio di aneddoti e ricordi. Chou En-lai si interessò ai miei studi sulla scrittura cinese ed io al suo soggiorno in Francia che per lui rappresentava un gradevole ricordo giovanile. La conversazione si orientò poi sul tema degli eserciti popolari – tema caro tanto a lui quanto a me. Le cose si guastarono quando progressivamente si arrivò al concreto. Dovetti subire allora un vero e proprio corso di catechismo marxista-leninista. Chou stese poi l’inventario dei vari errori psicologici commessi dall’Unione Sovietica. E la lezione si spostò sulle nozioni di ‘alleanza gerarchica’ e ‘alleanza egualitaria’. Per distendere l’ambiente, affrontai il tema dei disordini che avevo organizzato a Vienna nel 1961, durante l’incontro Krusciov-Kennedy. Ma il tentativo di fargli accettare il concetto della lotta globale quadricontinentale di tutte le forze anti-americane nel mondo, quali che siano i loro orientamenti ideologici, fallì. Attirai a tal scopo la sua attenzione sul fatto che era anche l’opinione del generale Peròn, un amico di lunga data. Si inalberò un po’ quando gli feci notare che in Argentina Peròn – sul piano psicologico – era una forza incommensurabilmente più forte che il comunismo. Io sono un uomo pragmatico. Gli domandai dunque dei mezzi – del denaro per sviluppare la nostra stampa ed un santuario per la nostra organizzazione – per la preparazione e la strutturazione di un apparato politico-militare rivoluzionario europeo. Mi rinviò ai suoi servizi. Il solo risultato fu, alla fine dell’incontro, un eccellente pranzo, consumato in un clima molto disteso. Ricomparvero allora gli ufficiali rumeni, che non avevano assistito agli incontri politici. In seguito, non riuscii ad ottenere nulla dai servizi cinesi, la cui incomprensione dell’Europa era totale sia sul piano psicologico che su quello politico” (Da Jeune Europe alle Brigate Rosse. Antiamericanismo e logica dell’impegno rivoluzionario, Società Editrice Barbarossa, Milano 1992, pp. 24-25).
(2) J. Thiriart, USA: un empire de mercantis, “La Nation Européenne”, 21, ottobre 1967, p. 7.
(3) Autore di España en llamas 1936, Acervo, Barcelona 1968.
(4) Oltre a questo libro, Thiriart pubblicò anche La Grande Nation. 65 thèses sur l’Europe, Bruxelles 1965 (ed. it. La Grande Nazione. 65 tesi sull’Europa, Milano s. d.; 2° ed. italiana Società Editrice Barbarossa, Milano 1993; ed. tedesca Das Vierte Reich: Europa, Bruxelles 1966). Nel 1967 Thiriart progettò un libro intitolato Libération et unification de l’Europe. L’incarico di redigere gli ottocento paragrafi di questa opera venne assegnato a un collettivo composto di redattori della “Nation Européenne”.

Il risveglio repubblicano: gli Usa verso il 2012

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Le campagne elettorali per le prossime presidenziali sono ai nastri di partenza. I motori si sono già accesi e il dibattito politico sta entrando nel vivo. Obama ha già annunciato ufficialmente la sua ricandidatura per il secondo mandato e le risposte dal fronte repubblicano non sono tardate: a oggi sono nove i contendenti ufficiali al titolo di sfidante del presidente uscente. L’occasione per il Partito Repubblicano è storica, la difficile congiuntura socio economica degli Usa lo ha fatto balzare in cima agli indici di gradimento tra gli elettori insoddisfatti. Ma nonostante ciò il Gop ha scelto per ora di mantenere un basso profilo e di marciare verso le Primarie con prudenza a dimostrazione della delicatezza del momento storico.

 

La data è già fissata: si voterà il 6 novembre 2012. L’attesa è spasmodica, il dibattito politico è in fibrillazione e i due principali Partiti stanno affilando le armi in vista di un appuntamento elettorale denso di carica simbolica. Se infatti l’elezione di Obama era entrata di diritto nella Storia ancora prima di verificarsi, la sua corsa per la conquista del secondo mandato potrebbe ben presto assumere i connotati di una questione di principio. Gli applausi erano scattati unanimi e quasi bipartisan per festeggiare l’elezione del primo presidente afro americano e l’aspettativa intorno alla sua cifra politica aveva un che di mistico e provvidenziale. ‘Change’ era stato il suo slogan, e ‘Yes we can’ le sue parole d’ordine e di tutti i suoi sostenitori. Purtroppo la difficile congiuntura socio – economica che ha investito il mondo negli ultimi tre anni ha impedito la realizzazione efficace delle riforme promesse. Obama lo aveva detto chiaramente quella notte a Chicago, festeggiando la sua elezione: quattro anni non sarebbero bastati per mettere in pratica il cambiamento necessario, due mandati sarebbero stati indispensabili per riuscire ad arginare la crisi prima e realizzare le riforme poi. Gli elettori però non ne sono più convinti. La maggior parte di loro ritiene che le risposte politiche alla crisi economica non siano state convincenti e che l’atteggiamento ‘statalista’ di Obama non sia più la strada giusta da percorrere. È qui che nasce e trova le sue radici il Tea Party, tra il malumore della gente e una diffusa sensazione di inadeguatezza. Il movimento ha saputo insinuarsi nella base elettorale repubblicana e indipendente, ha soffiato sul fuoco della scontentezza, ha individuato in Obama il responsabile del disastro economico del Paese e si è schierato contro l’establishment di Washington, pur simpatizzando per la destra conservatrice. Il merito del Gop è stato quello di aver saputo strizzare un occhio al movimento mantenendo il piede ben saldo all’interno dei principali circuiti politici per intercettare le simpatie degli elettori indipendenti e dei democratici insoddisfatti. Questa è un po’ la storia di Sarah Palin, ma anche di altri big del Partito che hanno capito l’importanza di controllare gli umori della base attraverso un meccanismo di soft power moderno in tutto e per tutto. Non va trascurato, infatti, che, pur con un punto di vista nettamente conservatore, il Tea Party fece fin da subito dell’anti politica la sua parola d’ordine contestando il lobbismo dei partiti e la corruzione dei politici. Con il senno di poi verrebbe da chiedersi che cosa sarebbe potuto accadere se il Gop non avesse avuto la lungimiranza di porre il movimento sotto il suo controllo. A guardare bene è stato il primo movimento solido di dichiarata insofferenza nei confronti della classe dirigente al quale ne sono seguiti molti altri in diverse zone nel mondo proprio negli scorsi mesi. Si pensi agli Indignados spagnoli, piuttosto che ai movimenti della cosiddetta Primavera Araba. Se da una parte il confronto non regge perché ovviamente la situazione socio – politico – economica degli Stati Uniti rappresenta quanto di più lontano ci si possa immaginare da quella di paesi come l’Egitto o la Tunisia, dall’altra la richiesta di una maggiore trasparenza della Politica e di una presa di coscienza dei problemi del Paese reale da parte delle amministrazioni avvicina ideologicamente la rabbia dei fondatori del Tea Party a quella degli Indignados. La maggiore partecipazione politica dell’opinione pubblica statunitense e la maggiore rigidità del Sistema hanno probabilmente impedito la deriva anarchica del movimento. Infatti, oltre alla già menzionata lungimiranza e maliziosità di alcuni big del Gop che hanno voluto e saputo corteggiare il Tea Party, la società statunitense è sicuramente molto legata al concetto di partecipazione politica nella sua versione più tradizionalista. La cultura democratica del Paese, le origini della sua Costituzione e il forte sentimento nazionalista che pervade la società e il riconoscersi parte di un progetto di Civiltà più che di una Nazione ha probabilmente incoraggiato l’imparentamento del movimento con il Partito Repubblicano.

 

Il termometro politico

 

La campagna elettorale inizierà ufficialmente soltanto il prossimo gennaio con l’avvio delle Primarie. Nel 2008 già a Febbraio i numeri avevano consegnato la vittoria a John McCain ma per l’annuncio ufficiale si aspettò la Convention del Partito nell’agosto successivo. Se da una parte ci si potrebbe aspettare anche questa volta il rigido rispetto dello scadenziario elettorale, ci sono elementi che invece potrebbero far infuocare il dibattito e la corsa per la nomination molto prima della Convention, prevista a Tampa Bay (Florida) per la settimana del 27 Agosto 2012, un po’ come accadde tre anni fa nel confronto Obama – Clinton. La sensazione di poter effettivamente strappare la Casa Bianca a Obama è diffusa e conta su elementi molto concreti. I sondaggi, per esempio, danno già per archiviato l’effetto positivo dell’uccisione di Osama Bin Laden, infondendo un rinnovato ottimismo tra le file del Gop.

 

I maggiori organi di informazione statunitensi stanno da tempo sondando il terreno intorno al presidente e tra gli elettori. Alcuni giornali somministrano già settimanalmente interviste e sondaggi per testare l’umore della base e cercare di indovinare che cosa accadrà l’anno prossimo. L’attenzione in questi giorni è ovviamente tutta rivolta al Partito Repubblicano perché saranno proprio le scelte del Gop a segnare il destino politico di questa amministrazione e della prossima. Il dato che sembra rincorrersi negli ultimi mesi è quello che attesta il 39% delle preferenze degli elettori per Barack Obama e il 44% per un virtuale candidato repubblicano. Questo dato dimostra che la sfiducia nei confronti del Presidente è talmente alta che una larghissima fetta di possibili elettori preferirebbe accordare la propria preferenza a un candidato di destra, indipendentemente dalla sua personalità politica, dal suo programma o dai suoi intenti, piuttosto che confermare l’attuale amministrazione. La disoccupazione e l’avanzata del deficit pubblico sono i nodi del malcontento dell’opinione pubblica. Nonostante i timidi segnali positivi che gli indici di settore hanno iniziato a diffondere da qualche mese, gli americani non ritengono che le politiche adottate da Obama siano state sufficienti per risollevare le sorti dell’economia del Paese. Ed è proprio su queste tematiche chiave che si stanno focalizzando le campagne elettorali dei contendenti al titolo di candidato ufficiale del Partito alle prossime elezioni.

 

Le mosse dei repubblicani

 

La prudenza con cui il Gop si sta muovendo è frutto della consapevolezza di cavalcare un’ondata di preferenze dovute più all’insoddisfazione nei confronti dell’attuale amministrazione che a particolari meriti o simpatie nei confronti dei dirigenti del Partito. Questo atteggiamento di cautela è stato il filo conduttore del primo dibattito pubblico organizzato dalla Cnn in New Hampshire tra i candidati ufficiali alla nomination repubblicana lo scorso 13 Giugno. Presente all’evento soltanto chi aveva già formalizzato la propria candidatura o chi aveva anticipato che l’avrebbe fatto in quella sede. I nomi: Mitt Romney, Michele Bachmann, Rick Santorum, Tim Pawlenty, Newt Gingrich, Ron Paul e Herman Cain (negli ultimi giorni si sono aggiunti Gary Johnson e Jon Huntsman). Il dibattito, moderato da John King, si è svolto all’insegna di un insolito fair play e con toni piuttosto pacati. La distanza dall’amministrazione Obama è stata rimarcata unanimemente, mentre i temi più toccati hanno spaziato dalla contestazione della Riforma Sanitaria alla necessità di mettere in campo politiche concrete a favore dell’occupazione. Se da un lato la pacatezza del dibattito ha stupito i commentatori, dall’altro si è reso immediatamente chiaro che l’intento di questo primo appuntamento di campagna elettorale fosse essenzialmente quello di diffondere a livello nazionale la visibilità dei candidati evitando di correre il rischio di cadere subito nel circo mediatico del litigio in diretta. L’appuntamento televisivo non ha sortito grandi effetti tra l’opinione pubblica che, secondo i sondaggi, è rimasta piuttosto indifferente al dibattito e non ha ancora assunto una posizione definitiva e stabile nei confronti della gara per la nomination. Le interviste realizzate nei giorni immediatamente seguenti al confronto tv hanno confermato Mitt Romney in testa agli indici di gradimento, con un indice di popolarità molto alto, prossimo al 100% e uno di fiducia attestato intorno al 16%. La vera rivelazione è stata invece la candidatura di Michele Bachmann, senatrice repubblicana del Minnesota, molto vicina al Tea Party. Secondo Gallup la sua popolarità ha raggiunto valori intorno al 70%, in netto miglioramento rispetto alle rilevazioni dello scorso Febbraio che la attestavano al 50%. Durante il dibattito in New Hampshire la Bachmann ha sapientemente cavalcato le parole d’ordine del Tea Party risvegliando le coscienze degli elettori apolitici e affascinando quelle dei repubblicani più conservatori ammiccando ai temi cari alla destra statunitense. Dalla dura rappresaglia contro ‘Obamacare’, la contestatissima riforma del settore sanitario voluta dal Presidente, all’altrettanto contestata partecipazione alla campagna di Libia. La fiducia degli intervistati nei confronti di Bachmann possibile sfidante di Obama nel 2012 ha superato quella accordata a Romney, aggirandosi intorno al 24%.

 

Nonostante il vantaggio virtuale del Partito Repubblicano il Washington Post non dà per scontata una sua vittoria alle prossime presidenziali. Secondo l’autorevole quotidiano, infatti, sarebbe ancora consistente la fetta di elettori che esprimono una sostanziale fiducia nella leadership di Obama nonostante la difficile congiuntura economica. Inoltre, sottolinea il Post, durante lo stesso tipo di rilevazioni realizzate quattro anni fa, cioè alla vigilia della corsa presidenziale del 2008, gli elettori repubblicani si dichiaravano in generale più soddisfatti nei confronti dei candidati lanciati dal Partito rispetto a quanto non lo siano oggi. Segno dell’incertezza con cui la dirigenza del Gop si accinge ad affrontare la sfida elettorale del prossimo anno. In quest’ottica è interessante sottolineare un recente studio di Gallup secondo il quale l’elettorato repubblicano si presenta oggi sostanzialmente spaccato in due. Da una parte un blocco costituito da circa il 50% degli intervistati (soprattutto maschi) secondo cui sarebbe necessario che la nomination venisse assegnata al candidato con le chancés migliori di vittoria in caso di confronto diretto con Obama, indipendentemente dal programma elettorale o dalla sua personalità politica. C’è poi un secondo blocco di sostenitori che preferirebbe assegnare la candidatura meritocraticamente allo sfidante con il profilo politico più convincente. Nel 2007, invece, di fronte alla medesima questione soltanto 4 elettori repubblicani su 10 avevano ritenuto l’eleggibilità più importante della sostanza.

 

Le donne del GOP

 

È evidente che chi riuscirà a farsi strada attraverso questo clima di incertezza e confusione potrebbe risultare il candidato più convincente. Lo ha capito Michele Bachmann che non ha perso tempo e, ai segnali di incoraggiamento personale che hanno fatto seguito al dibattito in New Hampshire, ha subito fatto seguire una seconda mossa. A distanza di una settimana dall’evento televisivo è partita per Waterloo, Iowa, sua cittadina natale dove di fronte a una platea di amici, parenti e sostenitori ha pronunciato il suo discorso ufficiale di discesa in campo. Scegliendo l’Iowa come primo appuntamento elettorale, lo staff della Bachmann ha voluto inviare un duplice messaggio. Infatti, se questo è lo Stato dove la senatrice è cresciuta, è anche quello che rappresenta idealmente l’istituto delle Primarie essendo per tradizione uno dei primi a ospitarle durante l’anno elettorale. Con le parole che ha pronunciato davanti alla casa dove è nata ha voluto ribadire la propria origine ‘popolare’ annunciando di candidarsi per la gente e non per l’establishment, sottolineando così la sua stretta vicinanza al Tea Party e strizzando l’occhio agli elettori indipendenti. Soffiare sul vento dell’antipolitica potrebbe risultare la chiave vincente anche per mettere ko il suo principale avversario, Mitt Romney che invece rappresenta un candidato più solido proprio per la sua esperienza di governatore e di vecchia guardia del Partito. Nessun sondaggio nasconde, infatti, il continuo aumento di simpatizzanti del Tea Party e di conseguenza di coloro i quali si dichiarano stanchi di delegare a Washington le proprie richieste.

 

Ma c’è un però. E questo però si chiama Sarah Palin. L’ex governatrice dell’Alaska, che nel 2008 era in corsa per la vicepresidenza degli Usa insieme a McCain, potrebbe rimescolare le carte in tavola se decidesse di annunciare ufficialmente la sua candidatura alla nomination. La Palin è considerata il simbolo del Tea Party, essendo stata uno dei primi big del Gop a schierarsi pubblicamente con il movimento suscitando anche qualche malumore nella pancia del Partito. Il suo indice di popolarità è alle stelle, riconosciuta dal 98% degli americani, e con le sue accuse al vetriolo contro l’establishment di Washington è riuscita a guadagnarsi un’importante fetta di consensi. L’ex governatrice non ha mai nascosto le sue ambizioni presidenziali e per questo i commentatori si aspettavano la sua partecipazione al dibattito in New Hampshire. E mentre l’annuncio ufficiale della sua candidatura è dato ancora per verosimile dai bookmakers, la sua esitazione continua a far discutere. Molti si dicono certi che la sua discesa in campo oscurerebbe quella della Bachmann, spaccando gli elettori del Tea Party che a quel punto si ritroverebbe a dover gestire due candidate alle Primarie. Trattandosi di un movimento ancora molto giovane, cresciuto sull’onda di un entusiasmo popolare più che all’interno di una struttura politica consolidata, il Tea Party potrebbe non essere in grado di sopportare una dialettica interna troppo accesa. Le due donne sono sempre state vicine, tanto che la Palin ha più volte appoggiato Michele Bachmann nelle sue battaglie politiche. Se fossero costrette ad affrontarsi come rivali rischierebbero di far scivolare lo scontro all’interno di quei canoni della retorica elettorale tanto invisi ai simpatizzanti del Movimento. Può darsi però che la prudenza della Palin sia dovuta anche ai non incoraggianti dati che i sondaggi hanno diffuso sul suo conto. Infatti, a fronte di un indice di popolarità altissimo, gli americani non sembrano riconoscere alla ex governatrice le capacità necessarie per adempiere all’incarico di Presidente degli Stati Uniti. E inoltre, la maggioranza degli elettori repubblicani intervistati ha dichiarato di non vedere di buon occhio Sarah Palin come sfidante di Obama nell’imminente corsa alla Casa Bianca.

 

Il vero problema che il Partito Repubblicano deve affrontare sta nel fatto che le preferenze che i sondaggi gli accordano si fondano quasi esclusivamente sull’insoddisfazione nei confronti dell’amministrazione Obama più che su un programma politico vero e proprio. Solo se il candidato finale del Gop sarà in grado di gestire politicamente e incanalare verso un programma credibile la delusione dell’elettorato, il Partito potrà iniziare a sperare seriamente di riconquistare la Presidenza del Paese.

 

 

* Matteo Finotto è laureato in Antropologia Culturale e laureando in Geografia presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università “Sapienza” di Roma

 

 

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