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Il trionfo di Ollanta Humala in Perù e l’integrazione dell’America indiolatina

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Fonte: http://www.enriquelacolla.com/sitio/notas.php?id=232
http://licpereyramele.blogspot.com/2011/06/otra-brecha-en-la-muralla-neoliberal.html

Il secondo turno delle elezioni peruviane ha visto la vittoria di Ollanta Humala. È un risultato molto positivo, nonostante il fatto che la vittoria sia arrivata grazie a uno scarto minimo. Tuttavia lo scarso margine in termini di voti, oltre all’esigenza del neoeletto di dover ridimensionare il suo programma per andare incontro a quei settori che difficilmente supporterebbero i suoi piani di rinnovare drasticamente la realtà del Paese, impongono un ripensamento a coloro che intravedono una svolta socialista ogniqualvolta qualcosa sembri entrare in contrasto con i punti chiave della politica imperialista nel mondo.

In ogni caso la vittoria del candidato nazionalista è di estrema importanza, a maggior ragione se viene vista nella prospettiva dello storico sviluppo che l’America Latina sta vivendo dalla fine del secolo scorso ad oggi. L’ondata di affermazione popolare iniziata con l’ascesa al potere di Chávez in Venezuela e l’elezione di Lula in Brasile, dei Kirchner in Argentina, del Frente Amplio in Uruguay, di Evo Morales in Bolivia e Rafael Correa in Ecuador, continua ancora oggi e, adesso, travolge il Perù proprio nel momento in cui gli Stati Uniti cercano di coordinare un fronte andino, caratterizzato da un rapporto di stretta collaborazione con l’ “Impero”, che sia in opposizione al Mercosur e che sia basato su un’ideologia di libero mercato.
Qualora si dovesse individuare un fattore che indichi l’unità sostanziale dei paesi latinoamericani, distrutta dalla balcanizzazione cui il continente andò incontro dopo le lotte per l’indipendenza, questo sarebbe rappresentato dalla simultaneità con cui, nelle diverse parti in cui tale unità si trova smembrata, si è prodotta una serie di sviluppi simili a livello sociale.

Le dittature militari, che hanno spazzato via la rappresentanza popolare e si sono rette sulla “dottrina dello shock” al fine di imporre un riordinamento sociale spietato, proliferarono in tutto il continente durante gli anni ’70 senza soluzione di continuità; le politiche di ristrutturazione economica imposte dal FMI non sono state abbandonate per molto tempo, neanche dopo il crollo dei regimi militari e, alla fine, nel 1989, con i disordini del “caracazo” esplose quella reazione popolare che ha messo fine al capitalismo selvaggio, per poi iniziare ad assumere, alla fine del secolo, forme politiche più o meno inedite.

Ciò è valso anche per il Perù. La strada intrapresa è stata contraddistinta da episodi che rimandano a quanto successo altrove. Nel 1975 venne rovesciato il governo nazionalista del generale Velasco Alvarado, che aveva realizzato la riforma agraria, assumeva posizioni vicine al popolo e sembrava essere indipendente in materia di politica estera. Venne destituito da un altro militare, il generale Morales Bermúdez, che si prodigò per annullare i risultati raggiunti durante i sette anni precedenti. Nel 1985 fu il momento di Alan García, con un programma abbastanza audace il cui perno principale era costituito dall’obiettivo di una moratoria riguardante il debito estero peruviano; tuttavia Garcia crollò, non avendo trovato appoggio per la sua causa presso altri paesi della regione e subendo, inoltre, le critiche del FMI, i colpi inferti dal mercato e la guerriglia di Sendero Luminoso. Quest’ultimo, similmente ad altri movimenti di estrema sinistra del subcontinente, si rifugiava in un’arroganza armata irragionevole, configurando in tal modo un ostacolo per qualsiasi tentativo razionale di soluzione ai problemi del Paese, mentre, al contempo, forniva ai settori reazionari il pretesto per agire in modo repressivo sulla società nel suo insieme.

La tendenza involutiva è stata cavalcata da Alberto Fujimori, il quale, mentre lottava contro Sendero – con pratiche non rispettose dei diritti umani – usava il pugno di ferro dello Stato contro formazioni popolari legali contrarie al governo. Così come in Argentina o in Cile – o anche in Brasile – i tumulti sovversivi hanno fatto da detonatore per l’uso di metodi atti ad annientare la capacità di resistenza del movimento popolare. I principi della “dottrina dello shock” erano, così, ben presenti.
A partire da quel momento, con buona pace delle numerose voci sulla corruzione e gli innumerevoli scandali finanziari, il modello neoliberale si instaurò fermamente in Perù. Nessuno tra coloro che occuparono la poltrona presidenziale osò criticarlo. Non lo fece Alejandro Toledo, tantomeno il redivivo Alan García, che tornò al governo predicando l’esatto contrario di quello che aveva sostenuto durante il suo primo mandato. Durante i decenni passati i frutti della politica neoliberale sono stati indicati dalla stampa di parte come un “successo”. Tuttavia si è trattato di un successo simile a quelli di Pinochet e Menem. Ovverosia, si è avuto un aumento della concentrazione della ricchezza e una riduzione nella redistribuzione sociale della stessa, fattori che non contribuiscono a risolvere i problemi strutturali – povertà, perdita di sovranità in ambito economico – che affliggono il Paese.

La campagna mediatica di terrore scatenata contro Humala (sono stati rispolverati i suoi antecedenti golpisti contro Fujimori; lo si accusa di autoritarismo all’interno e sottomissione e subordinazione nei confronti di Hugo Chávez) non è riuscita nel suo tentativo di ostacolare la sua corsa alla presidenza, come invece è successo durante l’elezione di Alan García. Adesso dovrà ridimensionare il modello neoliberale, compito che non sarà facile e che richiederà, vista la debolezza della sua posizione di maggioranza, una certa abilità e destrezza al fine di indirizzare le politiche pubbliche verso un livello maggiore di equità sociale. Le prime dichiarazioni di Humala sono state caratterizzate da una notevole moderazione, anche se ciò non significa che egli abbia già rinunciato ai suoi piani. I giocatori vanno valutati a seconda di come giocano in campo, e non prima, dunque col passare del tempo si vedrà fino a che punto potrà rafforzare il suo programma originale con la messa in pratica. L’annuncio fatto circa l’intenzione di imporre una tassa ai profitti delle imprese minerarie al di sopra di un certo livello, la dichiarazione sulla volontà di rinegoziare i contratti che regolano lo sfruttamento e l’esportazione del gas peruviano e le sue esplicite manifestazioni di interesse verso il Mercosur, fanno pensare che voglia seguire il cammino tracciato. Sarebbe ancor più utile un’imposta sugli investimenti speculativi in Borsa che generano profitti. Tempo al tempo. Quest’ultima misura non è ancora stata adottata neanche da quei governi che si trovano in una posizione ben più solida di quella in cui si troverà Humala non appena metta piede nel palazzo presidenziale. Come quello argentino, per esempio. Sarebbe l’ideale se un provvedimento di questo tipo potesse essere adottato simultaneamente in tutti quei paesi che formano il blocco progressista latinoamericano. Ciò equivarrebbe a un nuovo atto fondante all’interno dell’esperienza dell’integrazione in Ibero America, cominciata a delinearsi con il Mercosur.

I settori reazionari stanno allerta riguardo a questi temi. La destra sistemica non ha impiegato molto a rendere la vita difficile al presidente eletto. Non appena noti i risultati delle consultazioni, la Borsa di Lima ha reagito con una caduta del 12 %. Il terrorismo economico, incancrenito dai mass media, sarà la prima sfida con cui Humala si dovrà confrontare. Fortunatamente, alla reazione involutiva è possibile opporre una tendenza progressista che persiste nella maggior parte del Sudamerica. Questo blocco ha visto delinearsi una minaccia nell’asse Messico–Colombia–Perù–Cile che veniva creato lungo l’arco andino. Il trionfo di Humala scongiura o, se non altro, indebolisce la minaccia di un polo neoliberale con gli Stati Uniti come referente a livello emisferico. Tutto ciò non va sottovalutato. In realtà, rappresenta molto. O, comunque, è abbastanza per provare la persistenza di una corrente liberatrice che non nasce né da un volontarismo illuminato, né da una congiuntura isolata, come è già successo varie volte in passato, bensì che sembra trarre origine da un’onda lunga che scaturisce dalle profondità della nostra storia e che sta trovando nella crisi globale che attanaglia il pianeta l’occasione necessaria per manifestarsi.

(traduzione di F. Saverio Angiò)


Perù: allo sprint la spunta Humala

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Ora è ufficiale: il nuovo presidente del Perù è Ollanta Humala. Nell’ incertissimo ballottaggio per le presidenziali tenutesi il 5 giugno, infatti, l’ ex militare presentatosi con la coalizione di sinistra Gana Perù ha battuto di un piccolissimo scarto percentuale la contendente Keiko Fujimori, figlia dell’ ex dittatore Alberto Fujimori. La vittoria sul filo  del rasoio di Humala dimostra che il paese sudamericano è diviso politicamente in due parti ed il neoeletto presidente sarà chiamato quindi a conquistare nei prossimi anni, con la sua politica di governo, l’ altra metà dell’ elettorato.

Voglia di cambiamento

<<Continueremo le cose buone che sono state fatte e correggeremo quelle sbagliate>> e ancora <<creeremo un governo di concertazione rappresentativo delle forze democratiche e aperto alla società civile>>. Sono state queste le prime parole da presidente di Humala, ancor prima che si ufficializzasse il risultato elettorale. Lo stretto margine del 3% circa con il quale ha vinto queste elezioni non gli permetterà, comunque, di dormire sonni tranquilli.  Per questa ragione il nuovo presidente dovrà guadagnare consensi “on the road” e contare nel Congreso sull’ alleanza politica con Perù Posible di Alejandro Toledo, altro candidato presidente al primo turno e sostenitore di Humala al ballottaggio.

Le ragioni della sua vittoria possono essere ricercate nella voglia di cambiamento germinato nella società peruviana. Molti analisti sostengono che sostanzialmente i votanti non si sono fidati fino in fondo della Fujimori, per il fardello costituito dall’ eredità del fujimorismo, ed hanno dato fiducia alle promesse di Humala di dare al paese una crescita econimica nel rispetto dell’ inclusione sociale, della riduzione delle disuguaglianze sociali e della costituzione di un governo di concertazione nazionale. Molti peruviani infatti non hanno visto i frutti della grande crescita economica avuta dal Perù, una crescita che si aggira intorno al 5% medio del PIL negli ultimi dieci anni, ma che comunque ha lasciato un terzo della popolazione nella povertà.

Lo scetticismo del mondo produttivo

Il neopresidente dovrà, nei prossimi cinque anni, non solo mantenere le promesse fatte ai suoi sostenitori ma anche dare segnali importanti alle elitè del paese che non hanno visto di buon occhio la sua elezione e che aspettano i primi passi che farà il governo soprattutto in economia. Nonostante Humala abbia dichiarato di voler sviluppare “un’ economia aperta e di mercato” e “relazioni di fratellanza con ciascuno Stato della regione”,  gli investitori ed industriali del paese nutrono molti dubbi. La sua storia politica, infatti, ha rivelato sin dall’ inizio un volto anticapitalista e nazionalista, tendente ad una chiusura verso il libero mercato. Così gli esperti sostengono che per “tagliare la testa al toro” sarebbe opportuno che il neopresidente rendesse pubblici i nomi del primo ministro, del ministro dell’ Economia e del presidente del Banco Central che intende nominare. I profili di questi personaggi dovrebbero essere moderati, così da rafforzare la fiducia degli investitori su una politica di continuità che ha consentito al Perù, soprattutto grazie alle esportazioni di minerali, di essere uno dei paesi a maggior crescita economica negli ultimi anni. Questo tranquillizzerebbe i mercati e una parte dell’ establishment in subbuglio.

L’ avversione del mondo imprenditoriale ha inoltre obbligato l’ uscente governo Garcìa a promettere l’ adozione di eventuali misure nel caso in cui ci fossero delle ripercussioni sul mercato nazionale a causa dell’ elezione di Humala. Cosa che poi è puntualmente avvenuta. Alla notizia della sua vittoria, infatti, la borsa di Lima ha registrato la più grave perdita della sua storia.

Mantenere le promesse

Infine, la più grossa sfida che dovrà affrontare Humala sarà quella di mantenere le promesse fatte al suo elettorato: il “pueblo”. Oltre a ribadire una lotta senza quartiere alla corruzione, piaga endemica nella pubblica amministrazione dei paesi latinoamericani , la svolta tanto attesa riguarda il programma riformista. Diversi sono, infatti, i settori della società che abbisognano di un cambiamento dal nuovo governo. Dai servizi pubblici all’ educazione, che situa il Perù agli ultimi posti per qualità nella regione latinoamericana. Per non parlare dei necessari interventi nelle aree della salute, della sicurezza e dei servizi essenziali, dato che solo un peruviano su cinque, ad esempio, ha diritto ad un sussidio sociale.

Humala si siederà sul “Sillòn de Pizarro” a partire dal 28 luglio. I suoi sostenitori e l’ altra metà dei peruviani osserveranno, impazienti, ciascuna delle sue prossime mosse.

*Alfredo D’Alessandro, Dottore in Giurisprudenza

MEDITERRÁNEO Y ASIA CENTRAL: LAS BISAGRAS DE EURASIA

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La transición desde el sistema unipolar al multipolar es causa de tensiones en dos áreas particulares de la masa eurasiática: el Mediterráneo y Asia Central. El proceso de consolidación del policentrismo parece estar sufriendo una impasse determianda por la conducta “regionalista” adoptada por las potencias eurasiáticas. La localización de un único inmenso espacio mediterráneo-centroasiático como bisagra funcional de la masa euroafroasiática, aportaría elementos operativos para la integración eurasiática.

En el proceso de transición existente entre el momento unipolar y el nuevo sistema policéntrico se observa que las tensiones geopolíticas se descargan principalmente sobre las áreas de fuerte valencia estratégica. Entre éstas, la cuenca del Mediterrábneo y Asia Central, verdaderas bisagras de la articulación euroafroasiática, las caules han adquirido desde el uno de marzo de 2003 un particular interés en el ámbito del análisis geopolítico referente a las relaciones con los EE.UU., las mayores naciones eurasiáticas y los países del Norte de África. Ese día, como se puede recordar, el parlamento de Turquía, es decir, el parlamento de la nación-puente por excelencia entre las repúblicas centroasiáticas y el Mediterráneo, decidió negar el apoyo solicitado por los EE.UU. por la guerra en Irak (1). Este econtecimiento, lejos de constituir sólo un elemento de negociación entre Washington y Ankara, como podía parecer en un primer momento (y seguro que lo fue también a causa de dos elementos contrastantes: la fidelidad turca hacia el aliado norteamericano y la preocupación de Ankara por las consecuencias que la hipotizada creación de un Kurdistán, en el ámbito del entonces probable proyecto de tripartición de Irak, habría tenido en la no resolvida “cuestión curda”), estableció, sin embargo, el inicio de una inversión de tendencia de la vieja política exterior turca (2). Desde ese momento, con un continuo crescendo hasta nuestros días, Turquía, sobre todo mediante la aproximación hacia Rusia (facilitada por la escasa propensión de la Unión Europea en querer incluir Ankara en su propio ámbito) y su nueva política de buena vecindad, ha intentado practicar una especie de desmarcado con relación a la tutela estadunidense, haciendo, de hecho, escasamente confiable una pieza fundamental para la penetración norteamericana en la masa eurasiática. Además de los obstáculos representados por Irán y Siria, los estrategas de Washington y del Pentágono, actualmente también tienen que tomar en consideración la nueva y poco maleable Turquía.

El cambio de conducta de parte de Turquía ha ocurrido en el contexto de la más general y compleja transformación del escenario eurasiático, en donde cabe señalar la reafirmación de elementos caracterizadores como Rusia en una escala continetal y global, el potente auge de China y de India en el ámbito geoeconómico y financiero y, por lo que se refiere la potencia estadunidense, su consunción militar en Afganistán y en Irak.

Lo que, si se toma en cuenta la caída del muro de Berlín y el colapso soviético, parecía manifestarse como la inarrestable avanzada de la “Nación indispensable” hacia el centro de la masa continental eurasiática, siguiendo las siguientes dos predeterminadas directrices de marcha:

-         La primera, procedente de Europa continental, cuyo propósito es la inclusión, a golpe de “revoluciones coloradas” en la propia esfera de influencia del ex “vecino exterior” soviético, rápidamente rebautizada “La Nueva Europa”, según la definición de Rumsfeld, y estratégicamente destinada, en el tiempo, a “presionar” Rusia ya en el límite;

-         La otra, está constituída por el largo camino que desde el Mediterráneo se prolonga hacia las nuevas repúblicas centroasiáticas, cuyo propósito es el de cortar en dos la masa euroafroasiática y crear un vulnus geopolítico permanente en el seno de Eurasia, el cual se detuvo en el lapso de pocos años en la ciénaga afgana.

 

Han sido un fracaso los últimos intentos de revoluciones coloradas y agitaciones teledirigidas desde Washington en el Cáucaso y en las Repúblicas centroasiáticas, respectivamente a causa de la firmeza de Moscú y de la conjunción política eurasiática de China y Rusia, puestas en acto, entre otras cosas, a través de la organización de la Conferencia de Shangai (OCS), la Comunidad económica eurasiática y la consoldación de relaciones de amistad y cooperación militar. Los EE.UU., a fines de la primera década del nuevo siglo, han tenido que reformular las propias estrategias eurasiáticas.

 

La práxis hegemónica atlántica

La adquisición del paradigma geopolítico que es propia del sistema occidental bajo el mando americano, articulado en la dicotomía Estados Unidos versus Eurasia y en el concepto de “peligro estratégico”(3), induce a los analistas que lo practican a privilegiar los aspectos críticos de las varias áreas objetivo de los intereses atlánticos. Tales aspectos comunmente se constituyen por tensiones endógenas debidas particularmente a problemáticas interétnicas, desequilibrios sociales, falta de homogeneidad religiosa y cultural (4), roces geopolíticos. Las soluciones preparadas conciernen un abanico de intervenciones que abarcan desde el papel de los EE.UU. y de sus aliados en la “reconstrucción” de los “estados fracasados” (Failed States) según modalidades diversificadas (en cualquier caso, todas que apuntan en la difusión de los “valores occidentales” de la democracia y de la libre iniciativa, sin tener en cuenta la peculiaridad y las tradiciones culturales locales), hasta la intervención militar directa. Ésta última se justifica, según la coyuntura, como una respuesta necesaria para la defensa de los intereses americanos y del así llamado orden internacional o bien, en el caso específico de los estados o gobiernos que Occidente ha evaluado, previa y significativamente, de acuerdo con las reglas del soft power, “canalla”, como extremo remedio para la defensa de las poblaciones y la salvaguardia de los derechos humanos (5).

Considerando que la perspectiva geopolítica norteamericana es típicamente la de una potencia talásica que interpreta las relaciones con las otras nacionaes o entidades geopolíticas a partir de su propia condición de “isla” (6), ésta identifica la cuenca mediterránea y el área centroasiática como dos zonas caracterizadas por una marcada inestabilidad. Las dos áreas formarían parte del ámbito de los así llamados arcos de inestabilidad, así definidos por Zbigniew Brzezinski. El arco de inestabilidad o de crisis constituye, como ya se sabe, una evolución y una ampliación del concepto geoestratégico del rimland (margen marítimo y costeño) modelado por Nicholas J. Spykman (7). El control del rimland habría permitido, en el contexto del sistema bipolar, el control de la masa eurasiática y, por consiguiente, la contención de su nación más grande, la Unión Soviética, beneficiando únicamente la “isla americana”.

En el nuevo contexto unipolar, la geopolítica norteamericana ha definido como Gran Medio Oriente la extensa y ancha faja que desde Marruecos llega hasta Asia Central, una extensión que, según Washington, había que “pacificar” puesto que constituía un amplio arco de crisis, debido a la conflictualidad generada por la falta de homogeneidad más arriba descrita. Este planteamiento, vehiculado por los estudios de Samuel Huntington y por los análisis de Zigbniew Brzezinski, explica con creces la práxis seguida por los EE.UU. con el propósito de abrirse una brecha en el masa continental eurasiática y desde allí presionar el espacio ruso para asumir la hegemonía mundial. Sin embargo, algunos factores “imprevistos”, como por ejemplo la “reactivación” de Rusia, la política eurasiática seguida por Putín en Asia Central, los nuevos acuerdos entre Moscú y Pequín, además del auge de la nueva Turquía (factores éstos que, si se relacionan con las relativas y contemporáneas “emancipaciones” de algunos países de Suramérica, trazan un escenario multipolar o policéntrico) han influido por lo que concierne la redefinición del área como un Nuevo Medio Oriente. Ésta evolución, emblemáticamente, se dio a conocer oficialmente en el curso de la guerra israelí-libanesa del 2006. En aquella oportunidad, el entonces secretario de Estado, Condoleeza Rice, afirmó: “No veo algún interés de parte de la diplomacia en querer regresar a la situación anterior entre Israel y Libano. Pienso que sea un error. Lo que aquí vemos, en un cierto sentido, es el inicio, son los dolores de un nuevo Medio Oriente y cualquier cosa nosotros hagamos, tenemos que estar seguros que confluya hacia el nuevo Medio Oriente para no regresar al viejo”(8). La nueva definición era, como es obvio, programática; de hecho, apuntaba hacia la reafirmación del partenaire estratégico con Tel Aviv y a la destrucción – debilitación del área cercana y medio oriental en el marco de lo que algunos días después de la declaración de Condorleeza Rice, el primer ministro israelí, Olmert, precisó ser el “New Order” en “Medio Oriente”. Igualmente programático era el sintagma “Balcanes eurasiáticos” acuñado por Brzezinski con relación al área centroasiática, útil a la formulación de una práxis geoestratégica que, a través de la desestabilización de Asia Central con referencia a las tensiones endógenas, tenía (y tiene) el objetivo de hacer problemático el potencial enlace geopolítico entre China y Rusia.

En los años desde el 2006 hasta la operación “Odyssey Dawn” contra Libia (2011), los EE.UU., a pesar la retórica inaugurada desde el 2009 por el nuevo inquilino de la Casa Blanca, han seguido una estrategia que apuntaba hacia la militarización de toda la faja de Gaza, desde el Mediterráneo hasta Asia Central. En particular, los EE.UU. plantearon, en 2008, el dispositivo militar para África, el Africom, actualmente (marzo 2011) ocupado en la “crisis” líbica, finalizado en arraigar la presencia americana en África, por lo que concierne el control e intervención inmediata en el continente africano, pero también tiene como objetivo el “nuevo” Medio Oriente y Asia Central. En síntesis, la estrategia americana consiste en la militarización de la faja mediterránea-centroasiática. Las principales metas son:

a)      La creación de un cúneo entre Europa meridional y África septentrional;

b)     Asegurarle a Washington el control militar de África septentrional y del Cercano Oriente (utilizando para ello también la base de Camp Bondsteel presente en Kosovo y Metohija), con particular atención al área constituída por Turquía, Siria e Irán;

c)      “cortar” en dos la masa eurasiática;

d)     Ampliar el así llamado arco de la crisis en Asia Central.

 

En el ámbito del primer y del segundo objetivo, el interés de Washington se ha dirigido principalmente hacia Italia y Turquía. Los dos países mediterráneos, por motivos diversos (principalmente por razones de política industrial y energética por lo que concierne Italia, específicamente por razones de carácter geopolítico para Ankara, deseosa de desempeñar un papel regional de primer plano, por otra parte en directa competencia con Israel) en los últimos años han tejido relaciones internacionales que, en perspectiva, ya que las relaciones con Moscú se mantienen estables, podían (y pueden) ofrecer útiles estímulos para una potencial exit strategy turco-italiana de la esfera de influencia norteamericana. El intento objetivo  de Roma y Ankara en querer aumentar los propios niveles de libertad en el campo de batalla internacional, chocaba no sólo con los intereses generales de carácter geopolítico de Washington y Londres, sino que también con aquellos de tipo más “provincial” de la Union méditerranéenne de Sarkozy.

 

El multipolarismo entre una perspectica regionalista y una eurasiática

La práxis ejercida por el sistema occidental guiado por los EEUU., ya descrito anteriormente, de ampliar la crisis en Eurasia y en el Mediterráneo con el intento de no alcanzar la estabilización, sino que el mantenimiento de la propia hegemonía mediante la militarización de las relaciones internacionales e implicando a actores locales, además de localizar a otros futuros y probables blancos (Irán, Siria, Turquía) útiles para el arraigo norteamericano en Eurasia, plantea algunas reflexiones por lo que respecta el estado de salud de los EE.UU. y la estructuración del sistema multipolar.

A través de un análisis menos superficial, la agresión obrada por los EE.UU, el Reino Unido y Francia contra Libia, no constituye un simple caso esporádico, sino un síntoma de la dificultad en que se encuentra Washington para obrar de forma diplomática y con sentido de responsabilidad que es lo que se espera que posea una actor global. Esto evidencia el carácter de rapacidad que es característico de las potencias en declino. El politólogo y economista estadunidense David P. Calleo, crítico de la “locura unipolar” y analista del declino de los EE.UU, observaba en el lejano 1987 que “… las potencias en vías de declino, en lugar de regularse y adaptarse, buscan afianzar su propio tambaleante predominio transformándolo en hegemonía rapaz” (10). Luca Lauriola en su libro Jaque mate a América y a Israel. Fin del último Imperio (11), afirma que, y con razón, las potencias eurasiáticas, Rusia, China e India se relacionan con la potencia que se halla del otro lado del atlántico, a esta altura “extraviada y enloquecida”, de una manera que no pueda suscitar reacciones que podrían dar origen a catástrofes planetarias.

Sin embargo, por lo que concierne la estructuración del sistema multipolar, vale la pena relevar que éste último avanza lentamente, no por causa de las recientes acciones americanas en África Septentrional, sino que más bien por la actitud “regionalista” asumida por los actores eurasiáticos (Turquía, Rusia y China), quienes considerando el Mediterráneo y Asia Central sólo en función de sus propios intereses nacionales, no logran apreciar el significado geoestratégico que éstas áreas ejercen en el más amplio escenario conflictual entre intereses geopolíticos extracontinentales (estadunidenses) y eurasiáticos. El redescubrimiento de un único grande espacio mediterráneo-centroasiático, evidenciando el papel de “bisagra” que éste asume en la articulación euroafroasiática, aportaría elementos operativos para superar el impasse “regionalista” que sufre el proceso de transición unipolar-multipolar.

 

* Tiberio Graziani es director de Eurasia – Rivista di studi geopolitici (www.eurasia-rivista.org) y de la colección Quaderni di geopolitica (Edizioni all’insegna del Veltro), Parma, Italia. Presidente del Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG).

direzione@eurasia-rivista.org www.eurasia-rivista.org

 

 

Notas:

(1)     Elena Mazzeo, “La Turchia tra Europa e Asia”, Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici, a. VIII, n.1 2011.

(2)     Turquía adhiere al Pacto Otan el 18 de febrero de 1952.

(3)     “Geopolíticamente, Norteamérica representa una isla a lo largo del inmenso continente eurasiático. El predominio de parte de una sola potencia en una de las dos principales esferas de Eurasia –constituye una buena definición del peligro estratégico para los Estados Unidos, una guerra fría o menos. Ese peligro debería ser impedido, aún cuando esa potencia no mostrara intenciones agresivas, ya que, si éstas se tuviesen que manifestar acto seguido, Norteamérica se hallaría con una capacidad de resistencia eficaz muy disminuída y una creciente incapacidad de condicionar los acontecimientos”.

Henry Kissinger, L’arte della diplomazia, Sperling & Kupfer Editori, Milano 2006, pp.634–635.

«Eurasia is the world’s axial supercontinent. A power that dominated Eurasia would exercise decisive influence over two of the world’s three most economically productive regions, Western Europe and East Asia. A glance at the map also suggests that a country dominant in Eurasia would almost automatically control the Middle East and Africa. With Eurasia now serving as the decisive geopolitical chessboard, it no longer suffices to fashion one policy for Europe and another for Asia. What happens with the distribution of power on the Eurasian landmass will be of decisive importance to America’s global primacy and historical legacy.» Zbigniew Brzezinski, “A Geostrategy for Eurasia,” Foreign Affairs, 76:5, September/October 1997.

(4)     Enrico Galoppini, Islamofobia, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2008.

(5)     Jean Bricmont, Impérialisme humanitaire. Droits de l’homme, droit d’ingérence, droit du plus fort?, Éditions Aden,  Bruxelles 2005; Danilo Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi, Torino 2000; Danilo Zolo, Terrorismo umanitario. Dalla guerra del Golfo alla strage di Gaza, Diabasis, Reggio Emilia 2009.

(6)     «Un típico descriptor geopolítico es la visión de los EE.UU. como una “isla” geopolíicamente no muy diversa de Inglaterra y Japón. Tal definición exalta su tradición maritima comercial y las intervenciones militares de allende el mar y, como es obvio, la seguridad basada en la distancia y en el aislamiento.» Phil Kelly, “Geopolitica degli Stati Uniti d’America”, Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici, a. VII, n.3 2010.

(7)     Nicholas Spykman, America’s Strategy in World Politics: The United States and the Balance of Power, Harcourt Brace, New York 1942.

(8)     «But I have no interest in diplomacy for the sake of returning Lebanon and Israel to the status quo ante. I think it would be a mistake. What we’re seeing here, in a sense, is the growing — the birth pangs of a new Middle East and whatever we do we have to be certain that we’re pushing forward to the new Middle East not going back to the old one», Special Briefing on Travel to the Middle East and Europe, US, Department of State, 21 luglio 2006

(9)     Tiberio Graziani, “U.S. strategy in Eurasia and drug production in Afghanistan”, Mosca , 9-10 giugno 2010 (http://www.eurasia-rivista.org/4670/u-s-strategy-in-eurasia-and-drug-production-in-afghanistan )

(10)  David P. Calleo, Beyond American Hegemony: The future of the Western Alliance, New York 1987, p. 142.

(11)  Luca Lauriola, Scacco matto all’America e a Israele. Fine dell’ultimo Impero, Palomar, Bari 2007.

(trad. di V. Paglione)

THE MEDITERRANEAN AND CENTRAL ASIA: THE HINGES OF EURASIA

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The transition from the unipolar system to a multipolar one is generating tensions in two particular areas of the Eurasian landmass: the Mediterranean and Central Asia. The process of consolidation of polycentrism seems to be undergoing an impasse caused by the “regionalist” behavior adopted by the Eurasian powers. The identification of a single great Mediterranean-Central Asian space, functioning as the hinge of the Euro-Afro-Asian landmass, could provide operational elements for Eurasian integration.

 

In the process of transition between the unipolar moment and the new polycentric system geopolitical tensions are observed that are discharging principally in areas of high strategic value. Among these, the Mediterranean basin and Central Asia, real hinges in the Euro-Afro-Asian structure, have, since 1 March 2003, taken on a particular interest in the setting of geopolitical analysis regarding relations between the US, the main Eurasian nations and the countries of North Africa. Remember that on that date, the parliament of  Turkey, that nation-bridge par excellence between the central Asian republics and the Mediterranean, decided to deny the support requested by the US for the war in Iraq1. This fact,  far from being merely a negotiating point between Washington and Ankara, as it might have seemed at first (and certainly it was also this, because of two opposing elements: Turkish loyalty to its North American ally and the worry in Ankara for the effect of the hypothetical creation of a Kurdistan, which at the then-expected plan to divide Iraq into three parts, would have led to an unresolved “Kurdish question”), nonetheless established the beginning of an reversal of the 50-year trend in Turkish foreign policy2. Since then, with continuous growth until today, Turkey, particularly through its closeness to Russia (aided by the lack of propensity in the European Union to admit  Ankara) and the new good neighbor policies, has tried to practice a sort of “escape” from US protection, effectively making it an unreliable base for North American penetration into the Eurasian landmass. Besides the obstacles represented by Iran and Syria, Washington and Pentagon strategists now have to keep the new and little-malleable Turkey in mind.

The change in Turkey’s conduct came in the context of a more general and complex transformation of the Eurasian scenario, characterized by notable elements such as the reaffirmation of Russia on the continental and global scale, the strong geo-economic and financial emergence of China and India, and the deterioration of US military power in Afghanistan and Iraq.

From the collapse of the Berlin Wall and the Soviet downfall there seemed to be an unstoppable advance of the “Necessary Nation” toward the center of the Eurasian continent, following the two following predetermined lines of march:

 

- first, proceeding from continental Europe, aimed,  through coups of “colorful revolution”, at the inclusion in its own sphere of influence of the neighboring ex-soviet states, quickly dubbed the “New Europe” by Rumsfeld’s definition, and strategically destined, in time, to press against a Russia reaching the end of its strength;

- second, made up of a long road from the Mediterranean extending toward the new Central Asian republics, aimed at cutting in two the Euro-Afro-Asian landmass and creating a permanent geopolitical vulnus in the heart of Eurasia;

 

This was all stopped in just a few years of the Afghan morass.

 

The last few attempts at “colorful revolution” have failed and the agitation controlled by Washington in the Caucasus and in the Central Asian republics, respectively because of  Moscow’s determination and by the joint Eurasian policies of China and Russia, put into action through, among others, the Shanghai Cooperation Organization  (SCO), the Eurasian Economic Community and the consolidation of friendly relations and military cooperation. At the end of the first decade of the new century the US had to reformulate its Eurasian strategies.

 

The usual Atlantic hegemony procedure

 

The assumption of the western system geopolitical paradigm as led by the US, laid out in  the dichotomy of the US versus Eurasia and in the concept of “strategic danger”3, leads the analysts practicing it to favor the critical aspects of the different Atlantic target areas. Such aspects are commonly made up of endogenous tensions due in particular to interethnic problems, social imbalances, lack of religious and cultural homogeneity4 and geopolitical friction. The ready solutions regard actions ranging from the role of the US and its allies in the “reconstruction” of “failed states” in different ways (all in any case aimed at spreading the “western values” of democracy and free enterprise, without taking into account at all the local cultural peculiarities and traditions), to direct military intervention. This is often justified, according to the situation, as a necessary response to defend US interests and the so-called international order, or in the specific case of states or governments that the West  already and significantly considers, according to the rule of soft power, “rogue,” needing an extreme remedy to defend its people and safeguard human rights5.

Considering that the US’s geopolitical perspective is typically that of a sea power, interpreting its relationship with other nations or geopolitical entities from its situation as an “island”6, it identifies the Mediterranean basin and the Central Asian area as two zones characterized by strong instability. The two areas are located in the so-called arc of instability as defined by Zbigniew Brzezinski. The arc of instability or of crisis constitutes, as noted, an evolution and expansion of the geostrategic concept of  rimland (maritme and coastal margin) developed by Nicholas J. Spykman7. Control of the rimland would have permitted, in the context of the bipolar system, control of the Eurasian landmass and so the containment of its main nation, the Soviet Union, for the exclusive benefit of the “North American island”.

In the new unipolar context, the US-defined geopolitical area of the Great Middle East runs in a wide band  from Morocco through Central Asia, a band that, according to Washington, needed to be “pacified” because it represented an ample arc of crisis, with conflicts generated by the lack of homogeneity as mentioned above. Such a view spread by Samuel Huntington’s research and  Zigbniew Brzezinski’s analysis, fully explains the practice followed by the US in order to open a passage in the Eurasian continental landmass and from there press on the Russian space to assume world domination. Nevertheless some “unexpected” factors such as the “recovery” of Russia, the Eurasian policies practiced by Putin in Central Asia, new agreements between Moscow and Peking, as well as the emergence of the new Turkey (factors that recalling the relative and contemporary “emancipations” of some South American countries delineate a multipolar or poly-centric system)  have influenced the redefinition of the area as a New Middle East. Such evolution, emblematically, was made official in the course of the Israeli-Lebanese ware of 2006. The then-Secretary of State Condoleezza Rice said: « I have no interest in diplomacy for the sake of returning Lebanon and Israel to the status quo ante. I think it would be a mistake. What we’re seeing here, in a sense, is the growing — the birth pangs of a new Middle East and whatever we do we have to be certain that we’re pushing forward to the new Middle East not going back to the old one. »8. The new definition was, obviously, pragmatic; in fact it aimed at the reaffirmation of the strategic partnership with  Tel Aviv and the crushing – weakening of the near and mid-east area that few days after Condoleezza Rice’s declaration was specified by Israeli Prime Minister Olmert to be the “New Order” in the “Middle East”. Similarly programmatic was Brzezinski coining of “Eurasian Balkans”, referring to the Central Asian area, seeing its use to the formulation of a geostrategic practice that, through the destabilization based on endogenous tensions  of Central Asia , it had (and has) the aim of making the possible geopolitical union between  China and Russia problematic.

In the years between 2006 up to the  “Odyssey Dawn” operation against Lybia (2011), the US, notwithstanding the rhetoric initiated from 2009 with the new occupant of the White House, has in fact followed a strategy aimed at the militarization of the entire swath made up of the Mediterranean and Central Asia. In particular, in 2008 the US put military device in the field for Africa, Africom, currently (March 2011) involved in the Libyan “crisis”, intended to root the American presence in Africa in terms of control and rapid intervention in the African continent, but also directed toward the “new” middle East and Central Asia. Briefly, the US strategy consists of militarization of the Mediterranean-Central Asian arch. Its principle aims are:

a)      To create a wedge between southern Europe and northern Africa;

b)      To assure Washington’s military control over northern Africa and the Near East (including using the Camp Bondsteel base in Kosovo i Metohija), with particular attention in the area of Turkey, Syria and Iran;

c)      To “cut” in two the Eurasian landmass;

d)      To enlarge the so-called arc of crisis in Central Asia.

In the setting of the first and second objectives, Washington’s interests are turned mainly toward Italy and Turkey. The two Mediterranean countries, for different reasons (notably of energy and industrial policy for Italy and more strictly geopolitical for Ankara, wishing to take on a regional role of the first level, moreover in direct competition with Israel) have in recent years woven international relationships that, in perspective, since relations with Moscow are strong, could have (and can) be useful levers for a potential Turkish-Italian exit strategy from the North American sphere of influence. The objective attempt by Rome and Ankara to increase their own degrees of liberty in the international contest collided not only with the general geopolitical interests of Washington and London but also with the more “provincial” ones of Sarkozy’s Union méditerranéenne.

 

Multipolarism between regionalist and Eurasian perspectives

 

The practice applied by the Western system, led by the US and intended, as described above, to amplify the crises in Eurasia and in the Mediterranean is not aimed at their stabilization. On the contrary, such a procedure is devoted to maintain its own hegemony, through militarization of international relationships and involvement of local actors. Moreover, this kind of geopolitical “road map” is aimed at identifying other future probable targets (Iran, Syria, Turkey) useful for the US’s foothold in Eurasia, laying out some reflections regarding the “health” of the US and the structuring of the multipolar system.

In a less superficial analysis, the aggression toward Libya by the US, Great Britain and France, is not at all a sporadic case but a symptom of Washington’s difficulty in working diplomatically and with the sense of responsibility that a global actor should have. This is shown by the rapacious nature typical of a declining power. The American political scientist and economist  David. P. Calleo, critic of “unipolar folly” and scholar of the decline of the US, noted in long-ago 1987 that, generally, powers in the process of decline, rather than regulate and adapt themselves, seek to cement its staggering dominance by transforming it in rapacious hegemony10. Luca Lauriola in Scacco matto all’America e a Israele. Fine dell’ultimo Impero11, (Checkmate for the US and Israel. The end of the last empire) believes, reasonably, that the Eurasian powers Russia, China and India handle the overseas power (i.e. USA), by now “lost and crazed”, in a way to not provoke reactions that could lead to planetary catastrophes.

Regarding the structuring of the multipolar system, it must be noted that this advances slowly, not because of recent US actions in North Africa, but rather because of the “regionalist” attitude adopted by the Eurasian actors (Turkey, Russia and China) who, in evaluating the Mediterranean and Central Asia as a function of their own national interests, fail to gather the geostrategic significance that these areas perform in the larger scenario of conflict between far-flung (US) and Eurasian geopolitical interests. The rediscovery of a sole great Mediterranean-Central Asian space, highlighting the role of “hinge” that this takes on in the Euro-Afro-Asian subdivision, could provide operating elements to overcome the “regionalist” impasse that the unipolar-multipolar transition process  is undergoing.

 

 

*Tiberio Graziani, Director of “Eurasia – magazine of geopolitical studies” and the series “Quaderni di Geopolitica (Edizioni all’insegna del Veltro, Parma), is the President of the ISAG (Institute of Advance Studies in Geopolitics and Auxiliary Sciences) e-mail: direzione@eurasia-rivista.orgwww.eurasia-rivista.org

 

Note:

1 Elena Mazzeo, “La Turchia tra Europa e Asia”, Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici, a. VIII, n.1 2011.

2 Turkey signed the Nato Treaty on 18 February 1952.

3Geopolitically, America is an island off the shores of the large landmass of Eurasia, whose resources and population far exceed those of the United States. The domination by a single power of either Eurasia’s two principal spheres — Europe or Asia — remains a good definition of strategic danger for America, Cold War or no Cold War. For such a grouping would have the capacity to outstrip America economically and, in the end, militarily. That danger would have to be resisted even were the dominant power apparently benevolent, for if the intentions ever changed, America would find itself with a grossly diminished capacity for effective resistance and a growing inability to shape events.” Henry Kissinger, Diplomacy, New York: Simon and Schuster, 1994 p.813.

Eurasia is the world’s axial supercontinent. A power that dominated Eurasia would exercise decisive influence over two of the world’s three most economically productive regions, Western Europe and East Asia. A glance at the map also suggests that a country dominant in Eurasia would almost automatically control the Middle East and Africa. With Eurasia now serving as the decisive geopolitical chessboard, it no longer suffices to fashion one policy for Europe and another for Asia. What happens with the distribution of power on the Eurasian landmass will be of decisive importance to America’s global primacy and historical legacy. Zbigniew Brzezinski, “A Geostrategy for Eurasia,” Foreign Affairs, 76:5, September/October 1997.

4 Enrico Galoppini, Islamofobia, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2008.

5 Jean Bricmont, Impérialisme humanitaire. Droits de l’homme, droit d’ingérence, droit du plus fort?, Éditions Aden,  Bruxelles 2005; Danilo Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi, Torino 2000; Danilo Zolo, Terrorismo umanitario. Dalla guerra del Golfo alla strage di Gaza, Diabasis, Reggio Emilia 2009.

6America as an “island” has become a common geopolitical descriptor, quite similar to the geopolitics of England and Japan. Such an expression underlies its maritime traditions of trade and of military intervention overseas, and, of course, of its security-in- isolation and in distance.”. Phil Kelly, “Geopolitica degli Stati Uniti d’America”, Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici, a. VII, n.3 2010.

7 Nicholas Spykman, America’s Strategy in World Politics: The United States and the Balance of Power, Harcourt Brace, New York 1942.

8But I have no interest in diplomacy for the sake of returning Lebanon and Israel to the status quo ante. I think it would be a mistake. What we’re seeing here, in a sense, is the growing — the birth pangs of a new Middle East and whatever we do we have to be certain that we’re pushing forward to the new Middle East not going back to the old one,” Special Briefing on Travel to the Middle East and Europe, US, Department of State, 21 July 2006

9 Tiberio Graziani, “U.S. strategy in Eurasia and drug production in Afghanistan”, Moscow, 9-10 June 2010 (http://www.eurasia-rivista.org/4670/u-s-strategy-in-eurasia-and-drug-production-in-afghanistan )

10 David P. Calleo, Beyond American Hegemony: The future of the Western Alliance, New York 1987, p. 142.

11 Luca Lauriola, Scacco matto all’America e a Israele. Fine dell’ultimo Impero, Palomar, Bari 2007.

УЗЛОВЫЕ ПУНКТЫ ЕВРАЗИИ: СРЕДИЗЕМНОМОРСКИЙ РЕГИОН И ЦЕНТРАЛЬНАЯ АЗИЯ

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Переход от однополярного мира к многополярному создаёт напряженность в двух особых районах Евразии: Средиземное море и Центральная Азия. Процесс укрепления полицентричности, похоже, претерпевает торможение, причиной которого является “регионализм” евроазиатских держав. Определение единого Средиземноморско-Ценральноазиатского пространства в качестве функционального узлового пункта Европы, Африки и Азии может обеспечить необходимые элементы для евразийской интеграции.

 

В процессе перехода от однополярного мира к новой полицентрической системе можно заметить, что геополитическая напряженность разряжается преимущественно в регионах, имеющих важную стратегическую ценность. Среди прочих, Средиземноморский регион и Центральная Азия, которые по истине можно назвать узловым  пунктами, связывающими Европу, Африку и Азию. С 1-ого марта 2003 года эти два региона начали представлять особый интерес в процессе геополитического анализа взаимоотношений между США, ведущими евразийскими державами и странами Северной Африки. Как известно, в этот день парламент Турции, государство-мост между республиками Центральной Азии и Средиземноморским регионом, вынес решение об отказе в оказании содействия США в военной компании в Ираке1. Это решение отнюдь не являлось простым составным элементом переговоров между Вашингтоном и Анкарой, как могло показаться на первый взгляд. Конечно, частично это было так в силу двух, противоречащих друг другу факторов, а именно, верность Турции своему североамериканскому союзнику и озабоченность Анкары в связи с тем, каким образом предполагаемое образование Курдистана, в рамках вероятного в то время плана раздела Ирака на три части, могло бы повлиять на нерешенный “курдский вопрос”. Тем не менее, это решение явилось началом изменения курса пятидесятилетней истории внешней политики Турции2. С того времени и по сегодняшний день Турция благодаря, прежде всего, сближению с Россией (чему способствует слабый интерес ЕС к включению Анкры в союз) и своей новой политике добрососедства неуклонно пытается освободиться от опеки США, что делает её ненадёжной базой для проникновения США в Евразию. Таким образом, кроме помех со стороны Ирана и Сирии, стратеги в Вашингтоне и Пентагоне должны учитывать также и новую малоуступчивую Турция.

Изменение в поведении Турции произошло в более общей и комплексной эволюции политической ситуации Евразии. Можно отметить следующие характерные перемены: новое укрепление позиций России на региональном и глобальном уровне; мощный выход Китая и Индии на геоэкономическую и финансовую арену; относительно мощи США, её военное истощение в Афганистане и Ираке.

Начиная с момента падения Берлинской стены и распада Советского Союза казалось неудержимым продвижение вперед  “нужной нации” к центру Евразийского материка, следуя заранее установленным направлениям:

- первое, происходящее от континентальной Европы, необходимое для включения посредством “цветных революций” в сферу собственного влияния бывшего “ближнего зарубежья” СССР, моментально переименованного, по определению Дональда Рамсфелда, в “Новую Европу”, и стратегически предназначенного для долгосрочного “давления” на крайне обессиленную Россию;

- второе, идущее от Средиземного моря до новых Центральноазиатских стран и предназначенное для разделения надвое евро-афро-азиатского региона и нанесения постоянного геополитического “увечия” в самом центре Евразии;

По прошествии всего нескольких лет это движение “зависло” в болоте афганских интриг.

После провала последних попыток проведения “цветных революций” (причиной которого явились непоколебимость Москвы и согласованные политические действия Китая и России в Евразийском регионе посредством создания, среди прочего, ШОСа (Шанхайской Организации Сотрудничества), ЕврАзЭСа (Евразийского экономического сообщества) и укрепление дружеских взаимоотношений в экономической и военной сферах) и волнений, управляемых Вашингтоном на Кавказе и в Центральноазиатских странах, США на исходе первого десятилетия нового столетия должны были пересмотреть свою евразийскую стратегию .

Обычная процедура атлантического доминирования

Принятие за основу геополитической модели, свойственной западной системе во главе с США, и основанной на антагонизме США и Евразии и на идее “стратегической опасности”3, приводит к тому, что аналитики, которые придерживаются данной модели, дают предпочтение критическим факторам в различных районах, входящих в сферу интересов США. Эти факторы обычно состоят из внутренних неурядиц, причиной которых являются в частности межэтнические разногласия, социальные неравенства, религиозное и культурное разнообразие4. Готовые способы решения таковых проблем могут быть разными начиная от разной степени соучастия США и её союзников в процессе “востановления несложившихся государств” (Failed States), придерживаясь различным методам (в любом случае, все эти методы нацелены на распространение “западных ценностей” демократии и либерализма, совершенно не учитывая при этом местные культурные традиции и особенности), и заканчивая прямой военной интервенцией. Оправдания прямой военной интервенции могут быть разными в зависимости от ситуации, к примеру, как реакция, необходимая для защиты интересов США и, так называемого, международного порядка, или же, в случае стран или правительств, которым Запад заранее и многозначительно дал свою оценку, согласно методу “мягкого” управления (soft power), как крайняя мера защиты населения и прав человека5.

Геополитические взгляды США это типичные взгляды океанской державы, которая видит свои взаимоотношения с другими нациями или иными геополитическими субъектами, отталкиваясь от того, что сама является “островом”6, поэтому Вашингтон и смотрит на Средиземноморский бассейн и Центральную Азию как на два региона, которым свойственна нестабильность. Две территории находятся в сформулированной Збигневым Бжезинским «арке нестабильности». Арка нестабильности или кризиса, как известно, является дальнейшим развитием геостратегической концепции “римленда” (границы моря с сушей) разработанной Николасом Спайкменом7. В контексте биполярного мира контроль над римлендом означал контроль над всем евразийским пространством для сдерживания основного противника США – Советского Союза, ради исключительной выгоды “Североамериканского острова”.

В контексте нового однополярного миропорядка, определённая зоной геополитических интересов США, территория Великого Ближнего Востока протягивается широким поясом от Марокко через всю Среднюю Азию. По мнению Вашингтона этот пояс, должен быть “умиротворён”, потому что являет собой дугу кризиса, что связанно с конфликтами из-за нехватки однородности, как было упомянуто выше. Подобные взгляды, распространённые исследованием Самюэля Хантингтона и анализом Збигнева Бжезинского, полностью объясняют методы США по проникновению в центр Евразийского континента и как следствие давление на территорию России, чтобы получить мировое господство. Тем не менее, возникли некоторые “неожиданности”, такие как “восстановление” России, евразийская политика Путина в Центральной Азии, новые договоры между Москвой и Пекином, а так же появление новой Турции (если к этим факторам прибавить ещё и относительную “самостоятельность” государств Латинской Америки, то можно очертить многополюсную и полицентричную систему), повлияли на определении новой зоны интересов США – Великий Ближнем Восток. Такая эволюция взглядов, символически, была официально озвучена во время ливано-израильской войны 2006 года. Занимавшая в то время должность Госсекретаря Кондолиза Райс заявила: «Нет смысла продолжать переговоры, если их целью является возвращение Ливана и Израиля к прежнему статусу. Я думаю, что это было бы ошибочно. То, что мы видим, в некотором смысле, представляет собой только начало, усиливающиеся родовые схватки рождения нового Ближнего Востока и, независимо от того, что мы делаем, мы должны убедиться, что мы движемся вперёд к новому Ближнему Востоку, а не возвращающемуся к старому»8. Новое определение было безусловно прагматическим; по сути, оно было сделано, чтобы вновь подтвердить стратегическое сотрудничество с Тель-Авивом и раздробления территории – ослабить ближневосточные и близлежащие области. Спустя несколько дней после заявления Кондолизы Райс эта идея была интерпретирована израильским премьер-министром Олмертом как “Новый Порядок” на “Ближнем Востоке”. Похожая программа, названная “Евразийские Балканы”, была сформулирована Бжезинским в определении роли среднеазиатского региона, использование которого предполагалось при помощи дестабилизации ситуации в регионе на базе эндогенных трений. Целью данной программы являлось (и является) усложнение реализации потенциального укрепления геополитического союза между Россией и Китаем.

В промежутке между 2006 годом и вплоть до начала операции “Рассвет Одиссея” против Ливии в 2011, США, несмотря на начатую в 2009 новым хозяином Белого дома риторику, фактически продолжили стратегию по милитаризации всего отрезка между Средиземным морем и Средней Азией. В частности, в 2008 США начали использовать свою военную машину в Африке – АФРИКОМ. Этот военный орган управления, вовлечённый на сегодняшний день (апрель 2011 года) в ливийский “кризис”, намерен закрепить американское присутствие в Африке для контроля и быстрого вторжения на африканский континент, а также направленн на захват контроля над “новым” Ближним Востоком и Центральной Азией. Вкратце, стратегия США заключается в милитаризации дуги Средиземноморье-Средняя Азия. Вот её основные задачи:

a)      вбить клин между южной Европой и северной Африкой;
б)      усилить контроль Вашингтона над северной Африкой и Ближним Востоком (включая использование базы Кэмп-Бонстил в Косово-Метохия), с особым вниманием к территории Турции, Сирии и Ирана;
в)      “разбить” евразийское пространство на две части;
г)      увеличить так называемую арку кризиса в Центральной Азии.

Относительно первой и второй задач, Вашингтон в основном сконцентрировался на Италии и Турции. Два средиземноморских государства, по разным причинам (для Италии во многом в силу энергетической и промышленной политики, более явная геополитическая причина для Анкары, стремящейся стать лидером в регионе и соперничающей в этом с Израилем) в последние годы выстроили свою внешнюю политику таким образом, чтобы в будущем, благодаря окрепшим отношениям с Россией, обладать необходимыми рычагами для выхода из под влияния США. Очевидные попытки Рима и Анкары увеличить степень собственной независимости на международной арене столкнулись не только с основными геополитическими интересами Вашингтона и Лондона, но и более более “региональным” Средиземноморским союзом Саркози.

Многополярность в регионалистских и евразийских перспективах

Действия Запада, управляемые США, направлены, как сказано ранее, на увеличение кризисов в Евразии и в Средиземноморском регионе, а не на их урегулирование. Более того, подобные действия нацелены на сохранение собственной гегемонии путём милитаризации международных отношений и вовлечение локальных акторов, к тому же, на идентификацию других будущих вероятных мишеней (Иран, Сирия, Турция), необходимых США для собственного укоренения в Евразии, даёт повод для размышлений относительно “состояния здоровья” США и структурирования многополярной системы.

При более детальном анализе становится понятно, что агрессия против Ливии со стороны США, Великобритании и Франции, это не частный случай, а симптом испытываемых Вашингтоном трудностей при работе дипломатическими методами и отсутствия чувства ответственности, которым должны обладать глобальные акторы. Об этом свидетельствует возрастающая жадность в политике США, типичная для ослабевающих держав. Американский политический учёный и экономист Дэвид P. Коллео, критик “монополярного безумия”, изучающий ослабление США, ещё в 1987 отметил: «ослабевающие державы, вместо того, чтобы регулировать и адаптировать самих себя, стремится укрепить своё колеблющиеся господство, которое перерастает в агрессивную экспансию» 10. Лука Лауриола в своей книге «Scacco matto all’America e Israele. Fine dell’ultimo Impero» (Шах и мат США и Израилю. Конец последней империи) 11, разумно полагает , что евразийские державы Россия, Китай и Индия обходятся с “потерянной и обезумевшей” сверхдержавой таким образом, чтобы не вызвать реакций, которые могли привести к планетарным катастрофам.

Относительно структурирования многополюсной системы, должно быть отмечено, что оно продвигается медленно, не столько из-за недавних американских действий в Северной Африке, а скорее из-за “регионалистского” отношения, принятого евразийскими акторами (Турция, Россия и Китай), оценивающими Средиземноморье и Центральную Азию как функцию собственных национальных интересов. Они не в состоянии осознать геостратегическое значение, которое эти области выполняют в более обширном сценарии конфликта между межконтинентальными (американскими) и евразийскими геополитическими интересами. Возрождение единого крупного Средиземноморско-Центральноазиатского пространства может обеспечить необходимые элементы, чтобы преодолеть тупик “регионализма”, причиной которого является переход от монополярности к многополярности, и тем самым, подчеркнуть свою роль функционального “узлового пункта” в евро-афро-азиатском регионе.

*Тиберио Грациани (Tiberio Graziani) (Италия) – главный редактор итальянского журнала «Евразия. Обозрение геополитических исследований» (Eurasia. Rivista di studi geopolitici) и директор Института изучения геополитики и смежных дисциплин (Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie).

1 Элена Маццэо. Турция между Европой и Азией // Евразия. Обозрение геополитических исследований. – 2011. а. VIII, № 1.

2 18-ого февраля 1952 года Турция входит в состав НАТО.

3 «С геополитической точки зрения США представляет собой остров, находящийся по другую сторону Евразийского континента. Удержание господства со стороны одной державы одного из двух основных регионов Евразии (Европы или Азии) даёт основание для определения стратегической опасности по отношению к США – холодная война или нет. Эта опасность должна быть устранена, даже если эта держава не имеет враждебных намерений, т.к. в случае появления таковых, уменьшилась способность США оказывать сопротивление и способность влиять на ход событий». Генри Киссинджер. Искусство дипломатии. – Милан. Сперлинг энд Купфер Эдитори. Милан, 2006. – стр. 634–635.

«Eurasia is the worlds axial supercontinent. A power that dominated Eurasia would exercise decisive influence over two of the world’s three most economically productive regions, Western Europe and East Asia. A glance at the map also suggests that a country dominant in Eurasia would almost automatically control the Middle East and Africa. With Eurasia now serving as the decisive geopolitical chessboard, it no longer suffices to fashion one policy for Europe and another for Asia. What happens with the distribution of power on the Eurasian landmass will be of decisive importance to America’s global primacy and historical legacy.» Zbigniew Brzezinski, “A Geostrategy for Eurasia,” Foreign Affairs, 76:5, September/October 1997.

4 Enrico Galoppini, Islamofobia, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2008.

5 Jean Bricmont, Impérialisme humanitaire. Droits de l’homme, droit d’ingérence, droit du plus fort?, Éditions Aden,  Bruxelles 2005; Danilo Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi, Torino 2000; Danilo Zolo, Terrorismo umanitario. Dalla guerra del Golfo alla strage di Gaza, Diabasis, Reggio Emilia 2009.

6 «В геополитике США обычно определяются как “остров”, т.е. примерно так же как и Великобритания и Япония. Данное определение подчеркивает следующее: США является морским торговым государство; ей свойственны морскией военные компании; и, конечно же, концпция государственной безопасности, основанная на сохранении расстояния и изоляции.». Фил Кэлли. Геополитика Соединённых Штатов Америки // Евразия. Обозрение геополитических исследований. – 2010. a. VII, № 3.

7 Nicholas Spykman, America’s Strategy in World Politics: The United States and the Balance of Power, Harcourt Brace, New York 1942.

8 «But I have no interest in diplomacy for the sake of returning Lebanon and Israel to the status quo ante. I think it would be a mistake. What we’re seeing here, in a sense, is the growing — the birth pangs of a new Middle East and whatever we do we have to be certain that we’re pushing forward to the new Middle East not going back to the old one», Special Briefing on Travel to the Middle East and Europe, US, Department of State, 21 luglio 2006

9 Tiberio Graziani, “U.S. strategy in Eurasia and drug production in Afghanistan”, Mosca , 9-10 giugno 2010 (http://www.eurasia-rivista.org/4670/u-s-strategy-in-eurasia-and-drug-production-in-afghanistan )

10 David P. Calleo, Beyond American Hegemony: The future of the Western Alliance, New York 1987, p. 142.

11 Лука Лауриола. Шах и мат для США и Израиля. Конец последней империи. – 2007. – Бари. – Паломар, 2007.

Il nuovo numero è in distribuzione

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Il nuovo numero di “Eurasia”, La cerniera mediterraneo-centrasiatica (1/2011), viene distribuito a partire da oggi.

Entro un paio di settimane gli abbonati avranno ricevuto la loro copia al proprio recapito, ed il nuovo numero sarà disponibile nelle librerie distributrici.

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In caso di problemi (mancato recapito ecc.) o di necessità d’assistenza per abbonarsi/rinnovare, invitiamo a prendere contatto con l’Amministrazione tramite l’apposito formulario (clicca).

«Napolitano garante della subordinazione agli USA» – D. Scalea all’IRIB

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Lo scorso due giugno il nostro redattore Daniele Scalea, segretario scientifico dell’IsAG, è stato intervistato da Radio Italia, emissione italiana dell’IRIB, a proposito delle celebrazioni per l’anniversario della Repubblica e del ruolo italiano in Libia. Seguono audio e trascrizione integrale dell’intervista.

Per celebrare la festa della Repubblica, che quest’anno cade nel centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, a Roma sfilerà la parata militare che sarà chiusa dalla Frecce Tricolori. In Libia altri aerei da guerra lasceranno una scia d’un solo colore: il rosso sangue. Qual è la sua opinione in merito?

 

Come da lei notato la guerra libica coincide col centocinquantesimo anniversario dell’unità italiana, e non stride con quella ch’è stata la storia italiana fino ad oggi. Voglio cioè dire che il repentino voltafaccia italiano rispetto alla Libia, col Trattato d’Amicizia stracciato e l’ingresso in guerra, è in qualche modo in linea con la nostra storia nazionale.

L’Italia conquistò la sua unità con l’appoggio della Francia: nel 1870, quando i Francesi entrarono in guerra con la Prussia, anziché aiutarli come s’attendeva Parigi, l’Italia restò neutrale ed anzi approfittò della sconfitta dell’ex alleato per conquistare Roma. L’Italia strinse poi un’alleanza con Germania e Austria-Ungheria, alleanza che durò per decenni, salvo poi cambiare campo nel 1914-15 quando scoppiò la guerra in Europa. Con la Germania fu stretto poi il “Patto d’Acciaio” ma nel 1939, quando Berlino entrò in guerra, benché l’Italia fosse teoricamente tenuta ad aggregarvisi dichiarò la “non belligeranza”, e scese in campo solo quando la vittoria dell’alleato pareva certa; di lì a pochi anni però le sorti erano rovesciate, e nel 1943 l’Italia passò in un giorno dall’alleanza con la Germania alla guerra contro la Germania.

Quindi gli eventi del 2011 altro non sono che l’ennesima ripetizione del leit motiv della politica estera italiana.

 

Qual è la sua opinione sulle parole del presidente Napolitano il quale, esaltando la missione in Libia, si è mostrato orgoglioso che ancora una volta l’Italia stia al fianco degli USA?

 

Bisogna considerare il ruolo di primo piano avuto da Napolitano nel promuovere la scelta di stracciare il Trattato di Amicizia e scendere in guerra contro la Libia al fianco di USA, Francia e Gran Bretagna. Esso va inquadrato nella reazione suscitata dalla politica estera del Governo in carica in certi ambienti della diplomazia e della politica italiane. Alla politica estera di Berlusconi sono state mosse due critiche principali. La prima, di vecchia data, è quella d’affidarsi troppo al “personalismo”, privilegiare i rapporti interpersonali tra leader anziché contare su programmi strategici di lungo periodo: è un’obiezione fondata e ben motivata. Negli ultimi anni si è aggiunta una seconda critica: essersi allontanato eccessivamente dagli USA ed aver condotto una politica estera troppo libera, nei confronti della Russia ma anche nel Mediterraneo, tanto con gli accordi con la Libia quanto col rapporto speciale con Israele, in un momento in cui le relazioni tra Washington e Tel Aviv vanno raffreddandosi.

Le critiche della diplomazia professionale italiana alle mosse di Berlusconi hanno coinciso col malcontento da parte degli USA e con una recrudescenza dei problemi giudiziari e d’immagine del Capo del Governo. In questo contesto c’è stato un intervento molto deciso di Napolitano, ad assumere un ruolo in politica estera che in teoria non gli spetterebbe. Nel maggio 2010 Napolitano ha compiuto una visita a Washington, programmata in tutta fretta nelle settimane precedenti e che ha incluso lunghi colloqui privati con Obama. Si pensa che Napolitano abbia ricevuto una sorta d’investitura per farsi nuovo interlocutore privilegiato degli USA, in un momento in cui c’è difficoltà di comunicazione tra Obama e Berlusconi (soprattutto la difficoltà ad ottenere da Berlusconi riscontri concreti agl’impegni che assumeva verbalmente). Sfruttando anche la debolezza interna di Berlusconi (una maggioranza parlamentare vacillante, una popolarità in caduta libera come si è visto anche dalle ultime elezioni, pensieri ed impegni extrapolitici e giudiziari che lo tengono impegnato), Napolitano ha assunto un ruolo di primo piano nella politica estera italiana. Un ruolo più forte anche di quello del predecessore Ciampi, che pure s’era distinto per attivismo. Un ruolo che per certi versi ricorda quello assunto da Gronchi, diversi decenni fa: un altro presidente della Repubblica che aveva cercato di indirizzare la politica estera italiana anche scavalcando le prerogative del Governo. Allora però Gronchi cercava di dare un indirizzo più autonomo dagli USA, mentre Napolitano sta facendo l’esatto contrario: cerca di far rientrare la politica estera italiana nel solco della sudditanza verso gli USA.

 

La NATO proroga di altri tre mesi la sua missione in Libia. Questo significa che anche i caccia italiani continueranno a bombardare il paese?

 

Questo senz’altro.

La proroga della missione in Libia dipende dal fatto che non stanno ottenendo i risultati che avevano sperato. Dal 19 marzo i paesi atlantici hanno condotto all’incirca 10.000 missioni aeree sulla Libia, ma ciò malgrado la situazione sul terreno si è cristallizzata: sono riusciti ad impedire che le autorità libiche riprendessero il pieno controllo del paese, ma non a far rovesciare il Governo dai ribelli.

Ci si può aspettare un salto di qualità, non una semplice proroga delle missione aeree. E’ sicuro che adesso cominceranno ad essere impiegati anche elicotteri d’attacco, quindi non più solo bombardamenti da alta quota ma diretto appoggio ai movimenti delle forze di terra ribelli. Non è confermato, ma pare abbastanza probabile, che il Consiglio di Cooperazione del Golfo metterà a disposizione – posto che non l’abbia già fatto – delle forze mercenarie per sostenere i ribelli. Questi mercenari sono attualmente in addestramento negli Emirati Arabi Uniti, al comando di un ex ufficiale statunitense già fondatore di una delle più importanti agenzie di sicurezza private.

Aldo Braccio, Turchia, ponte d’Eurasia

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Aldo Braccio

TURCHIA, PONTE D’EURASIA
Tra Mediterraneo e Asia Centrale, il ritorno di Istanbul sulla scena internazionale

Prefazione di Antonello Folco Biagini

Fuoco Edizioni, Roma 2011
pag. 96

Prezzo 12,00€

ISBN 9788897363163

Per ordini:
ordini@fuoco-edizioni.it

Il libro

Agli occhi di molti italiani e di molti europei, la Turchia rappresenta una sorta di “altro da sé” continuamente evocato in termini di preoccupazione e di confronto polemico. Per altri, l’immagine del Paese è quella di un’entità adagiata nell’indolenza passiva alla periferia del mondo occidentale.

La realtà di questi ultimi anni – in particolare dal 2002 in poi – è invece completamente diversa : recuperate le sue radici e la sua immensa tradizione culturale la Turchia sta gradatamente ma sicuramente riconquistando la sua centralità geopolitica e il suo ruolo di ponte e di cerniera fra Europa e Asia.

Ankara – non più in contrasto ma come erede legittima di Istanbul/Costantinopoli/Bisanzio – sta contribuendo a ridisegnare le vaste e strategiche regioni situate fra il bacino mediterraneo e l’Asia centrale, svincolandole da un’anacronistica dipendenza atlantica e favorendo diversi equilibri mondiali. Conoscere meglio la Turchia sarà l’occasione per conoscere meglio noi stessi e il nostro futuro.

L’Autore

Aldo Braccio è redattore di “Eurasia – rivista di studi geopolitici e membro del consiglio direttivo dell’IsAG – Istituto di Alti Studi di Geopolitica e Scienze Ausiliarie. Esperto di questioni turche, i suoi saggi ed articoli sono apparsi su riviste specializzate, e siti internet, italiani ed esteri.  Al Master Mattei in Vicino e Medio Oriente dell’Università di Teramo – edizioni 2009 e 2010 – ha tenuto relazioni sulla questione curda.

Prefazione

Antonello Folco Biagini,
professore ordinario di Storia dell’Europa orientale
Università di Roma La Sapienza

…i segnali provenienti da Ankara, a partire soprattutto dall’inizio della guerra irachena (2003), sono molteplici e concordanti e vanno in una certa direzione, che è quella di una riacquistata autonomia di fronte alle sollecitazioni esterne.
Se gli sconvolgimenti del biennio 1989 – 1991, sfociati nella fine del sistema mondiale bipolare, avevano tutto sommato poco influito sulla collocazione internazionale della Turchia, confermandone e semmai consolidandone il ruolo strategico di avamposto delle potenze occidentali, l’inizio del nuovo secolo ha visto invece un’evoluzione e dei cambiamenti interessanti e significativi.
Il saggio di Aldo Braccio offre un compendio di tali segnali interpretandoli secondo una prospettiva culturale (riscoperta dell’ottomanesimo e del pluralismo, in luogo dell’identarismo nazionale turco) e geopolitica (relazioni con il mondo arabo, con quello russo, e  con gli altri Paesi dell’area), senza rinunciare a tracciarne i risvolti economici e di politica energetica

dalla prefazione del prof. Antonello Folco Biagini

Per maggiori informazioni, consulta il blog:
http://turchiapontedieurasia.blogspot.com/


I Balcani del XXI secolo

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Fonte: http://www.enriquelacolla.com/sitio/nota.php?id=231

La liquidazione del presunto Osama Bin Laden si inserisce in un quadro di tensioni regionale molto inquietante, dove potrebbe auto compiersi alcune delle profezie annunciate dal Pentagono da alcuni anni a questa parte.

La scarsa attenzione che i mezzi argentini prestano allo scenario internazionale sta lasciando passare inavvertito un notevole aumento della temperatura politica nella regione che è costituita, oggi e probabilmente per molto tempo ancora, dall’asse geostrategico dove si leggeranno i registri della bilancia del potere mondiale nel secolo attuale. È questo, l’Asia centrale. Le potenze che aspirano a convertirsi in superpotenze e gli stati emergenti che si trovano in condizioni di raggiungerli si trovano già lì ed è lì che si proietta anche la volontà strategica dei pianificatori del Pentagono, nella loro monumentale scommessa egemonica.

Quando parliamo dell’Asia centrale ci stiamo riferendo alle nazioni che occupano il centro della scena in quella zona. È così, Cina, Pakistan, India e Russia, tutte influenzate o irritate dalla politica statunitense di inserimento nell’area. Le amministrazioni nordamericane hanno sempre voluto che la loro azione nella zona venga letta come parte di una “guerra contro il terrorismo”, ma questa è una pretesa pellegrina che risulta efficace solo tra la massa di spettatori spensierati e disinformati che costituisce il pubblico occidentale. Il resto sa a cosa attenersi. Non è la persecuzione dei terroristi di Al Qaeda né dei barbuti talebani a spingere Washington a dispiegare la sua opprimente panoplia in questa zona né ad invaderla e stabilire lì le basi di cui ha bisogno per ulteriori sviluppi, ma il valore che suppone come possibile punta di lancia contro Cina e Russia, e come ombrello che protegge gli oleodotti e le fonti di petrolio e gas in Medio Oriente, nel Mar Caspio e nell’insieme dei paesi dell’Asia centrale. La presenza nordamericana in questo luogo, giocata con effettivi molto più ridotti ma altamente tecnici e armati, supportata dall’appoggio di flotte gigantesche, è un fattore che pesa nell’adeguamento e orientamento di una nazione come l’India, possibilmente sottodelegata imperiale- per il gioco dei propri interessi che la oppongono al Pakistan e alla Cina- e nel ruolo che potrebbero avere paesi come la Turchia e l’Iran, anche con interessi competitivi. La zona è anche un calderone etnico e confessionale, dove si possono mettere alla prova i presupposti dello Scontro tra Civiltà, teorizzato da Samuel P. Huntington.

È in base a questo piano, attivo da quando l’attacco alle Torri Gemelle l’11 settembre 2001 ha dato il pretesto ideale per attuare questa politica, che bisogna valutare l’insieme e ciascuno dei fenomeni che hanno luogo lì. L’assassinio di Osama Bin Laden, fatto confuso (40 minuti di scontri e caduta di un elicottero nordamericano, tutto senza perdite proprie; il cadavere di Osama gettato in mare) ha rappresentato una pietra miliare; non per il personaggio abbattuto, ma perché, per portare avanti questa impresa, il presidente Barack Obama ha superato la sovranità di un presunto alleato e ha aggravato, con questo atto, le già grandi tensioni che esistono tra Washington e Islamabad.

Nessuno sviluppo politico e strategico nel mondo moderno può essere compreso se non si prendono in considerazione i fattori storici che lo determinano. La stessa esistenza del Pakistan è dipesa dall’azione dell’imperialismo: nasce da una segmentazione dovuta all’azione dell’imperialismo britannico in India: sebbene esisteva una notevole rivalità confessionale tra indù e musulmani, è stata la sottile azione del vicereame inglese a ravvivare questa contraddizione che ha portato alla frammentazione del subcontinente in una parte islamica e una brahmanica. I contenziosi di frontiera tra entrambi i paesi li hanno portati a una brutale epurazione etnica, a tre guerre e a molti scontri armati per mezzo secolo. Il Pakistan si è appoggiato agli Stati Uniti per affrontare un’India molto superiore per risorse umane e ricchezza, e quest’ultima si è appoggiata all’Unione Sovietica. L’entrata posteriore sovietica in Afghanistan ha rafforzato questo schema: il Pakistan è diventato un alleato prezioso per supportare l’insorgenza dei “lottatori per la libertà”, come li chiamava Ronald Reagan, impegnati a sconfiggere il governo imposto dal loro nemico mondiale. La crescita pakistana e il suo arrivo alle armi nucleari lo hanno trasformato tuttavia in un alleato poco sicuro, percorso da una sorda resistenza all’uso puramente strumentale che facevano i nordamericani del fondamentalismo islamico, resistenza che potenzia la pericolosità dell’anarchia propria di un paese lacerato tra politici e militari, con forti tensioni intrinseche e con un potenziale bellico da temere.

Ciò ha fatto sì che, per Washington, il Pakistan sia diventato uno stato fallito e forse presto inaccessibile. Le comunità militari e dei servizi segreti statunitensi sembrano aver ricevuto l’ordine di fare in modo che questo processo di liquefazione si acceleri e esse stesse siano capaci, per una decisione propria dettata dalla loro “deformazione professionale”, di fomentare ancora di più la disarticolazione di questo paese. Il desiderio di frammentarlo e neutralizzare il suo armamento nucleare è diventata un impulso a cui è difficile resistere per Washington, tenendo anche presente che, con il crescente sviluppo di vincoli militari tra Pechino e Islamabad, l’equazione diventa anche più antipatica. Tutto questo contribuisce a rendere il Pakistan un obiettivo probabile: un’approssimazione con il nemico-in termini oggettivi- numero uno per gli Stati Uniti, rende il Pakistan un ostacolo per il raggiungimento della supremazia globale alla quale aspira l’Unione.

L’incursione per eliminare Bin Laden deve essere vista in questo contesto: la leggerezza con cui è stato violato lo spazio aereo di un paese “alleato”, l’ignoranza in cui si è tenuto il governo pakistano riguardo l’operazione, gli ordini specifici di superare ogni opposizione possibile, compresa quella delle truppe provenienti dalla base dell’esercito del Pakistan che confinava con il bunker di Osama, sono espressione di una volontà di provocazione.

 

Reazioni

La reazione pakistana no ha avuto molta risonanza in occidente, ma c’è stata ed è stata seria. La più evidente è stata la visita del primo ministro pakistano in Cina, a poco più di due settimane dall’attacco nordamericano. Yussuf el Gilani ha ricevuto il trasferimento immediato e senza carico di 50 moderni caccia per la sua forza aerea e un appoggio diplomatico convincente: il ministro per gli Affari Esteri cinese ha affermato che è volontà del suo paese “che la sovranità e l’integrità del territorio pakistano vengano rispettate”. A questo si sarebbe aggiunto, secondo l’India Times, un avvertimento trasmesso a Washington ufficiosamente, nel quale Pechino dichiarerebbe che qualsiasi attacco contro il Pakistan sarebbe considerato un attacco contro la Cina.

Questi sono dati molto significativi, sebbene i grandi mezzi di comunicazione non lascino loro spazio. E non ci sono indizi chiari sul fatto che gli Stati Uniti rettificheranno la loro azione né in Pakistan né in Asia centrale. Al contrario, tutte le procedure in corso sono mirate a prepararsi a una contingenza grave, che il Consiglio Nazionale dei Servizi Segreti ha descritto in una relazione elaborata insieme alla CIA nel novembre 2008: “Entro il 2015 Pakistan può diventare uno “stato fallito”, squartato dalla guerra civile, spargimenti di sangue, rivalità interprovinciali, lo sforzo per il controllo degli arsenali nucleari e una totale “talebanizzazione”. Questa prospettiva è stata rielaborata dal Pentagono nel gennaio 2009, dicendo che esiste la possibilità di una probabile guerra civile e settaria che scoppi “veloce e nell’immediato”, mettendo in gioco lo status delle armi nucleari, e che questa “tormenta perfetta” richiederebbe il compromesso delle truppe degli Stati Uniti e della coalizione “in condizioni di immensa complessità e pericolo”. (1)

Accentuando le procedure attraverso lo stile di liquidazione di Bin Laden e della politica di assassini puntuali, con aereomobili a pilotaggio remoto (droni) o con comandi come i Navy Seals, di personaggi legati ad Al Qaeda, questo tipo di profezia correrebbe un gran rischio di auto compiersi, soprattutto se i danni collaterali che suscitano sempre questo tipo di azioni si moltiplicano. Una divisione del Pakistan lungo linee di differenziazione tribale starebbe dietro l’angolo e così questa nazione si vedrebbe privata del ruolo che la sua situazione geopolitica le aveva dato finora: quello di funzionare come garante del corridoio energetico tra Iran e Cina. Dal momento che un processo così naturale aprirebbe le porte ad una grande minaccia contro la Cina, è evidente che questa- nonostante finora abbia preferito gestire la sua rivalità con gli Stati Uniti dandogli poca importanza- si sente obbligata a fare un passo avanti.

 

Fantasmi del passato

Questo è il rischio a cui va incontro il mondo e che dovrebbe farci ricordare i prolegomeni della catastrofe del 1914. Il meccanismo che ha scatenato lo scoppio ad agosto di quell’anno era latente nella politica di alleanze e nella deliquiescenza di vari imperi decadenti, che li spingeva (a due di loro almeno) a scommettere molto e a portare avanti le loro sfide poiché credevano di trovare nella fuga in avanti una soluzione, anche se provvisoria, ai loro problemi. Gli imperi erano quello austro-ungarico, quello russo e quello turco. Quest’ultimo era rimasto quasi scomposto nelle guerre balcaniche, che lo hanno sloggiato dalle sue ultime posizioni in Europa (tranne Istanbul). La sua sconfitta aveva aperto un vuoto di potere nei Balcani. Vari stati piccoli desideravano occupare quel luogo a danno dell’Austria-Ungheria, che si sentiva obbligata a sostenere la sfida poiché altrimenti la sua traballante unità plurinazionale-già molto strattonata da cechi, rumeni, serbi e slavi- sarebbe andata a pezzi. La Russia, da parte sua, era interessata a recuperare il prestigio perso nella guerra russo-giapponese di una decade prima e decisa ad approfittare del quasi collasso dell’impero turco e delle difficoltà di quello austro-ungarico, per aprirsi un varco verso l’Europa centrale e affacciarsi al Mar di Marmara e ai Dardanelli, ottenendo così quell’accesso al Mediterraneo che la sua politica estera perseguiva da circa 200 anni.

Dal momento che questi imperi in decadenza erano vincolati da potenze anche più grandi- Germania, Gran Bretagna, Francia- da alleanze e riassicurazioni militari, quando il 28 giugno del 1914 hanno risuonato a Sarajevo gli spari che hanno fatto fuori l’erede al trono austro-ungarico e sua moglie, tutto era pronto perché le cose pattinassero sul terreno scivoloso dei fatti compiuti. L’Austria-Ungheria attaccò la Serbia, la Russia attaccò l’Austria, la Germania come alleata dell’Austria attaccò la Russia, la Francia assolse ai propri obblighi con quest’ultima e dichiarò guerra alla Germania e, quando questa invase il Belgio per attaccare i francesi lateralmente, la Gran Bretagna entrò in guerra contro la Germania. Le linee maestre di questo pasticcio si possono ripetere ora, in un contesto infinitamente più pericoloso (dal momento che ci sono armi nucleari di mezzo e quando una cosa così inizia, nessuno sa come né dove finisce) e con una scommessa statunitense anche più superba di quella che aveva il governo tedesco nel 1914, quando si credeva accerchiato ed entrò in guerra per rompere il circolo.

Perché, in effetti, se le cose si estremizzano, la Russia non potrà lasciare da parte la Cina, visto che gli Stati Uniti e l’Unione Europea sembrano decisi a renderle la vita impossibile nell’Europa dell’Est e nel Caucaso. Inoltre bisogna dire che una simile prospettiva dovrebbe spaventare chiunque. Non sappiamo se questo è il caso degli strateghi del Pentagono. Anche se ci fosse un conflitto localizzato e sviluppato in grande misura tramite l’India, mettersi contro un paese popolato da 180 milioni di musulmani non è un affare semplice. Non sappiamo bene perché Barack Obama è Premio Nobel della Pace. Vuole esserlo anche della guerra?

 

Nota

1) Andrew Gavin Marshall, Imperial Eye on Pakistan, Global Research del 28 maggio

 

Traduzione di Daniela Mannino

Dall’Universitas alla Noosfera

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Dall’Universitas alla Noosfera

Come educare alla salvezza del Pianeta

(Chi è responsabile di ciò che sta accadendo al nostro Pianeta?

Riflessioni sulla Missione dell’Università nel 21esimo Secolo)

 

Dott. Alexander Kovriga

(Università Nazionale “V. Karazin”, Ucraina)

Conferenza Pubblica Internazionale presso

Università di Rhode Island, 27 Aprile 2011

Buon pomeriggio a tutti!

Sono molto onorato di essere qui e apprezzo tutti gli sforzi fatti per rendere possibile questo evento.

Voglio ringraziare in particolar modo il Rettorato, il Decano di Arti e Scienze, l’URI Honors Program e il dipartimento di Scienze Politiche per la cortese assistenza nella preparazione di questo incontro presso il vostro bel campus.

Capisco che le previsioni e speculazioni sul futuro costituiscano attività intellettualmente deprecabili. E che nel cercare di parlare del futuro dell’università, nel Paese che ne ospita tante (buone e all’avanguardia) quante il resto del mondo messo assieme, il rischio per me è molto alto.

Ma mi preoccupa che, in un mondo sempre più complesso ed interconnesso, coloro che possono alleviare le nostre paure su ciò che ci riserva il futuro, siano come l’orbo nel regno dei ciechi. Non vedranno molto bene, ma sapranno vedere come fare profitto.    

Direi che questi costituiscono, di fatto, tentativi di privatizzazione del futuro, di sfruttamento per tornaconto personale. Qualcuno potrebbe chiamarlo “saccheggio del futuro”. Nelle scienze sociali la manipolazione della nostra percezione del futuro serve finanche come strategia – un tentativo di prevedere ed assicurare la vittoria di specifiche visioni del mondo.

Spero di convincervi oggi che uno scopo basilare dell’università dovrebbe essere quello di contrastare simili tentativi di privatizzazione del futuro.

Apprezzo molto il motto della vostra università: Pensa in Grande – Noi lo Facciamo.

Nello spirito di questo motto vi dico che, soprattutto oggi che ogni problema regionale ha implicazioni globali,  il pensiero aperto e critico sulla natura e lo scopo dell’università è assolutamente essenziale.

 

L’Università, come istituzione cardine della civiltà, è sopravvissuta per molto secoli. Ma adesso l’intera struttura dell’educazione superiore, le modalità di trasferimento della cultura, i nostri schemi di pensiero, riflessione e creatività stanno mutando rapidamente.

E’ nostra responsabilità parlare ed agire in difesa del ruolo dell’Università nella società, e riorientarla per fronteggiare le sfide attuali e contribuire alla salvezza e allo sviluppo dell’intero genere umano.

Perché questo tema è così importante adesso? Perché il mondo intero è in una fase di transizione e il Futuro del Pianeta dipende dall’azione delle comunità universitarie e dal loro sviluppo.

Le università sono sempre state incubatrici naturali del futuro, centri per la creazione di nuove conoscenze e abilità, e per la disseminazione di nuove visioni del mondo.

Le catastrofi causate dall’uomo agli inizi del 21esimo secolo ci mostrano che i vecchi paradigmi sull’andamento del globo non sono solo irrimediabilmente superati, ma possono condurci ad una catastrofe(1).

Perché il genere umano si ritrova continuamente coinvolto in situazioni inaspettate con l’affacciarsi continuo di nuove minacce nucleari, demografiche, finanziarie, politiche, legate allo sviluppo, etc.?

A seguito di ogni nuova crisi, vengono fatti enormi sforzi per neutralizzare simili minacce, ma ciò non garantisce che le successive verranno affrontate con successo. Chernobyl; uragano Katrina; crisi finanziaria globale; fuoriuscita di petrolio nel Golfo; Fukushima: perché tutto procede in questo modo?

Perché il Genere Umano non è libero come dovrebbe nel definire il proprio percorso di sviluppo.

Molti degli strumenti tradizionali che incoraggiavano l’autoriflessione ed una ponderata ricerca per uno sviluppo futuro sensato sono stati distrutti, o sono semplicemente “passati di moda”.

Abbiamo limitato la nostra stessa libertà di scelta permettendo a noi stessi di diventare schiavi di stereotipi e di ingenue ideologie, la più grande delle quali è la supremazia del mercato.

Come risultato, la comunità globale è ovunque incapace di comprendere il suo potenziale. Non si assume la responsabilità delle proprie azioni.

Non ammette la propria responsabilità sull’ambiente.

Ir-responsabilità e assenza di obiettività hanno infettato a tutti i livelli le istituzioni, gli stati, le imprese e, ovviamente, i media, e questa è diventata la ragione principale per la quale restiamo sempre indietro nel rispondere a nuove minacce causate dall’uomo che, scientificamente parlando, sono interamente prevedibili.

Sappiamo, è un’inevitabilità statistica, che le centrali nucleari sono soggette a incidenti, ma nessuno di fatto ne risulta responsabile quando ciò accade. Sappiamo che le epidemie devasteranno il pianeta, ma non è predisposto alcun meccanismo di prevenzione al riguardo. Sappiamo che i mercati crollano periodicamente, ma quando collassano tutti paiono sorpresi e nessuno sa cosa fare.

Ovviamente, ognuno è chiamato in causa per la sopravvivenza del pianeta, e tuttavia non esiste ancora un corso di laurea chiamato “Assunzione di rischio e responsabilità per la sopravvivenza del Pianeta”.

Lo sviluppo di una simile disciplina nelle nostre università necessita apparentemente di una rappresentazione molto più complessa dei cicli di lungo termine delle società [e civiltà] rispetto a quelle che siamo al momento capaci di produrre.

Il Genere Umano può ora restare intrappolato in forze così complesse e potenti da superare le proprie capacità di controllo sulle stesse.  Restando prive di controllo, queste ci minacciano con l’estinzione. La teoria della selezione naturale, che è stata così influente nel formare la nostra visione del mondo in settori che spaziano dall’economia alle relazioni internazionali, è divenuta essa stessa fonte di pericolo per la specie.

Nel mondo mediatico attuale è certamente facile limitarsi a disseminare informazioni, ma  cambiamenti basilari nelle visioni del mondo, la creazione di nuove categorie del sapere, la riproduzione e la preparazione delle nuove generazioni nel mettere a frutto tale conoscenza, dipendono ancora dall’Università.

Così si pongono davvero le basi per la sopravvivenza del Genere Umano.

 

Ho trovato un unico aspetto positivo in questa crisi.

La prima volta è stata quando il paese nel quale vivevo – l’URSS – si è dissolto, e molti nuovi paesi – Ucraina inclusa – sorsero al suo posto. Come effetto immediato di questi eventi, ho avuto la possibilità di viaggiare per l’Europa e gli Stati Uniti e partecipare ad un certo numero di programmi di alto livello di pianificazione strategica e di management. Infine, lavorando come consigliere per l’istruzione con il precedente presidente d’Ucraina, mi venne affidato il compito di tentare di elaborare un nuovo sistema nazionale di istruzione.

Sono sempre stato uno studente brillante, fino a che non ho cominciato a pormi delle domande. Ho studiato architettura e pianificazione urbana, credendo ingenuamente che gli architetti avessero le capacità sufficienti a creare nuove città e, con esse, una migliore qualità della vita.

Insoddisfatto, al termine di quattro anni di studio, mi recai a Mosca per un incontro con i più grandi professionisti della pianificazione urbana. Qui, presso l’Istituto Centrale di Scienza e Design per Pianificazione Urbana, ho collaborato alla progettazione di una nuova Tractor City per 500.000 persone. Questo esercizio futile mi ha insegnato che è impossibile prevedere con la minima certezza scientifica tutte le ramificazioni delle grandi scelte strategiche e di investimento che ci veniva chiesto di effettuare. Ciò mi ha portato a ripensare totalmente il mio approccio e a considerare se come specie possiamo davvero essere capaci di affrontare il nostro futuro affidandoci esclusivamente alla conoscenza quantitativa e all’esperienza tecnica.

Agli inizi degli anni ’80, presi parte ad un gruppo radicale di intellettuali alla ricerca di nuovi modelli di politica sociale. Per tutto il decennio abbiamo tenuto più di 100 incontri di durata settimanale affrontando complesse problematiche nei maggiori centri intellettuali del Paese.

La perestroika doveva giungere dopo diversi anni, ma le nostre ambizioni erano già molto più grandi. Ci siamo posti come obiettivo la preparazione di un nuovo tipo di specialista – qualcuno in grado di portare nuove tecnologie e progressi socio-economici.

27 anni fa ciò era chiamato, in gergo burocratico, “Programma per l’Intensificazione di Attività Innovative e l’Accelerazione del Progresso Scientifico e Tecnico” (2).

Oggi, in America, credo venga chiamato “conquistare il futuro” [шутка].

Allora, il Ministro dell’Istruzione dell’URSS scelse 4 università – Mosca, Minsk, Riga e Kharkov –  per preparare specialisti nella sfida verso la trasformazione del Paese. Dopo aver completato il mio dottorato nel 1985, fui mandato a Kharkov per dirigere il progetto.

Avevamo carta bianca per costruire un sistema (non sovietico) di formazione manageriale partendo dal nulla. Abbiamo eliminato le discipline tradizionali e pensato invece esclusivamente tramite case-studies e simulazioni di crisi reali. La tesi di laurea prevedeva proposte di risoluzione per simili crisi.

Sebbene ricevessimo ottimi riscontri dal Ministero dell’Istruzione, non appena le riforme neo-liberali si affermarono nel mio Paese, tutti i fondi per progetti sperimentali cessarono e la maggior parte dei nostri laureati emigrò da Mosca verso l’Occidente.

Questa esperienza mi ha insegnato che, affinché le innovazioni nel campo dell’istruzione abbiano successo, devono includere una sfera di  applicazione pratica. E, per riuscire in  simile sperimentazione, è necessario ricevere incoraggiamento e supporto di lungo termine.

Successivamente sono stato nominato responsabile del Dipartimento di Scienze e Istruzione per il Presidente d’Ucraina, appena dopo la “Rivoluzione Arancione” del 2004.

Avevo proposto iniziative tese a rafforzare il ruolo della cultura e delle discipline umanistiche ad ogni livello curriculare, per creare ciò che ho chiamato “Una Nazione di Apprendimento”. Ho incontrato un discreto successo, ma questo venne frustrato dal fatto che ogni iniziativa veniva adesso valutata anzitutto con il criterio del profitto.

Costruire una politica di istruzione sovrana, autenticamente nazionale, è oggi pressoché impossibile per un paese povero. Durante il mio incarico presso la Presidenza, gli attori principali del sistema di istruzione ucraino erano la Banca Mondiale e l’Open Society Institute di George Soros. Ciascuno aveva la propria agenda e l’identità ucraina, nonché il ruolo che l’università poteva giocare nella costruzione della stessa, non erano ivi contemplati.

Ho avuto una bella lezione sull’interdipendenza dei mercati globali durante i miei tre anni nell’amministrazione presidenziale.

Ma senza una visione di strategie di lungo termine e di obiettivi specifici per l’Ucraina, qual è il senso della politica nazionale? Qual è il senso dello stesso esistere di una nazione?

 

Ed arriviamo così allo scopo dell’Università.

A seguito del collasso economico globale, si è diffuso il luogo comune per il quale staremmo vivendo una profonda crisi. A mio parere, in verità, l’ultima crisi finanziaria è nient’altro che conseguenza di una crisi della civiltà occidentale che sta andando avanti da lungo tempo.

Tale crisi di lungo termine richiede una nuova concezione dell’università e della formazione universitaria che ci conduca oltre i limiti del progetto illuminista di modernità, il quale ha promosso un unico modello di sviluppo umano, e che ha avuto luogo nella propaggine nord-occidentale dell’Eurasia, a scapito di ogni altra storia ed esperienza umana.

Il superamento della crisi interna alla civiltà occidentale è dunque inestricabilmente legato al trascendimento della “fine della storia” (cit.) e dello “scontro di civiltà” (cit.), sostituendo quest’ultimo con una meno netta  concezione della storia e della civiltà globale ed anche del nostro ruolo, più modesto, nelle stesse. Ciò richiederà una modalità qualitativamente nuova di apprendimento, che ambisca a preservare, più che alterare, i valori fondamentali delle civiltà diverse dalla nostra.

Il mio stesso punto di partenza è nell’opera del grande accademico russo-ucraino Vladimir Vernadsky, il quale è noto in Occidente soprattutto per aver introdotto il termine “biosfera”. Secondo Vernadsky, la consapevolezza umana dell’interconnessione della geosfera, e quindi della biosfera, potrebbero finalmente condurre il genere umano ad una consapevolezza dell’interconnessione dell’intero patrimonio cognitivo umano, al quale lui si riferiva con il termine noosfera.

Se pensiamo allo sviluppo del nostro pianeta come a quello di un singolo organismo, come Vernadsky ci incoraggia a fare, le Università assumono non solo la funzione di cervello, ma anche di sistema circolatorio per l’organismo. Esse sviluppano il sapere fondamentale che deve essere distribuito attraverso specifiche organizzazioni sociali e commerciali.

 

Nel mondo attuale le Università sono le sole organizzazioni a godere di sufficiente autonomia dalle istituzioni politiche ed economiche dominanti e ciò permette loro di considerare nuovi modelli di organizzazione industriale e socio-culturale, nuovi sistemi di produzione e tipologie istituzionali, e nuove modalità di impiego nella prospettiva dell’interesse di lungo termine della razza umana, più che non di quello del bilancio trimestrale o della prossima tornata elettorale.

Vernadsky ha anticipato che la Noosfera potrebbe infine emergere come una forza creatrice capace di agire su scala planetaria. Al riguardo potete seguirne lo sviluppo sul sito web del “Progetto di Coscienza Globale” curato dal professore Roger Nelson da Princeton. [http://noosphere.princeton.edu/]

Implicitamente, tuttavia, si è dibattuto a lungo, in una scuola di filosofia russa conosciuta come cosmismo, che se il genere umano è forza creatrice dell’universo, allora ciò avrà sicuramente implicazioni anche al di là del nostro pianeta.

Essi ritengono che, affinché la specie umana sopravviva, deve estendere le sue forze creatrici per tutto il sistema solare e oltre, ottenendo così l’equivalente funzionale dell’immortalità (3).

O, come diceva in maniera più poetica il filosofo russo Evald Ilienkov: “Lo scopo dell’Umanità è accendere un altro Sole nell’Universo”.

Per impedire la morte del pianeta terra, l’umanità deve abbracciare il suo potenziale di attore cosmico ed aspirare a tutti i nuovi tipi di sapere che ciò richiederà.

Tuttavia, la sfida più immediata è formulare sapere in modalità che ci permettano di comprendere l’interdipendenza del nostro pianeta concepito come un tutt’uno, ed il co-sviluppo di tutte le specie che ci vivono. Questa è la fondamentale precondizione per l’affermarsi della noosfera.

Come sarebbe una simile educazione all’Umanità Cosmica?

Anzitutto, dovrebbe essere in grado di tramandare alle future generazioni il corpus di idee, conoscenze e rappresentazioni che fungono da base per il nostro benessere materiale e spirituale.

Dopodiché, dev’essere designato all’espansione della capacità umana di auto-trasformazione – individuale, sociale, istituzionale e tecnologica. Una formazione crea “capitale umano” solo se supera i modelli esistenti di attività e produzione, senza limitarsi a riprodurre “ciò che funziona”.

Inoltre, essendo una delle grandi istituzioni permanenti dell’umanità, l’università non deve mai dimenticare che la sua vera vocazione è focalizzarsi sulle questioni ultime dell’esistenza umana, non riducendosi a centri d’addestramento per competenze effimere.

Ciò richiederà alcune rivalutazioni e reintegrazioni del patrimonio umano in un contesto globale di educazione, e uno sforzo concertato per rompere le barriere disciplinari e le strutture dipartimentali che bloccano le nostre capacità dal formulare le grandi idee che il Genere Umano necessita.

Una idea di questo tipo che recentemente è emersa nel regno delle relazioni internazionali è il Dialogo delle Civiltà.

Politicamente, dal Trattato di Westfalia, le nazioni sono esistite come contenitori separati, nonostante i loro contenuti culturali, linguistici, religiosi e di altro tipo spesso fuoriuscissero. E’ chiaro adesso che nel mondo attuale dovremmo concentrarci più sulle fuoriuscite che sui contenitori.

Ciò richiederà nuove forme di comprensione culturale e di apprendimento. Come risultato, il progetto di dialogo delle civiltà è stato formulato dal filosofo austriaco Hans Koechler e successivamente promosso da molto leader mondiali e adottato alla 59esima Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2005.

Dalla prospettiva dello sviluppo della noosfera, il dialogo fra civiltà conduce ad una possibilità di unificazione delle diverse comunità nel perseguimento di comuni obiettivi globali.

 

Infine, un’altra importante componente dello sviluppo della Noosfera è il ripensamento della funzione dei mercati nell’istruzione.

L’inizio del 21esimo secolo è caratterizzato da crescenti tentativi di privatizzazione di beni tradizionalmente pubblici, come l’istruzione. E’ ormai un luogo comune il considerare l’istruzione semplicemente un bene di mercato come altri.

In quest’ottica, gli accademici commerciano la loro eredità illuminista, promuovendosi come guardiani e creatori di sapere prodotto per il bene superiore dell’umanità. Essi promuovono il libero scambio di idee in una società democratica e dichiarano di lavorare per proteggere la libertà di pensiero, inclusa quella di dissentire dall’ortodossia prevalente. Ma, da una prospettiva neo-liberale, è difficile vedere una diretta correlazione fra i benefici dell’istruzione e quelli del mercato perché quattro anni di università formano un individuo con un sapere molto maggiore di quello richiesto per un lavoro. In termini di mercato ciò è stato criticato in quanto “spreco”, ma non lo è affatto – è potenziale inutilizzato.

Noi dovremo trasformare questo potenziale inutilizzato in qualcosa di più socialmente dinamico. Il sapere così acquisito, ma non utilizzato nel luogo di lavoro, deve ottenere uno sbocco creativo, così da diventare risorsa di nuove brecce scientifiche e culturali.

Attualmente, quando gli studenti lasciano l’università per ingrossare le fila dei lavoratori, tendono a considerare questo primo periodo come separato dal resto della loro vita. Invece di lasciare che la loro creatività produttiva venga dissipata nella vita adulta, dobbiamo trovare uno sbocco per la sua collocazione più naturale e recettiva, dove lo sprazzo della loro curiosità intellettuale era inizialmente  acceso, nella madre delle loro anime: la loro alma mater.

Paradossalmente, mentre i mercati riducono l’offerta universitaria a quei soli corsi di studio che “fanno profitto” (cit.) e solo le competenze lì conferite sono “pratiche” (cit.), essi finiscono per ridurre la complessità intellettuale e impediscono all’Università di servire come luogo di sviluppo per soluzioni creative a problemi sociali.

 

In conclusione, la crisi globale attuale richiede un approccio radicalmente nuovo al sapere e una concezione radicalmente diversa dell’Università.

Per salvare l’unicità e la complessità della natura, abbiamo bisogno di saperne di più del Mondo nella sua totalità – decisamente agli antipodi rispetto all’approccio attuale su contenitori intellettuali altamente specializzati e segregati. Come accademico, Yulii Khariton, (4) uno dei fondatori del programma di energia atomica sovietico, dichiara: “Dovremmo conoscere dieci volte di più e solo dopo agire”.

Forse il rappresentarsi un simile compito come una missione di soccorso globale, una nuova e pratica Scienza di Preservazione Umana potrebbe infine rimpiazzare la superata e finanche autodistruttiva Scienza Prometeica dell’Illuminismo.

Una simile Scienza di Preservazione Umana potrebbe formulare la visione di una tensione umana non centrata sulle singole funzioni – economica, artistica, intellettuale  – ma che abbia invece al centro l’armonia e l’equilibrio fra le componenti dell’esistenza umana. Dovrebbe servire come base per un “dialogo” attivo delle scienze naturali, umane e sociali, fornendo nuove visioni del mondo per la creazione della Noosfera.

Nell’antica Grecia, la parola “crisi” si riferisce alla rottura di legami.

Non è qualcosa da temere ma piuttosto da prevedere. Non tutte le generazioni ricevono simile opportunità. La scarsa lungimiranza è stato un male comune del genere umano in tutte le epoche ma, a causa della tecnologia e della globalizzazione, essa non è mai stata così pericolosa. Credo che l’Università dovrebbe abbracciare la sua vocazione storica e diventare ancora una volta il punto focale per la costruzione di una nuova ontologia, che superi le barriere disciplinari: superare le costrizioni intellettuali del paradigma neo-liberale e l’egocentrismo tipico del razionalismo post-illuminista.

Forse, come incubatrice di una Nuova Antropologia Salvifica Globale essa ci insegnerà come controllare gli strumenti sviluppati dalla scienza per il bene comune. Lo sviluppo sociale comune è in continua espansione e l’intero Universo è lo spazio per la sua implementazione.

Molte grazie per la vostra attenzione.

 

1)        Come sappiamo grazie agli studi dell’autorevole professore canadese di pianificazione urbana William Rees (Università della British Columbia), per mantenere il livello di consumi dell’uomo medio occidentale sono richiesti dai quattro ai sei ettari di terra produttiva. E nel mondo le terre fertili possono soddisfare solo da 1,4 a 1,7 miliardi di persone. Ciò significa che qualcuno sta pagando per questo livello di consumi – altre nazioni o le prossime generazioni.

2)        Oggi parliamo di nuove frontiere per gli sviluppi industriali e tecnologici, vertenti sul sapere economico, su tecnologie innovative ed efficienti. Tutte queste tematiche sono state già discusse e certi pratici obiettivi formulati. Cosa è successo a loro e in quale grado costituivano fantasmi ed utopie troppo lontane dalla realtà – è la domanda cruciale.

3)        L’esistenza della vita sulla terra è vista come anti-entropica, come progresso della cultura umana verso maggiore ordine e complessità. Alcuni hanno persino teorizzato che il fine ultimo del Genere Umano in questo universo sia quello di invertire l’entropia, una nozione resa celebre nell’opera di Isaac Asimov “The Last Question” e in quella di Arthur C. Clarke “The 9 Billion Names of God”, entrambe considerate fra le dieci migliori opere di fantascienza di tutti i tempi.

4)        Inventore della bomba termo-nucleare.

 

Traduzione di Giacomo Guarini

L’arresto del generale Mladić – Intervista a Yves Bataille

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Fonte: http://www.geostrategie.com/3482/arrestation-du-general-mladic-%E2%80%93-entretien-avec-yves-bataille/

 

 

Geostrategie.com – Il generale Ratko Mladić è stato arrestato nei pressi di Belgrado. Cosa cambierà ora per la Serbia?

Yves Bataille – I Sanhedrin di La Haye avranno un nuovo ospite, ovviamente serbo. Il rituale dell’arresto e della liberazione degli esponenti della resistenza serba è arrivato a una conclusione. Il vecchio capo di stato maggiore dell’Armata della Repubblica Srpska, il generale Ratko Mladić, è l’ultima grande figura ricercata dalla “giustizia internazionale”. Il governo attuale della Serbia, che è stato rimproverato di non aver fatto abbastanza per fermare il generale Mladić, riceverà un buon incentivo dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti ma sarà ancora più esecrato dai Serbi. Ciò rafforzerà il punto di vista di quelli che considerano il governo di Boris Tadić un governo di traditori.

G – Sono stati lanciati degli appelli a scendere in strada. Ci saranno delle manifestazioni?

YB – Nel momento in cui vi parlo sono già incominciate. Bisognerà fare attenzione ai prossimi quindici giorni, perché questi avvenimenti, congiunti ad altri, potranno far scendere in strada un cordone di protesta senza precedenti.

La dichiarazione dell’”indipendenza” del Kosovo ha provocato delle manifestazioni di massa nelle strade. Ci ricordiamo che è stato dato fuoco all’ambasciata americana e ai McDonald’s. Quando l’UE ha voluto imporre il suo “Gay Pride”, migliaia di giovani serbi sono scesi in strada e hanno affrontato con determinazione la polizia ed i gendarmi. Oggi quattro elementi si congiungono per stimolare nuove manifestazioni: quello dell’anniversario dei 78 giorni di bombardamenti NATO contro la Repubblica Federale di Yugoslavia (RFY) del 1999, quello dei bombardamenti della NATO contro la Libia, l’annuncio di una riunione generale (nuovamente a Lisbona) della NATO a Belgrado il 13, 14 e 15 giugno, e infine l’arresto del generale Mladić. Tutti quanti fattori politici e emozionali in grado di alimentare una contestazione politica radicale. In seguito ai bombardamenti e all’annuncio della riunione della NATO, la Serbia era già seduta su una polveriera. L’incarcerazione del generale Mladić è un fattore che aggrava il rischio. Il governo lo sa, e perciò ha rafforzato le misure di sicurezza davanti al Parlamento, alla radio, alla televisione e alle ambasciate occidentali.

G – Lei è molto impegnato nell’azione di sostegno alla Serbia. Che cosa intende per “cordone di protesta senza precedenti” e “assisteremo a nuovi sconvolgimenti”?

YB – La piazza pubblica e la strada sono oggigiorno il terreno privilegiato di un’azione, ma di un’azione marcata dalla novità dell’utilizzo di risorse sociali come Internet, Facebook e Twitter, armi del nemico che si sono rivoltate contro di lui. Il gruppo di Facebook “Support for Muammar Gaddafi from the people of Serbia”, che ha superato i 70.000 iscritti, ha già fatto scendere in strada migliaia di manifestanti. Si sta creando una coscienza. I più lucidi dicono che non è più opportuno negoziare l’avversione, ma la si deve inquadrare. Le manifestazioni che non ne hanno prodotte altre sono prive d’interesse. Conviene infierire colpi al regime e per questo è necessario rispondere a una coordinazione, l’unità alla base e all’interno dell’azione contro il regime e contro il Sistema. La situazione sembra matura per applicare la famosa dinamica azione-repressione-nuova azione. La repressione promessa da un governo che ha affermato di non sopportare i disordini provocati porterà a nuove manifestazioni. Alcuni dicono che non ci si deve comportare come dopo l’attacco dell’ambasciata americana, cioè fermarsi. Al contrario questa volta si dovrà andare avanti e ancora avanti, fino allo scontro finale, fino alla rottura. Slobodan Homen, il commissario politico dell’ambasciata americana al governo ha capito che si moltiplicano le minacce contro i nazionalisti. Homen è un vecchio membro di OTPOR, il gruppo studentesco di opposizione a Slobodan Milosević creato dalla CIA.

Le prime manifestazioni hanno avuto luogo dopo l’annuncio dell’arresto del generale Mladić. A Belgrado la polizia ha disperso dei gruppi che convergevano verso Piazza della Repubblica, luogo abituale delle proteste. A Novi Sad si sono creati degli scontri tra un migliaio di manifestanti guidati dai nazionalisti di Obraz e dal 1389 e la polizia.

G – Come si può associare il sostegno alla Libia con quello al generale Mladić?

YB – Ci si può stupire per la mobilitazione serba per la Libia, ma vi è una spiegazione. I Serbi non hanno dimenticato l’aggressione al loro paese. È per questo che si mostrano solidali a una Libia attaccata dagli stessi nemici e con i medesimi procedimenti. Come ha detto uno psicologo, dal 19 marzo i Serbi si sono identificati con gli aggrediti. C’è anche un altro fattore che si conosce meno a Parigi, e cioè gli antichi legami tra i due paesi. La Serbia mantiene l’eredità di una relazione instauratasi pochi anni fa nel quadro del Movimento dei Paesi non-allineati (MNA). Nel 1999 la Libia di Gheddafi ha sostenuto i Serbi e in seguito si è rifiutata di riconoscere l’”indipendenza” del Kosovo.

Sulla Libia, sulla NATO, sull’Europa di Bruxelles, tutti gli autentici movimenti nazionalisti e socialisti sono sulla stessa lunghezza d’onda. Questa univoca opposizione ha portato alla convergenza di forze che, in altri paesi, sono concorrenti o antagoniste. È una specificità serba. Lì un socialista internazionale sarà sempre più vicino a un nazionalista che a un liberale atlantista. La scissione non è tra una destra e una sinistra ma tra i difensori del popolo e della nazione e i collaboratori dell’Occidente (Stati Uniti, Unione Europea, NATO etc.). Inoltre il campo della politica è stato incredibilmente scosso. Si allontana dal Parlamento giorno dopo giorno, il che non impedisce ad alcuni gruppi nazionalisti di raccogliere firme per entrarvici. Sono nati dei sindacati rivendicativi, il numero di associazioni culturali e studentesche aumenta come quello di gruppi patriotici, che formano il sottobosco di un movimento più vasto.

Il Movimento extra-parlamentare si pone come portavoce del popolo e della nazione contro il regime collaborazionista di Boris Tadić. I membri del governo sono visti come traditori imposti dal nemico e che agiscono contro il paese. Alle elezioni del 2008 i socialisti dell’SPS hanno salvato Tadić sostenendo il governo, ed è stata organizzata una scissione all’interno del Partito radicale serbo (SRS) per indebolirlo. Quest’ultimo si è infine rinforzato con la scomparsa di scena degli elementi che stavano alla base di tale scissione (Nikolićt, Vucić) e degli ex scissionisti e non dei minoritari, come il generale Božidar Delić, i quali hanno poi rinforzato i ranghi dell’SRS.

Il generale Mladić è presentato in Occidente come un “criminale di guerra”, colui che ha assassinato 8.000 musulmani bosniaci a Srebrenica. Ci fanno credere che sotto la sua direzione i Serbi si sono abbandonati ad un massacro. Oggi la documentazione è sufficientemente importante da rendersi conto che non si tratta che di propaganda di guerra. A Srebrenica e nei dintorni sono stati uccisi tanti Sebi quanti musulmani bosniaci (circa 3.000 per entrambe le parti). La mediatizzazione del “massacro di Srebrenica” è della stessa natura di quella che ha portato a dire due mesi fa che Gheddafi ha bombardato la sua gente con gli aerei. Ci si inventa ogni volta un massacro per poter poi giustificare i veri massacri, quelli della NATO. In Bosnia i moujahidin afghani importati dai servizi anglosassoni con l’aiuto dell’esercito turco hanno giocato lo stesso ruolo degli “insorti” islamici di Bengasi. D’altronde si è tentato poco tempo fa di creare a Misurata la medesima messa in scena di Srebrenica, ma questa non ha funzionato (pensando alla storia delle bombe a frammentazione si sa che sono state sganciate dalla NATO).

G – Qual è il ruolo degli intellettuali serbi nel movimento di protesta?

YB – La Serbia è un paese dove esistono ancora degli intellettuali, vera gente di cultura. Non come in Francia, dove dei “citrulli pomposi” detengono il monopolio della diffusione delle idee e discutono tra di loro su tutti i canali televisivi per dire tutti la stessa cosa. In Serbia gli Americani hanno fallito nella loro offensiva sul Fronte culturale. Con la Fondazione Soros, essi hanno sì provato a comprare l’Unione degli Scrittori, ma non ci sono riusciti. Essi hanno speculato sulla povertà degli scrittori, sul loro disperato bisogno di denaro. Il solo ambito in cui sono riusciti a fare qualcosa tramite i media (soprattutto la televisione) che controllano, è quello della diffusione della subcultura di massa democratica occidentale a base anglosassone. I concerti rock, la diffusione dei reality televisivi. Essi sovvenzionano la promozione di questi elementi di disturbo, pagano le ONG, finanziano i siti internet. Gli Americani sono stati fino ad oggi molto generosi con le loro quinte colonne. I Russi sono incapaci di fare la stessa cosa. Quindi senza i russi, ai quali non si deve dare un assegno in bianco perché sono slavi ortodossi… il popolo serbo manifesta sempre la sua preferenza per le canzoni e le danze tradizionali, la musica bizantina, i canti sacri. Per ciò che viene dall’alba dei tempi e ricorda l’epopea. Moderno ma tipicamente serbo, il Festival delle Trombe di Guča, che riunisce ogni anno in un piccolo villaggio decine di migliaia di partecipanti, ha raggiunto una fama mondiale, per nient’altro che la sua qualità mentre la voga dei canti ortodossi, bizantini e neo-pagani non smette di aumentare. Questa affermazione culturale esplica la vitalità del movimento politico extra-parlamentare irrigato dalle idee trascinanti delle resistenza popolare.

Un esempio della sinergia tra cultura e politica: quando dopo le manifestazioni contro il provocatore Gay Pride il capo del Movimento Obraz e venti dei suoi compagni sono stati imprigionati, centinaia di scrittori, poeti e gente dello spettacolo hanno firmato una petizione per chiedere la loro liberazione. È molto attuale vedere degli intellettuali legati al movimento nazional-patriottico pertecipare a riunioni e manifestazioni di strada o addirittura capeggiarle.

C’è un fossato abissale tra la coscienza nazionale espressa dagli intellettuali serbi e i leader d’opinione occidentali. Dopo l’arresto del generale Mladić, la stampa occidentale ci ha riproposto i cliché che ci propina da quindici anni. Nessuna oggettività e sempre lo stesso vocabolario ostile. Si è fatto resuscitare questo linguaggio come scongelandolo. Giornalisti e politici si felicitano dell’arresto del “macellaio dei Balcani” (il titolo di una futura edizione della televisione de “la 2”) e evocano i benefici terapeutici del tribunale di La Haye. La stampa industriale continua a rimarcare quest’opinione e a ripetere queste menzogne. Credendo di vedere nell’“arresto di Mladic” (come dice) la fine di una storia, questo mezzo superficiale e artefatto non si rende conto che l’arresto del generale Mladić non mette fine al combattimento. La guerra continua con un movimento politico-sociale di contestazione generale che è la Nuova Resistenza Popolare all’azione e il movimento vittorioso di domani.

Yves Bataille, esperto conoscitore della Serbia, consigliere del movimento serbo SEDEP, co-autore de La lotta per il Kosovo (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2007), è membro del Comitato scientifico di Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici (Italia).

Traduzione di Alessandro Parodi

Breve resoconto delle elezioni 2011 in Perù

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Dopo un vantaggio ottenuto al primo turno con il 31,8% di preferenze, il candidato presidente Ollanta Humala si conferma il più votato anche nel giorno di domenica 5 giugno, giorno del ballottaggio disputato con l’avversario politico Keiko Fujimori, figlia di quell’Alberto Fujimori attualmente rinchiuso in carcere causa i massacri di Barrios Altos e dell’Università La Cantuta (in cui persero la vita rispettivamente 15 e 10 persone), sequestro di persona, tortura, l’assassinio dell’imprenditore Samuel Dyer e del giornalista Gustavo Gorritti durante l’auto colpo di stato del 1992 ed altre violazioni dei diritti umani.

Secondo i dati dell’ONPE (Oficina Nacional de Proceso Electoral) il partito di Ollanta, “Gana Perú”, ha ottenuto il 51,47% di preferenze contro il 48,53% realizzato da “Fuerza 2011” di Keiko Fujimori.
Anche in questa seconda tornata elettorale l’affluenza alle urne è stata molto elevata. Sempre secondo i dati forniti dall’ONPE si è attestata al 82,81%, solo l’1,09% in meno rispetto alla percentuale del primo turno.

A determinare la vittoria di Humala sono stati essenzialmente tre fattori chiave.
Innanzitutto, l’innegabile voglia di cambiamento politico da parte della popolazione peruviana, tra l’altro già determinata il 10 di aprile con il vantaggio di Humala rispetto a tutti gli altri candidati alla presidenza – l’alternanza politica non è da considerarsi sempre come l’ultima delle motivazioni.
In secondo luogo, in vista di un ballottaggio contro la figlia di Alberto Fujimori, è stata determinante la scelta di molti elettori che hanno optato per un voto contro la stessa Fujimori, proprio per non dover assistere ad un eventuale “Fujimori Secondo Tempo”. Il cognome di Keiko ha dunque influenzato parte della popolazione del Perù che inevitabilmente ha ricollegato il nome in questione ad un periodo oscuro della storia politica peruviana.
Le decisioni del premio Nobel Mario Vergas Llosa, come quella presa dall’ex presidente Alejandro Toledo, sono un chiaro esempio di quanto affermato. Entrambi hanno infatti deciso si sostenere il candidato Humala, nonostante le divergenze ideologiche, pur di non veder salire alla guida del Paese la figlia di quel Fujimori che loro stessi hanno combattuto.
Il terzo fattore chiave è da individuare nella svolta centrista del neo presidente.
Le preferenze espresse a favore di un modello governativo vicino all’ex presidente brasiliano Lula Da Silva, le rassicurazioni volte a mantenere il sistema economico attuale dello stato peruviano, le distanze prese dalle posizioni più radicali del collega venezuelano Hugo Chávez, hanno fatto in modo che la parte più moderata e centrista dell’elettorato si schierasse definitivamente a favore di Humala.

Resta comunque il fatto che quasi una buona metà della Nazione si sia espressa a favore di Keiko Fujimori. La vita politica di Humala non sarà dunque così facile.

 

Da un punto di vista geopolitico la vittoria del candidato di “Gana Perú” rappresenta un evidente colpo a Washington e all’attuale amministrazione Obama.
Con il Perù gli USA perdono un importante punto di controllo della regione amazzonica, così come viene meno un altro Stato collocato sul versante del Oceano Pacifico.
Rilevanti, a tal proposito, saranno le scelte di Humala riguardo i piani di Washington che tempo fa ha mostrato i suoi interessi ad installare nuove basi militari proprio all’interno del territorio peruviano.
Dall’altra parte, la vittoria di Humala rappresenta per la sinistra dell’America Indiolatina un nuovo fondamentale traguardo con il quale sarà possibile aumentare la cooperazione fra gli Stati della regione, raggiungendo un’ulteriore crescita politica ed economica, e soprattutto compiere un nuovo passo in avanti verso una totale indipendenza dalla Casa Bianca e dalle sue amministrazioni di turno.

 

*Stefano Pistore (Università dell’Aquila, contribuisce frequentemente al sito di “Eurasia”)

 

Andrea Perrone “Alla conquista dell’Antartide”

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Giovedì 16 giugno, alle ore 17.00, presso la sede della Società Geografica Italiana (Via della Navicella 12/Villa Celimontana – Roma) si terrà la presentazione del nuovo saggio di Andrea Perrone “Alla conquista dell’Antartide” dedicato alla corsa delle grandi Potenze per lo sfruttamento delle risorse del Polo Sud.

Sarà presente l’autore e Paolo Sellari, Professore di Geografia Politica ed Economica presso il Dipartimento di Teoria Economica e Metodi Quantitativi per le Scelte Politiche, Università di Roma “La Sapienza”.

Il ritorno di Zelaya e il futuro della Resistenza honduregna

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Fonte: http://www.lahaine.org/index.php?p=54038

E’ tornato Mel Zelaya e il popolo honduregno è esploso di gioia e entusiasmo. La stessa gente che durante gli ultimi due anni ha dato vita alla più grande Resistenza centroamericana che la mente possa ricordare. Migliaia di uomini, donne e bambini sono scesi per le strade ed hanno affrontato militari e polizia, ostacolando le pallottole con i loro corpi e lasciando perire decine di morti in questa dura battaglia. Per l’occasione sono arrivati a Tegucigalpa da tutte le parti del paese per rivedere il loro leader.

 

E’ tornato Mel Zelaya e l’Honduras si è tinta del rosso della bandiera del Fronte Nazionale di Resistenza Popolare e dell’azzurro della bandiera nazionale. Gli slogan “Sí, se pudo” (una sorta di “Sì, ce l’abbiamo fatta”, “Sì, è stato possibile”; Ndt) e “Fuera el imperialismo” si mescolavano ai fischi rivolti al governo di Porfirio Lobo e all’inno universale che accomuna tutti coloro che lottano in ogni angolo del mondo: “El Pueblo unido jamás será vencido” (Il popolo unito mai sarà sconfitto).

 

E’ tornato Mel Zelaya e subito ha ratificato pubblicamente l’Accordo di Riconciliazione firmato a Cartagena de Indias (Colombia) che include fra i suoi punti, l’investigazione sulle violazioni dei diritti umani (diritti che continuano ad essere calpestati quotidianamente dal governo Lobo), e la possibilità di realizzare un referendum con l’interesse di ottenere la tanto sperata Assemblea Costituente, per la quale il popolo honduregno è sceso in strada tante volte in questi due anni.

 

Eppure, nell’accordo qualcosa non torna, qualcosa che porta a porsi logiche perplessità, che dovrebbero far rimanere in guardia, d’ora in avanti, le migliaia di militanti della Resistenza, e ha a che vedere con quelle persone, ora presenti nel governo, che realizzarono il colpo di stato pro-yankee in Honduras e che, nonostante abbiano permesso il ritorno di Zelaya, non sarà facile che rinuncino a ciò che hanno conquistato tempo fa. Inoltre, uno dei mediatori per la concretizzazione dell’accordo è niente meno che un genocida del popolo colombiano, il presidente Santos, lo stesso che ha reso possibile che gli yankee installassero nove basi militari nel paese con lo scopo di minacciare tutti quei paesi non allineati con gli Stati Uniti.

 

Un altro punto di discordia è il quasi sicuro ingresso dell’Honduras nel OEA (Organizzazione degli Stati Americani), il che dovrebbe attualizzarsi la prossima settimana

(l’articolo è datato 30/05/2011 e l’ingresso è affettivamente già avvenuto; NdT). Non esiste alcuna ragione che possa convincere coloro che hanno lottato tutto questo tempo di un simile sproposito. Nessuno può dimenticarsi, per quanti discorsi politicamente corretti si possano scrivere, che Porfirio Lobo rappresenta il prosieguo della dittatura imposta nel 2009. Perché non provano a chiederlo ai maestri colpiti, torturati e assassinati, o ai giornalisti che poco a poco sono stati riempiti di proiettili dai paramilitari. O ancora peggio, perché non lo provano a chiedere ai contadini del Bajo Aguán che fino a ieri hanno sofferto la morte di decine di militanti. Mese dopo mese si sono scagliate contro di loro le guardie armate di Miguel Facussé (sostenitore finanziario dei golpisti) provocando veri e propri massacri che ancora oggi rimangono impuniti.

 

No, l’Honduras di Lobo non dovrebbe tornare a far parte dell’OEA, sono stati molto chiari a tal proposito i dirigenti della Resistenza Berta Cáceres, Carlos Reyes e Juan Barahona, affermando che sarebbe un “errore ingiustificabile”, visto che ancora non sono state risolte le esigenze popolari che di certo non si esauriscono con il ritorno di Zelaya.

 

E’ tornato Manuel Zelaya ed ha abbracciato il suo popolo che in cambio gli ha mostrato l’affetto guadagnato per essere stato il primo Presidente a pensare alle fasce più umili. Pur provenendo da un passato politico di centro destra è stato in grado di virare correttamente verso sinistra, dando alla luce proposte in gran parte progressiste in un paese che decenni addietro funzionava come enclave strategico di Washington.

 

E’ tornato Manuel Zelaya e ha promesso di approfondire l’avanzo della Resistenza che lui stesso coordina. Durante la manifestazione è stato presentato uno ad uno alla delegazione internazionale che lo ha accompagnato in Honduras dal Nicaragua, rivendicando la solidarietà latinoamericana, sempre presente durante il suo esilio. Valorizzando profondamente il ruolo di Brasile, Ecuador, Argentina ed ovviamente del Venezuela di Hugo Chávez.

 

Un discorso a parte meriterebbero le parole di un’altra sostenitrice di Zelaya, la combattiva senatrice Piedad Córdoba. Quando Mel le ha ceduto il microfono ha elogiato l’Honduras e la Resistenza, e con un gesto incomprensibile ha celebrato il genocida Juan Manuel Santos, invitando i presenti a ringraziarlo per la sua mediazione. Non ha ottenuto risultati: lo stesso saggio popolo che qualche minuto prima, nel momento in cui anche Zelaya aveva menzionato lo stesso personaggio, aveva mantenuto un obbligato silenzio senza avanzare alcun applauso e anzi, lanciando grida di dissenso, ha riproposto lo stesso gesto meritevole. Un istante dopo, senza dubbi, esultava a sentir nominare il nome di Hugo Chávez.
Alcuni dirigenti politici dovrebbero capire che la coscienza della gente comune non si costruisce con simili bruschi cambi di rotta, buoni solo a seminare sconcerto.

 

E’ tornato Manuel Zelaya. Sì, e tutti i lottatori del terzo Mondo potranno festeggiarlo dal momento che, nonostante gli accordi diplomatici, questa lotta si è vinta per strada. Se in tutti questi mesi la Resistenza non avesse mantenuto il braccio fermo e la solidarietà popolare internazionale non avesse dato il suo sostegno, il ritorno di Zelaya sarebbe stato difficile da immaginare.

 

Ora, un’altra volta e come sempre, ma con Zelaya presente, la battaglia contro coloro che due anni fa cacciarono il Presidente dovrà farsi ancora più intensa. Immaginare uno scenario diverso significa non conoscere i numeri di cui dispone il nemico che si affronta. Per i tempi che verranno la mobilitazione sarà la migliore autodifesa popolare. Il che è molto chiaro ai membri del COPINH (Consiglio di Organizzazioni Popolari e Indigene dell’Honduras), una delle organizzazioni coinvolte nella lotta da decenni: “Non ci fermeremo fin quando le strutture golpiste che oggi sono al potere, godendo dell’impunità nazionale e internazionale, saranno dissolte, e contro di loro che continueremo ad alimentare la nostra lotta, perché siamo un popolo dignitoso che non è disposto a retrocedere. Non dimentichiamo, non perdoniamo, non ci riconciliamo”.

 

(Traduzione di Stefano Pistore)

 

 

 

 

 

 

Riflessi internazionali del “mancato arresto” di Yulia Tymoshenko

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Lo smentito arresto dell’ex Primo Ministro dell’Ucraina Yulia Tymoshenko avvenuto tra il 23 ed il 24 maggio di quest’anno offre l’occasione per effettuare una serie di riflessioni sulla vita politica ucraina e sulla posizione internazionale delle fazioni che si contendono il controllo del Paese ex-sovietico.

 

Il presente articolo è suddiviso in tre parti principali:

 

- un breve quadro delle fazioni politiche attualmente al potere in Ucraina e le loro velleità internazionali;

 

- una sintesi delle vicende giuridiche della Tymoshenko, onde comprendere quale sia il background di tale recente vicenda giuridica e, più in generale, per tentare di descrivere la “qualità” dei rapporti tra la superstite leader dell’opposizione ed il governo in carica;

 

- una serie di riflessioni sul peso degli eventi citati nei rapporti internazionali dell’Ucraina.

 

Prima di iniziare, è d’uopo fare una foto delle varie fazioni politiche in Ucraina.

Attualmente il partito di governo è il Partito delle Regioni di Viktor Yanukovich, uscito vincitore grazie al verdetto delle urne di gennaio 2010. In Parlamento, il partito è alleato con il Partito Comunista Ucraino (ex alleato del blocco “liberale” solo una legislatura fa) e col Blocco Lytvyn, partito di cultura agraria. Il Partito delle Regioni, portavoce degli interessi della “classe operaia” e dintorni e soprattutto delle popolazioni russofone dell’est del Paese è di allineamento filorusso con riscoperte “radici sovietiche” sulla falsariga di Russia Unita. Ricordiamo che, a testimonianza delle velleità internazionali “duplici” di Yanukovich, il Partito delle Regioni ha un accordo di cooperazione con il gruppo socialista al Parlamento Europeo.

All’opposizione, dopo il tracollo di Viktor Yushchenko, le redini sono nelle mani di Yulia Tymoshenko e del BYUT (Blocco Yulia Tymoshenko), partito di coalizione che assimila varie forze apparentemente incoerenti, spazianti da un blando centro-sinistra fino al nazionalismo. Il partito centrista-liberale di Yushchenko si è spostato maggiormente a destra, in alcuni casi arrivando a prendere contatti persino con fazioni estreme come il partito Svoboda (“Libertà”), su posizioni xenofobe.

Il gioco oramai è una partita a due: il blocco filorusso guidato da “ex comunisti” e comunisti contro quello che comprende i residui della Rivoluzione Arancione, riuniti sotto un nuovo stendardo liberal-europeista e ora vicino al Partito Popolare Europeo.

 

Fatte queste dovute notazioni, è il caso di entrare in tema. Dopo la vittoria di Yanukovich, in molti – non solo dall’opposizione attiva in politica – hanno visto negativamente l’evento, temendo un probabile ritorno di un clima di scarsa trasparenza e democrazia. Eventi da questo punto di vista “sospetti”, perpetrati ai danni dell’opposizione e dei membri del caduto governo Yushchenko-Tymoshenko, sono iniziati in tribunale già dal marzo 2010, con l’incriminazione dei Ministri Danylyshyn (Min. Economia) e Lutsenko (Interni) per reati legati all’abuso d’ufficio. L’ormai politicamente “morto” Yushchenko non è stato coinvolto nelle indagini fino allo scorso 2 giugno, quando è stato convocato per un interrogatorio su temi legati al suo periodo di governo.

 

La Tymoshenko era già finita sotto accusa a maggio 2010 per la corruzione di un giudice nel 2004, un vecchio caso apparentemente insabbiato nel 2005. La stessa Tymoshenko azzardò l’ipotesi che il caso fosse stato rispolverato in concomitanza della visita del Presidente russo Medvedev, in una sorta di particolare captatio benevolentiae.

Le vicende legate al recente “arresto” sono invece iniziate il 15 dicembre, con l’apertura di un’indagine da parte della Procura Generale di Kiev sul “cattivo uso” di fondi ricevuti dal Ministero per l’Ambiente ucraino nell’ambito operativo del Protocollo di Kyoto: dopo cinque giorni la Tymoshenko è divenuta la sospettata numero uno per l’abuso dei fondi. L’ex Premier ha negato il fatto che i fondi fossero stati sottratti al Ministero in questione, per poi definire l’intero procedimento penale come una “caccia alle streghe” nei suoi confronti. Ella non fu subito arrestata, ma solo messa in condizione di non poter lasciare la capitale per tutta la durata (indefinita!) delle indagini. Le autorità hanno messo in stato di fermo l’ex Ministro per l’Ambiente Georgiy Filipchuk, in carica durante il secondo governo Tymoshenko; Filipchuk è dunque il terzo Ministro di quel governo a finire sotto accusa da marzo 2010. I membri del BYUT bloccarono fisicamente il Parlamento dopo la messa in accusa della loro leader. Lo stesso giorno, il Partito Popolare Europeo – “supporter comunitario” del BYUT – ha espresso la sua vicinanza alla Tymoshenko dichiarando di condannare “la crescita di una pressione aggressiva e politicamente motivata da parte delle autorità ucraine nei confronti dell’opposizione e del suo leader Yulia Tymoshenko”.

A margine, ricordiamo come già ai primi di dicembre 2010, il Procuratore Generale Viktor Pshonka avesse affermato di non avere motivi politici per portare alla sbarra la Tymoshenko e Lutsenko (senza però esprimersi sugli altri). Il 27 gennaio alle accuse ufficiali alla Tymoshenko si è aggiunta quella dell’uso – ovviamente illecito – di mille veicoli originariamente destinati a funzioni medico-sanitarie per potenziare la propria campagna elettorale, per un conto totale di 6,1 miliardi di euro pagati dai contribuenti ucraini.

In data 10 aprile la Procura ha accusato nuovamente l’ex Premier di abuso di potere durante la crisi del gas russo-ucraina del 2009, abuso che si sarebbe concretizzato nell’aver firmato un contratto decennale di forniture gas senza avere l’approvazione del resto del governo. E’ proprio tale capo d’accusa che ha rischiato di portare la Tymoshenko in prigione: il 24 maggio, dal suo stesso sito web, è trapelata la notizia del possibile arresto, smentita subito dopo dalle autorità. L’ex Premier ha affermato che la Procura non ha potuto trattenerla non solo a causa della non sussistenza del reato, ma soprattutto perché la pressione popolare per una sua “liberazione” è stata talmente forte da trasformare l’arresto in uno smacco politico troppo forte per il governo attuale. Invero, la Procura ha comunque deciso di fare “poker” qualche giorno dopo accusando in blocco tutto l’ex governo Tymoshenko di numerose frodi in tema di compravendita vaccini durante la crisi dell’influenza suina.

L’ultimo step del caso – risalente al 3 giugno – vede la Procura impedire alla Tymoshenko di lasciare il Paese per recarsi ad un incontro del Partito Popolare Europeo.

A margine, ricordiamo come la Rappresentante per la Politica Estera UE Catherine Ashton abbia espresso la sua preoccupazione e quella dell’intera Unione per i fatti giudiziari legati alla Tymoshenko ed i membri del suo governo; la Ashton ha inoltre sottolineato il fatto che un Paese con velleità “europee” come l’Ucraina non può prescindere dal rispetto di pluralismo e democraticità – dando dunque un chiaro segnale alle autorità ucraine.

 

A chiosa di quanto scritto, va ricordato come, al proliferare dei capi d’accusa, dalle autorità viene detto poco o nulla sull’andamento delle indagini, oggettivamente incrementando i sospetti sulla fondatezza delle stesse.

 

Detto questo, è doveroso effettuare alcune riflessioni per comprendere la rilevanza internazionale del caso.

 

Come nota iniziale, possiamo inquadrare questo “giustizialismo” dell’era Yanukovich come messa in atto di quanto da lui promesso e paventato sin dalla campagna elettorale presidenziale. Egli doveva scrollarsi di dosso l’immagine di Presidente “dei brogli”, rimastagli addosso dalla Rivoluzione Arancione, ed al tempo stesso doveva presentarsi come alternativa “onesta” ad un governo che dal punto di vista della trasparenza aveva innumerevoli falle.

A prescindere da tutto, comunque, l’operazione sistematica di attacco giudiziario a praticamente tutti i membri dell’opposizione non può che generare sospetti, senza contare il fatto che spesso parlamentari dell’opposizione decidono tutt’a un tratto di migrare nelle fila del Partito delle Regioni. Di contro, la linea difensiva della Tymoshenko sembra avere le stesse evanescenti basi dell’accusa, sembrando più che altro una sorta di “grido d’aiuto” all’esterno del Paese, come a voler attirare l’attenzione di enti e soggetti esteri sui soprusi da lei subiti – veri o presunti che siano.

 

Il punto saliente della vicenda si manifesta nel modo in cui – e forse qui ci sarà la tendenza ad usare logiche e terminologie che si credevano abbandonate dal 1989, ma in fondo mai sparite – lo scontro politico/giudiziario è lo specchio in patria dello scontro tra i due “blocchi”, quello filorusso e quello europeo-atlantico. L’opposizione della Tymoshenko ostenta e mette in pratica un europeismo forse ancor più intenso di quello mantenuto durante i turbolenti anni di governo: la sua azione è volta non solo a proporre un programma differente da quello di governo, ma soprattutto a screditare a livello internazionale oltre che nazionale l’esecutivo attuale, principalmente sui punti della vicinanza alla Russia e dell’alleanza con il Partito Comunista, evocando vecchi spettri di “oppressione sovietica”. A margine, ricordiamo comunque che, in maniera indesiderata o meno, i comunisti erano anche nella vecchia maggioranza degli “arancioni”. Il graduale spostamento verso un conservatorismo destrorso sul piano prima internazionale che nazionale dei partiti “arancioni” testimonia come l’attuale opposizione abbia un maggior desiderio di accaparrarsi il supporto occidentale mostrandosi “antisovietica” più che quello di fare una politica propositiva. Vero è che i consensi si allargano: i Popolari Europei li supportano, e l’attenzione dell’Unione Europea è sempre più viva sulle faccende interne ucraine, visto il timore di regresso democratico e “russificazione” di Kiev. A margine, in ogni caso, da Mosca sul caso Tymoshenko non ci sono state reazioni degne di nota, al contrario di quanto accaduto in Europa.

 

Paradossalmente, il progetto di graduale adesione all’Unione, tanto voluto dagli “arancioni”, potrebbe avere più chances di accelerare ora che al governo non vi sono i suoi maggiori sostenitori: il tutto dipenderà dalla volontà europea di fare pressione esterna contro il governo filorusso ergendosi a scudo dei diritti fondamentali, approfittando di una ghiotta occasione per togliere a Mosca la fondamentale pedina ucraina nel campo dell’Europa Orientale.

 

Dall’altro lato, è chiaro per Yanukovich e i suoi che la Tymoshenko e la sua rete di contatti internazionali siano fin troppo dannose per portare avanti una legislatura senza “intoppi” e per sviluppare le relazioni desiderate con la Russia e l’ex blocco sovietico. Distruggere la reputazione della Tymoshenko – sia su basi reali che fasulle – porterebbe alla legittimazione definitiva di Yanukovich in patria, rassicurando chi per lui simpatizza da est su di un futuro senza derive occidentalistiche. Di contro, se il piano di “eliminazione” della Tymoshenko dovesse riuscire, non sono prevedibili le reazioni dal fronte occidentale: anche se un eventuale arresto della Tymoshenko dovesse avere basi solide, Yanukovich potrebbe continuare ad essere visto come “il leader filorusso antidemocratico”. In ogni caso, già ora si può affermare che i ripetuti attacchi giudiziari all’opposizione hanno confermato la pessima reputazione di Yanukovich tra i Paesi europei occidentali: se davvero il Presidente ucraino, come la sua azione politica recente pareva stesse dimostrando, non voleva “inimicarsi” eccessivamente il partner europeo, questa epopea giuridica è un oggettivo errore di strategia internazionale.

 

In conclusione, gli sviluppi del caso dovranno essere osservati in primo luogo dal punto di vista giudiziario, dal quale si spera si otterranno delle risposte univoche o quantomeno soddisfacenti; in secondo luogo, l’intera questione dovrà ancora essere tenuta d’occhio dal duplice punto di vista delle relazioni politiche interne all’Ucraina e dei contatti internazionali tra le maggiori fazioni di questo Paese.

Per ora, ci si può solo limitare a dire che il Paese è diviso tra tendenze europeistiche forzate e un andamento verso una “democrazia protetta” che fa l’occhiolino a quella moscovita. Altre riflessioni saranno forzosamente subordinate a quanto verrà fuori dalle carte dei giudici di Kiev e alle reazioni nazionali e soprattutto internazionali a quanto potrà accadere.

 

 

*Giuliano Luongo collabora come analista per il progetto “Un Monde Libre” della Atlas Economic Research Foundation

 


«Macché Twitter, i ribelli sono islamisti» – D. Scalea a “Il Secolo d’Italia”

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Daniele Scalea, redattore di “Eurasia” e segretario scientifico dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG), è stato intervistato da Adriano Scianca per “Il Secolo d’Italia” a proposito del suo ultimo libro – Capire le rivolte arabe. Alle origini del fenomeno rivoluzionario - scritto assieme a Pietro Longo (redattore di “Eurasia”, ricercatore IsAG). Riproduciamo qui l’intervista e l’articolo di corredo di Adriano Scianca, entrambi apparsi nell’edizione odierna del quotidiano.

«Macché Twitter, i ribelli sono islamisti»

Lo studioso Daniele Scalea: «Nei nostri media dominano doppiopesismo e superficialità»

 

Macché “popolo di Facebook”, qui c’è la Fratellanza musulmana che si sta ramificando in tutto il mondo islamico. Ad affermarlo è Daniele Scalea, redattore di Eurasia e segretario scientifico del neonato Istituto di alti studi in geopolitica e scienze ausiliarie (Isag), primo centro di studi geopolitici nel nostro Paese. Coautore con Pietro Longo di Capire le rivolte arabe (Avatar, € 18,00, pp. 164), Scalea dà una versione della “primavera araba” diversa da quella dei media.

 

Allora, Scalea: ha seguito la storia della finta blogger siriana?

Sì, mi sembra sintomatica del livello di informazione che c’è sulle rivolte arabe. Un livello che definirei infimo.

 

Addirittura?

Certo. Pensiamo alle false notizie diffuse sul caso libico: dai 10 mila morti iniziali alle fosse comuni fino ai bombardamenti sugli oppositori. Purtroppo da un lato c’è chi diffonde notizie false ad arte, dall’altro c’è la scarsa professionalità dei nostri giornalisti.

 

Qualche esempio?

Be’, a volte si citano non meglio precisate “fonti dell’opposizione”. Chi sono? E perché dovrebbero essere più attendibili delle fonti ufficiali? Per non parlare di quando queste fonti vengono occultate e la loro versone diventa la verità sic et simpliciter…

 

E poi non mancano doppiopesismi…

Esatto. Prendiamo il Bahrein. Anche lì esistono filmati della polizia che spara sui manifestanti, ma non fanno notizia. Anche lì, come in Libia, il regime usa mercenari, ma il fatto non viene denunciato con lo stesso clamore.

 

E questo avviene perché il Bahrein è filo-occidentale?

Direi proprio di sì.

 

A proposito di falsificazioni: lei crede alla storia del “popolo di Facebook”?

No, non ha riscontri reali, basta guardare i dati sulla diffusione di internet nelle zone interessate. È pur vero che inizialmente, in Egitto, alcune organizzazioni giovanili hanno sfruttato i social network. Ma costoro non sarebbero mai riusciti a tirar fuori una protesta di massa. Ciò si è avuto solo quando è scesa in campo la Fratellanza musulmana. Che non ha successo grazie a internet, ha successo perché funge da “stato sociale” laddove il governo liberalizza e smantella.

 

Quindi ci sono i Fratelli musulmani dietro a tutto…

In Egitto mi sembra evidente il patto militari-Fratelli musulmani per gestire la transizione e creare uno stato che seguirà probabilmente il modello turco. Ma la Fratellanza è ormai radicata un po’ in tutti i Paesi e ha contatti con tutti gli attori in gioco.

 

Ma come, non erano rivolte laiche e occidentaliste, queste?

Macché, il minimo comune denominatore è proprio l’islamismo. Del resto chi è stato in Egitto ha parlato di slogan contro Israele e di accuse a Mubarak di essere troppo filo-occidentale. Uno studio di qualche anno fa sui combattenti stranieri in Iraq, molti di loro legati ad Al Qaeda, stilò una classifica dei Paesi di provenienza di queste persone. Sa da dove venivano la maggior parte di loro?

 

Afghanistan? Iran? Sudan?

Libia. Precisamente dalla regione di Bengasi…

 

(ad.sc.)

 

***

 

 

Quella “primavera araba” di bugie e finti blogger

 

La dissidente siriana? È tarocca, come molte informazioni sulle rivolte maghrebine

 

Adriano Scianca

 

D’accordo, lo stereotipo vuole le donne omosessuali in possesso di tratti particolarmente mascolini, ma la blogger siriana lesbica Amina Arraf forse esagera. Amina ha infatti il volto di Tom, barbuto 40enne americano. Ah, che brutti scherzi gioca internet. Soprattutto ai commentatori frettolosi, agli analisti da Twitter, ai geopolitici laureati su Google. E più in generale a tutti quelli che bevono tutto ciò che il circo mediatico somministra loro.

 

La beffa di Tom MacMaster

 

Tom MacMaster, a modo suo, merita un plauso. Prima dalla sua abitazione di Stone Mountain, Georgia, poi dall’università di Edimburgo, dove stava seguendo un master, l’uomo ha finto per mesi di essere Amina, una dissidente siriana – gay, per giunta – pronta a immolarsi per la causa della libertà e dell’informazione non allineata. Le sue cronache sulla “repressione” attuata dal perfido Bashir al-Assad hanno fatto il giro del mondo. Era il trionfo del citizen journalism, la rivincita della comunicazione spontanea, il coraggio che viaggia sulla rete. Non era vero niente. Tom si era inventato tutto. Poi ha chiesto scusa, cosa che certo non basterà a testate “autorevoli” come The Guardian – che sulla storia di Amina avevano puntato con convinzione – per recuperare credibilità. E qui si aprirebbe una parentesi anche sulla stampa estera che con vezzo provinciale continua a essere dipinta dalle nostre parti come la bocca della verità. Ma questa è un’altra storia.

 

Fosse comuni” a Tripoli

 

La storia della cosiddetta “primavera araba”, del resto, è un po’ tutta costellata di episodi simili. Un po’ per l’ingenuità, la faciloneria, la superficialità di certi operatori dell’informazione, un po’ per le imbeccate interessate di qualche furbacchione, un po’ per le due cose combinate insieme. Prendiamo il caso libico. Ok, Gheddafi non è precisamente un leader riformista e illuminato. Diciamo pure che è un satrapo un po’ megalomane. Talvolta ha la mano pesante nei confronti del suo popolo. Ce l’ha da 40 anni, a dir la verità, e la cosa non ha mai fatto troppo scalpore. Poi il vento cambia, diciamo intorno al febbraio di quest’anno. E allora una mattina apriamo il giornale troviamo la cifra di 10.000 (diecimila) vittime civili causate dalla repressione del colonnello. La cifra viene rilanciata dalla tv araba al-Arabiya, che cita le dichiarazioni del componente libico della Corte Penale Internazionale, Sayed al Shanuka, che parla anche di 50 mila feriti. Sono trascorsi pochi giorni dallo scoppio delle rivolte e certi numeri, raggiunti in così breve tempo, fanno impressione. Tutti sbattono la cifra in prima pagina. Poi non se ne parlerà più. Le stime dei giorni successivi saranno tutte molto, molto, molto inferiori a quei 10 mila morti. Ma intanto il panico mediatico è stato scatenato, il resto non conta. Lo stesso dicasi per le “prove” delle fosse comuni libiche. Si tratta di una foto diffusa il 22 febbraio che vede una decina di fosse (comunque “singole”, non certo “comuni”) in allestimento. Il tutto in una località segreta, per nascondere il frutto della repressione del dittatore? Macché, quello ritratto nella foto è il normale cimitero Ashaat di Tripoli.

 

I “ragazzi di Facebook”

 

E che dire della balla colossale della rivolta nata da Facebook, da Twitter, da YouTube? Che dire della frottola di una rivoluzione spacciata per spontanea, orizzontale, improntata sui “diritti” e le “libertà” intesi all’occidentale? È il solito vecchio vizio di casa nostra: ricondurre l’ignoto al noto, la complessità allo schema semplice semplice. E così tutti i complicati fattori culturali, religiosi, sociali, politici e geopolitici che hanno portato alle rivolte arabe vengono occultati dietro la storiella dei social network rivoluzionari. Nel loro fondamentale libro Capire le rivolte arabe (vedi box), Pietro Longo e Daniele Scalea sono andati a vedere i dati. E hanno scoperto che «tra i paesi attualmente in fermento, solo il Bahrein ha una diffusione elevata di internet (circa il 50% della popolazione), mentre in Yemen e in Libia è praticamente nulla, in Egitto, Siria e Algeria bassissima. In generale, nel Vicino Oriente meno del 30% della popolazione ha accesso a internet: il dato in Africa si riduce a poco più del 10%, anche se gli utenti si concentrano nella parte settentrionale del continente. In Siria, Libia, Algeria, Iran e altri paesi solo una percentuale infima del già ridotto bacino d’utenza internet usa il portale Facebook». E quindi? I rivoltosi del Maghreb sono tutti delinquenti o agenti del “Grande Satana”? No. Forse hanno persino ragione. Ma dovremmo smetterla di farci le cose più semplici di quelle che sono…

Le Relazioni tra l’Iran e l’Egitto post-Mubarak

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Le relazioni tra due paesi con una posizione strategica come Iran ed Egitto nel vicino oriente sono state sempre altalenanti. Negli ultimi tre decenni i due paesi hanno mantenuto una distanza politica che arrivò al suo apice con l’assassinio del presidente egiziano Anwar Sadat, per mano di Khalid Islambouli nel 1981. Gli accordi di Camp David firmati dal paese africano con Israele per i quali l’islamista Islambouli si è vendicato portando al termine l’uccisione del presidente, erano già una delle motivazioni della divisione politica e ideologica tra i due paesi. Precedentemente, nel 1979 il governo dell’Egitto concesse l’asilo politico a Mohammad Reza Pahlavi, lo Shah appena deposto dalla revoluzione islamica. Considerando questi antefatti si può immaginare l’importanza della ripresa dei rapporti tra Iran ed Egitto; i conflitti e le ostilità hanno continuato il loro corso fino alla caduta del rais, Hosni Mubarak, che ha consegnato le sue dimissioni l’11 febbraio del 2011. Si potrebbe parlare forse di un unico tentativo d’avvicinamento di questi due paesi nel febbraio 2008; allora ministro degli Esteri iraniano Manouchehr Mottaki, durante una visita al Cairo dichiarò che Iran ed Egitto erano sul punto di riprendere i legami politici, ma la situazione percepitò nel dicembre dello stesso anno quando il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad accusò il governo di Mubarak di essere complice di crimini di Gaza.

Nabil Arabi il nuovo ministro degli esteri dell’Egitto, il 30 marzo, un mese dopo la caduta del rais ha dichiarato che il paese è pronto per espandere i rapporti con l’Iran anche se questa apertura verso il paese del golfo persico non giova ai due alleati politici,Israele e Stati Uniti, “egiziani ed iraniani meritano di avere le relazioni reciproche che riflettano la loro storia e civiltà: l’Egitto non considera l’Iran come un paese nemico” ha precisato il ministro egiziano . Queste dichiarazioni vengono fatte mentre le navi militari iraniane passano dopo 30 anni attraverso il canale di Suez. Intanto Tehran risponde con entusiasmo alle affermazioni del portavoce del Ministero degli esteri egiziano Mehna Bakhum, annunciando che presto verrà nominato il suo primo ambascitore al Cairo.

Questa ripresa dei rapportori politici tra Iran ed Egitto è un motivo di preoccupazione per Israele, che ritiene che Tehran possa usare la sua influenza per cambiare l’opinione pubblica per opporsi a Israele e usare il territorio egiziano come base di spionaggio. La maggiore preoccupazione d’Israele ad ogni modo sembra essere un possibile attacco militare contro le installazioni nucleari iraniane. Ipotizzando un miglioramento radicale nei rapporti politici tra i due paesi, Israele teme che l’Iran possa usare a sua volta il territorio egiziano per attaccare gli obiettivi israeliani.

Mentre i due paesi si scambiano ambasciatori, l’occidente si interroga sulle conseguenze di questo rapporto rimasto congelato per anni che sta riconsolidandosi in un momento che coincide con una ripresa di coscenza politica da parte dei paesi arabi: quale potrebbe essere la conseguenza di questa riconciliazione ora non è prevedibile.
Iran ed Egitto sono due paesi con forze armate considerevoli e rappresentano entrambi il popolo musulmano; il primo il caposaldo sciita e il regime degli Ayatollah e il secondo la parte sunnita e più moderata.

C’è già chi afferma che il governo attuale d’Egitto probabilmente è più islamico di quello di Mubarak e che questo fattore avrebbe portato ad una nuova apertura ed a una ripresa di rapporti politici verso l’Iran, relazione che per anni dopo il trattato di pace di Camp David tra Egitto ed Israele si era interrotta.

Il rapporto tra Egitto ed Israele si incrina di più quando il paese islamico a maggio del 2011 raddoppia il prezzo della fornitura della gas naturale; non è certo che questa sia stata una conseguenza della ripresa dei rapporti tra Iran ed Egitto, ma di certo potrebbe essere letta come un’altra provocazione fatta da parte di quest’ultimo nei confronti di Israele che prima della caduta del rais poteva contare su un alleato fidato nel caso di un conflitto con l’Iran. Non è ormai mistero che da anni Tehran sostiene i diversi gruppi “d’opposizione islamica”, fornendo armi ed appoggi economici.

In questo clima di incertezza, il governo transitorio egiziano dopo tre mesi dal cambiamento radicale susseguito dalle manifestazioni ed opposizioni contro il vecchio regime ora si trova a dover attuare una nuova strategia politica-economica con i paesi esteri, fatto questo che potrebbe cambiare completamente lo scenario della regione.

Sajjadi Parisa Sadat è dottoressa presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università dell’Aquila.

Gwadar, la competizione sino-statunitense e lo smembramento del Pakistan

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La recente visita del primo ministro pakistano Yusuf Gilani a Pechino è stata un’importante occasione per rafforzare lo stretto legame esistente tra Cina e Pakistan. Il consolidamento delle relazioni sino-pakistane degli ultimi anni è legato alla competizione in corso tra Stati Uniti e Cina in Asia Centrale e Meridionale, nonché al peggioramento dei rapporti tra Washington e Islamabad. La Cina è stato l’unico paese ad aver sostenuto diplomaticamente il Pakistan in seguito alla vicenda legata alla presunta esecuzione di Osama Bin Laden e l’ultima visita del premier pakistano a Pechino è stata contraddistinta dal sostegno cinese al rispetto dell’integrità territoriale del Pakistan. A margine dell’incontro bilaterale l’attenzione dei media si è focalizzata, inoltre, sul porto di Gwadar, un importante nodo strategico del Belucistan pakistano, realizzato nel corso dell’ultimo decennio grazie al concreto aiuto finanziario cinese. Il ministro della difesa pakistano Ahmed Mukhtar ha rilasciato una dichiarazione alla stampa secondo la quale il Pakistan sarebbe favorevole a un’eventuale presenza nel porto di Gwadar di una base navale cinese. Nonostante la Cina abbia ufficialmente smentito la dichiarazione del ministro pakistano, l’attenzione cinese per Gwadar rappresenta sia per la Cina che per il Pakistan una fondamentale risorsa per il futuro; la presenza di Pechino lungo le coste bagnate dal Mar Arabico è vista in maniera fortemente negativa da parte di diversi attori internazionali, su tutti India e Stati Uniti. La questione può portare a diverse considerazioni di carattere geopolitico, ma si può collegare alla stabilità stessa e alla sicurezza interna del Pakistan, data l’instabile e rilevante regione in cui si trova Gwadar, il Belucistan.

L’importanza strategica del porto di Gwadar e gli interessi della Cina

Il porto di Gwadar, situato in una regione ricca di gas naturale, carbone e minerali, è un importante nodo di collegamento fra tre aree fondamentali dal punto di vista geostrategico: il Vicino Oriente, l’Asia Meridionale e l’Asia Centrale. La città di Gwadar si trova a soli 72 km dal confine iraniano e dista 400 km dallo Stretto di Hormuz nel Golfo Persico, l’importante rotta di trasporto di petrolio che collega via mare l’Europa, l’Asia occidentale e l’Africa all’Asia orientale. L’area attorno a Gwadar può essere una fondamentale base di controllo delle rotte marittime provenienti dall’Europa, dall’Asia orientale e dall’Africa grazie ai suoi collegamenti con lo Stretto di Hormuz, con il Mar Rosso e il Golfo Persico. Il porto pakistano è, inoltre, il punto d’accesso per l’Oceano Indiano più vicino per i paesi dell’Asia Centrale. Data la seguente posizione geografica, appare evidente il motivo per cui la città di Gwadar attiri l’attenzione di diversi paesi asiatici e non solo. Pechino intensificò il proprio impegno a Gwadar subito dopo l’intervento statunitense in Afghanistan, investendo circa 200 milioni di dollari durante la prima fase di progettazione, completata come previsto nel 2005. L’attenzione cinese per Gwadar è connessa a tre aspetti fondamentali: la storica alleanza con il Pakistan, gli interessi economici e le questioni legate all’approvvigionamento energetico. Per quanto riguarda i risvolti economici, l’attenzione di Pechino per la città pakistana è legata alle possibili rotte commerciali che potrebbero collegare lo Xinjiang al Mar Arabico. La realizzazione di strade e ferrovie connesse a Gwadar garantirebbe l’afflusso di beni cinesi in Asia Centrale, sostenendo lo sviluppo delle regioni occidentali della Cina. Gwadar dista dallo Xinjiang 1500 km circa, mentre i porti della costa orientale cinese si trovano a 3500 km da Urumqi. Il territorio pakistano farebbe da transito, inoltre, di potenziali gasdotti e oleodotti collegati allo Xinjiang, rendendo possibile la diversificazione cinese delle proprie fonti di energia e riducendo la dipendenza dal trasporto via mare del petrolio, in particolar modo dallo Stretto di Hormuz e da quello di Malacca. L’eccessiva dipendenza cinese da queste fonti renderebbe, infatti, l’approvvigionamento energetico troppo rischioso per la propria sicurezza. La presenza a Gwadar è valutata, invece, come un’alternativa importante al fine di ottenere le risorse necessarie provenienti dal Medio Oriente, collegando il porto pakistano all’Iran, dall’Africa e dall’Asia Centrale.

La percezione statunitense della presenza cinese a Gwadar

L’impegno cinese alla costruzione del porto di Gwadar è stato valutato fin dal principio negativamente da Stati Uniti e India. Sia Washington che Delhi osservano la presenza cinese nel Mar Arabico collegabile alla strategia del “filo di perle” cinese attorno all’Oceano Indiano. Attraverso la creazione di basi navali in punti strategici dal Vicino Oriente al Mar Cinese Meridionale, la Cina metterebbe in pratica un disegno di carattere sia offensivo che difensivo per proteggere i propri interessi energetici e di sicurezza. Inoltre, dal punto di vista statunitense, è percepito negativamente il controllo da parte cinese delle rotte commerciali marittime attraverso le quali avviene il trasporto del petrolio. Per quanto concerne Gwadar, secondo Washington e Delhi, la Cina avrebbe la reale intenzione di costruire una propria base navale, dotandosi di sofisticate apparecchiature elettroniche in grado di monitorare il traffico navale dello Stretto di Hormuz e del Mar Arabico, nonché l’attività delle marine militari statunitense e indiana. L’attenzione degli Stati Uniti per Gwadar e la possibile presenza cinese nella città è legata a questioni di carattere militare, geostrategico e di approvvigionamento delle risorse energetiche. Gli Stati Uniti importano una grande quantità di petrolio attraverso lo Stretto di Hormuz e il Golfo Persico. Dal punto di vista statunitense la presenza di un pericoloso rivale a Gwadar è valutata come una minaccia per il proprio rifornimento di risorse e per la sicurezza energetica degli alleati. L’approvvigionamento energetico è, inoltre, legato a importanti implicazioni di tipo politico e di influenza strategica. Nel caso in cui ci fosse una forte presenza cinese in Pakistan, attraverso la creazione di una propria base navale a Gwadar, non si registrerebbe solamente la perdita di influenza statunitense su Islamabad; le risorse provenienti dal Medio Oriente, infatti, potrebbero essere indirizzate nelle province cinesi orientali eludendo lo Stretto di Malacca, sotto controllo statunitense, ed eventualmente giungere in futuro in Giappone e Corea del Sud. Si potrebbe dunque sviluppare una nuova rotta energetica, con il declino dell’importanza strategica dello Stretto di Malacca, influenzando decisamente la geopolitica dell’Asia Meridionale e Orientale. Una delle preoccupazioni fondamentali degli Stati Uniti è che il nodo strategico di Gwadar non solo riduca la dipendenza cinese dallo Stretto di Malacca, ma crei degli interessi energetici in comune tra Pakistan, Cina, Giappone e Corea del Sud, rendendo questi ultimi potenzialmente più vicini alla Cina che all’influenza statunitense. Un altro motivo di preoccupazione per gli Stati Uniti riguarda il controllo del Pakistan. Il paese ha una notevole importanza per la sua particolare posizione poiché rappresenta il naturale accesso dei paesi dell’Asia Centrale al Mar Arabico e all’Oceano Indiano. Controllando Islamabad, si possono controllare le importazioni di idrocarburi dell’Asia Orientale e le esportazioni di risorse dirette al Mar Arabico. L’influenza statunitense sul paese non è solo servita nel passato a garantire il soddisfacimento degli interessi di Washington in Afghanistan, ma in generale a sostenere l’azione statunitense in Vicino Oriente, Asia Centrale e nell’Oceano Indiano. I paesi confinanti con il Pakistan, Afghanistan, Iran, India e Cina sono gli Stati sui quali si concentrerà l’attenzione futura della politica estera della Casa Bianca. E’ evidente come un Pakistan troppo strettamente legato alla Cina, primo grande concorrente dell’area, non sia gradito a Washington. La presenza cinese a Gwadar, secondo l’ottica degli Stati Uniti, renderà Islamabad sempre più dipendente dalla Cina, danneggiando gli interessi geostrategici statunitensi in Pakistan e conseguentemente in Medio Oriente, Asia Centrale e nell’Oceano Indiano.

Gwadar, il Belucistan e la “balcanizzazione” del Pakistan

E’ evidente come da alcuni mesi i rapporti tra Stati Uniti e Pakistan siano sempre più tesi. La vicenda di Gwadar e lo stretto rapporto esistente tra Islamabad e Pechino offrono una spiegazione dell’allontanamento tra i due paesi. Nei prossimi mesi l’attenzione di Washington sul Pakistan sarà sempre più forte, avendo come ultimo obiettivo, comunque, l’ostacolare gli interessi cinesi nell’area. Gwadar si trova in Belucistan, una delle regioni più povere del Pakistan e contraddistinta fin dagli anni dell’indipendenza pakistana da un movimento insurrezionale e indipendentista. Diversi analisti del Pentagono e numerosi think-thanks statunitensi, come è il caso del neoconservatore Project for the New American Century (PNAC), hanno posto l’attenzione nei confronti del Belucistan1. Considerato il movimento indipendentista beluci, le diverse etnie presenti in Pakistan e le implicazioni di carattere geopolitico, è in auge nel corso degli ultimi anni la strategia volta al favorire la “balcanizzazione” del Pakistan, lo smembramento del paese in diverse entità statali per motivi geostrategici2. Selig S. Harrison, direttore dell’Asian Program presso il Center for International Policy, ex membro del Carnegie Endowment for International Peace ed ex giornalista, sosteneva nel 2008 il fatto che nel caso in cui non si fosse verificata a breve termine una ristrutturazione generale della società multietnica del Pakistan, lo Stato asiatico sarebbe di lì a poco collassato. Lo stesso Harrison ha sostenuto la possibile implosione pakistana in tre distinte entità statali, ricalcando le differenze etniche presenti nel paese: un’area pashtun nel Nord-Ovest da unire all’Afghanistan con l’eliminazione della linea Durand;,liminazione della linea Durand tista beluco una sindhi nel Sud-Est unita all’area beluci del Sud-Ovest con la nascita del Belucistan eventualmente unificato alla stessa minoranza etnica presente in Iran; il territorio dei punjab nel Nord-Est, l’unica parte che rimarrebbe al Pakistan. Harrison spiega che l’avversione della minoranza pashtun nei confronti dei punjab, i quali avrebbero soggiogato dal 1947 le minoranze del Pakistan unificato sotto la loro guida appropriandosi delle ricche risorse presenti nelle restanti province, è legata strettamente al sostegno delle popolazioni Nord-Occidentali per i talebani lungo il confine afghano-pakistano. In questo modo, secondo Harrison, il Pakistan non riuscirebbe in alcun modo a garantire una cooperazione adeguata ai desideri statunitensi in Afghanistan a causa delle ricordate divisioni etniche3. Le implicazioni della strategia per la “balcanizzazione” del Pakistan sarebbero principalmente tre: mettere in sicurezza i corridoi energetici strategici seguendo gli interessi statunitensi; bloccare l’accesso cinese alle risorse presenti in Asia Centrale e i programmi legati al porto di Gwadar, nonché i potenziali collegamenti con il petrolio iraniano; destabilizzare lo stesso Iran, promuovendo l’indipendenza del Belucistan. Naturalmente si tratta di discorsi puramente teorici, e il reale collasso del Pakistan porterebbe a delle conseguenze imprevedibili, vista la presenza di armi nucleari, una popolazione di 187 milioni di abitanti e l’area delicata in cui si trova il Pakistan, confinante con Iran, Cina, India e Afghanistan, quest’ultimo, come l’Iraq, in una perdurante situazione di guerra. E’ significativo comunque il fatto che i raid statunitensi in Pakistan, lungo il confine con l’Afghanistan, siano in continuo aumento, rafforzando nello stesso tempo il nazionalismo pashtun; contemporaneamente, il movimento indipendentista beluci ha registrato negli ultimi tempi considerevoli sostegni negli Stati Uniti, come testimonia l’incontro tenutosi a Washington e organizzato dalla Baloch Conference of North America presso il Carnegie Endowment for International Peace lo scorso 30 aprile. Durante la conferenza il Pakistan è stato descritto come un paese terrorista e chiaramente inadatto all’alleanza con gli Stati Uniti, spingendo per una pacifica “balcanizzazione” del paese con conseguente smembramento dello stesso4. L’India, sostenitrice da tempo dell’indipendenza del Belucistan, vedrebbe con favore un simile scenario perché, oltre a far collassare lo storico nemico, colpirebbe gli interessi della Cina e favorirebbe il diretto accesso indiano alle risorse centro-asiatiche. Il problema è che la nascita di nuove entità statali su basi etniche sarebbe controproducente per la stessa Delhi, poiché potrebbe verificarsi la recrudescenza delle spinte indipendentiste di diversi movimenti autonomisti presenti negli Stati indiani, in particolar modo in Kashmir. La questione è dunque molto complicata e foriera di diverse implicazioni geopolitiche. Bisognerà attendere gli sviluppi dei prossimi mesi per comprendere dove porteranno gli attuali contrasti tra Stati Uniti e Pakistan. Quest’ultimo, non solo appoggiato dalla Cina, ma recentemente anche dall’Arabia Saudita, considerato l’importante sostegno offerto da Islamabad alla politica saudita di contrapposizione ai movimenti insurrezionali in Bahrein e nel resto del Vicino Oriente, nonché al ruolo di guida del mondo musulmano-sunnita ricoperto da Riyadh in contrapposizione all’Iran.

 


*Francesco Brunello Zanitti, Dottore in Storia della società e della cultura contemporanea (Università di Trieste). In “Eurasia” ha pubblicato Neoconservatorismo americano e neorevisionismo israeliano: un confronto (nr. 3/2010, pp. 109-121).

 


  1. http://www.islamabadtimesonline.com/beijing-washington-dc-and-the-gwadar-port-the-new-game-plan-is-not-that-new%E2%80%A6/

  2. http://www.armedforcesjournal.com/2006/06/1833899
  3. http://www.nytimes.com/2008/02/01/opinion/01harrison.html
  4. http://www.crisisbalochistan.com/secondary_menu/news/2011-balochistan-international-conference-washington-dc-usa.html

 

Difesa Continentale – Un grande passo in avanti

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Fonte: http://licpereyramele.blogspot.com/2011/06/defensa-continental.html

La creazione del Centro di Studi Strategici per la Difesa all’interno dello schema Unasur contribuisce a consolidare l’unione regionale

 

In un mondo dove è diventato naturale il vassallaggio delle sovranità nazionali verso le potenze egemoniche centrali, sembrava improrogabile la creazione di un organismo continentale dedicato agli studi strategici nel settore della difesa.

Appare semplice enucleare il problema chiave: il Sudamerica è un regione ricca di risorse naturali che stuzzicano l’appetito delle potenze egemoniche ed è reale, dunque, la necessità di preservarle.

Al fine di corroborare questa visione il direttore del nuovo Centro di Studi Strategici per la Difesa (Centro de Estudios Estratégicos para la Defensa, CEED), Alfredo Forti, ha sottolineato che « l’abbondante presenza di risorse naturali strategiche definisce la posizione sudamericana nel mondo e quando una risorsa è scarsa e possiede un qualche valore strategico per un altro attore, essa diviene strategica per chi lo possiede, anche qualora quest’ultimo non abbia i mezzi per il suo sfruttamento e consumo”.

Anche se nella regione uno scenario così definito affondi le sue radici indietro nel tempo, fino alla scoperta dell’America, la crescita smisurata degli ultimi 50 anni provocata dall’applicazione del neoliberalismo selvaggio ha portato i paesi più forti a praticare politiche di appropriazione spietate verso i paesi della periferia del mondo.

In tal modo si spiegano le invasioni di Iraq e Afghanistan e il perfezionamento in ottica semplificatrice di tale modalità d’azione in Libia, dove si è perso qualsiasi freno morale, cosicché non è stato ritenuto necessario garantire la benché minima giustificazione di facciata per legittimare le invasioni armate miranti a razziare paesi sovrani.

In questo frangente è necessario rendersi conto del fatto che si tratta solo di una questione di tempo prima che il Sudamerica diventi l’obiettivo di quelle potenze che dipendono talmente tanto dall’appropriazione di risorse altrui al punto da aver raggiunto livelli fantascientifici riguardo allo sviluppo dello strumento militare, essenziale per perpetrare tali saccheggi.

In questo scenario si inscrive la recente creazione della CEED all’interno dello schema Unasur.

Gli obiettivi iniziali del nuovo organismo si esplicitano nell’identificazione di quegli interessi che debbano essere difesi e sviluppare accordi che, da un piano teorico, convertano la difesa regionale in una realtà.

La creazione della CEED appare inevitabile in questo momento in cui i paesi del Sudamerica hanno avviato processi politici tendenti a disarticolare i meccanismi predatori ereditati dall’epoca coloniale e a favorire lo sviluppo sovrano delle loro comunità.

Tali processi politici sono accompagnati dalla creazione di istituzioni sovranazionali di carattere regionale e d’origine opposta allo storico “dividi e domina” che, praticato dalle potenze imperialiste, propugnava una molteplicità di nazioni deboli e facilmente influenzabili. Da questa concezione ottocentesca scaturirono la Guerra della Triplice Alleanze e quella del Chaco che hanno spazzato il Paraguay o quella del Pacifico che ha privato la Bolivia del litorale.

Parallelamente, rompendo il legame fraterno tra queste nazioni sorelle, tale concezione causò un sentimento di sfiducia reciproca e la creazione di Forze Armate autonome – ben lontane dallo spirito degli eserciti di liberazione plurinazionali di San Martín e Bolívar – che, di fatto, sono servite solamente come uno strumento di repressione verso quelle società che avrebbero dovuto proteggere e fortemente ostile nei confronti dei vicini.

Per questo la creazione della CEED rappresenta solo il primo passo lungo il percorso per giungere a una concezione centralizzata e olistica della Difesa continentale.

In questo senso, la Segretaria generale dell’UNASUR, María Emma Mejía, ha sostenuto che “L’unità regionale è al di spora delle divergenze” e il Ministro della Difesa argentino, Arturo Puricelli, continuando sulla stessa linea ha affermato che il nuovo organismo funzionerà come “una fucina di pensiero” per la difesa degli “interessi sudamericani”.

Non esiste un altro modo per farlo: in un primo momento, è necessario individuare gli obiettivi critici che possono entrare in conflitto. Successivamente, bisogna stabilire delle modalità condivise per difenderli e, infine, vanno creati gli organismi – tra cui forze armate unificate – capaci di portare avanti questi compiti.

Proprio quest’ultimo, forse, è il passaggio che appare più difficile da realizzare nel breve periodo poiché richiede l’abbandono di concezioni storicamente ben presenti all’interno delle forze armate dei paesi sudamericani e la loro sostituzione con un paradigma di progresso: una difesa sudamericana integrata.

In effetti, le lamentele di certi settori militari in Argentina circa la “distruzione materiale delle forze armate” o l’opposizione cilena al concedere l’accesso al mare per la Bolivia costituiscono alcuni esempi della convinzione che i paesi del sud siano ancora capaci di sostenere da soli la difesa della loro sovranità e sono funzionali al “vecchio dividi e domina” di stampo ottocentesco.

È sufficiente un esempio pratico per meglio comprendere la situazione sin qui delineata. Visto lo stato attuale delle cose, non vi è modo, per le forze armate argentine, di garantire da sole il controllo sulla Patagonia difendendola nei confronti del potenziale di quei paesi che la bramano e che, arrivato il momento, non faranno altro che prendersela. Stessa cosa varrebbe qualora si parlasse della capacità delle Forze Armate brasiliane di difendere l’Amazzonia.

Non appare neanche utile pensare a investire nell’ammodernamento ed equipaggiamento degli eserciti nazionali ognuno per conto suo. La fu Unione Sovietica all’epoca distrusse letteralmente la sua economia nella convinzione che fosse possibile sostenere una corsa agli armamenti allo stesso livello tecnologico e in competizione con le risorse disponibili per le potenze occidentali.

Presto o tardi, la necessità porterà alla creazione di un esercito unificato sulla base di una nuova ideologia che superi la divisione in nazionalità esistente, a vantaggio di una visione latinoamericanista che le allontani dal carattere mercenario delle forze armate dei paesi che auspicano l’imposizione dell’Impero Globale Privatizzato, ma che, allo stesso tempo, si dimostrino all’altezza della sfida di affrontarli.

Tuttavia, sarebbe ben altra cosa, vista la grandezza del progetto, pensare a uno sforzo continentale combinato e supportato nei suoi vari livelli di attuazione mirante a ostacolare qualsiasi pretesa di conquista, visto che, come sostiene Alfredo Forti, “l’estensione territoriale del Sudamerica, come unità geopolitica, ci posizionerebbe come il paese più grande del mondo con la terza economia su scala planetaria”.

Questo  nuovo paradigma di difesa continentale – che fornisce nuova linfa alle forze armate dei paesi della regione – ha ricevuto un ulteriore riconoscimento dalla creazione presso Warnes – dipartimento di Santa Cruz de la Sierra, Bolivia – della Scuola di Difesa e Sicurezza dell’ALBA (Escuela de Defensa y Seguridad del Alba, EDSA), un istituto di formazione di quadri militari sganciati dalle formule militari imposte da Washington.

AL riguardo la Ministra di Difesa della Bolivia, María Cecilia Chacón, ha sintetizzato l’obiettivo della nuova istituzione affermando che essa servirà a “formare leader militari e civili orientati verso la Difesa e la Sicurezza integrate e definirà il nuovo ruolo delle Forze Armate dei paesi dell’ALBA”.

Anche durante l’inaugurazione della EDSA il presidente Evo Morales ha chiesto al personale militare presente di istituire corsi di formazione nelle loro Armi d’appartenenza per evitare l’indottrinamento ideologico di stampo statunitense.

Un nuovo potere militare regionale dovrebbe anche essere al servizio di una gestione centralizzata ed essere eseguito da militari che dominino la dottrina, conoscano le tattiche e l’equipaggiamento comune e che siano immersi in una atmosfera ideologica nuova che potrà essere garantita solamente da un ambiente anch’esso condiviso.

Riassumendo, il compito di mettere in pratica la difesa implica la fondazione ex novo di tutti gli organismi che attualmente si occupano di tale attività ognuno per conto suo e richiede l’educazione centralizzata dei cittadini sudamericani che scelgano la carriera militare per vocazione.

La divisione regionale delle visioni strategiche statunitensi plasmate secondo le dottrine di “sicurezza nazionale”; o la “lotta al narcotraffico” e la vecchia “difesa dal comunismo” inscritte nel Plan Colombia; l’iniziativa Merida o il Trattato Interamericano di Assistenza Reciproca (TIAR) e la sua sostituzione con dottrine che sostengano l’Unione Latinoamericana: queste sono le questioni che configurano la grande sfida.

(Trad. di F. Saverio Angiò)

Discorso del Presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad al vertice dell’Organizzazione di Shanghai

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Fonte: “Irib

 

Nel Nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso

 

La Lode appartiene al Signore dei due mondi ed elogi e pace sul nostro patrono e profeta Mohammad e sulla sua sacra famiglia e sui suoi discepoli vicini e su tutti i nunzi e i messaggeri(di Dio/ndr).
O nostro Allah affretta l’apparizione del Tuo prescelto(il Mahdi/ndr), garantisci a lui la salute e la vittoria e collocaci tra i suoi migliori seguaci e sostenitori, pronti a lottare per la sua nobile causa.
Sua Eccellenza Nur Sultan Nazarbayev, egregio presidente del Kazakistan,

Rispettabili presidenti e delegazioni,

ringrazio il gran Dio per avermi dato la fortuna di partecipare a questa riunione e di essere in questo gruppo amichevole e ringrazio per la calorosa accoglienza e l’ottima gestione della riunione ad opera del rispettabile presidente Nazarbayev.

Voglio porgere i miei auguri per il decimo anniversario della formazione dell’Organizzazione di Shanghai e il ventesimo anniversario dell’indipendenza del Kazakistan; mi auguro che questa seduta possa essere un passo importante nel raggiungimento degli obbiettivi prestabiliti.

Vossignorie,

con il massimo del rispetto e dell’amicizia, oggi voglio parlare di ‘reponsabilità internazionali’.

Ed inizio con alcune domande.

C’è tra di noi un solo paese che abbia avuto un ruolo nella creazione del fenomeno oscuro dello schiavismo e nella morte di milioni di persone?

C’è solo uno dei nostri popoli che abbia imposto ad altre parti del mondo il colonialismo?

C’è una sola nazione tra di noi che abbia rubato la cultura e la ricchezza degli altri popoli attraverso i metodi del colonialismo?

C’è uno solo dei nostri paesi che abbia motivato le due guerre mondiali ed abbia causato la morte, il ferimento e la fuga di decine di milioni di persone in tutto il mondo?

C’è qualcuno tra di noi che abbia usato la bomba atomica contro i cittadini indifesi di altri paesi?

C’è un solo paese tra i nostri che abbia imposto al Medioriente il Sionismo e con esso numerose guerre, 60 anni di insicurezza, terrore e minacce contro il popolo palestinese e gli altri popoli della regione?

Siamo stati noi a sostenere il potere dei dittatori in America Latina e nelle altre regioni del mondo?

Ma quale dei nostri paesi ha avuto il più piccolo ruolo nell’11 Settembre e nel successivo attacco all’Afghanistan e all’Iraq che ha portato alla morte ed al ferimento di milioni di persone?

L’estremismo ed il terrorismo, in Afghanistan, Iraq e Pakistan e il traffico di stupefacenti lo abbiamo creato e sostenuto noi?

La regione e i nostri popoli sono stati favoriti o danneggiati dal terrorismo, dall’estremismo e dal narcotraffico?

Quale dei nostri paesi ha avuto un ruolo nella costruzione del sistema economico mondiale e quale tra noi ha programmato la crisi finanziaria mondiale?

La distanza incolmabile tra nord e sud del mondo l’abbiamo creata noi?

Quale dei nostri paesi ha imposto la guerra, l’ignoranza e la povertà all’Africa per poterla derubare delle sue miniere?

Quale dei nostri paesi ha immesso nel mercato dollari senza controvalore per rimediare ai propri deficit e creare una crisi finanziaria globale?

Tra i nostri paesi c’è qualcuno che ha sovraccaricato sugli altri paesi i propri problemi economici succhiando la ricchezza altrui?

Amici miei,

ci sono decine di domande simili ed è chiaro quale sia la risposta.

Con onore annuncio che nessuno dei nostri popoli ha avuto un ruolo in questi brutti fenomeni storici. Noi abbiamo sempre aspirato alla pace, alla tranquillità, al benessere ma ad un benessere che sia accompagnato dall’amicizia e dalla giustizia tra i popoli. La cultura umana, l’amore e l’affetto, sono stati il comune denominatore delle nostre popolazioni.

Ma la nostra domanda principale è questa:

Per quale motivo gli schiavisti, i colonialisti, gli occupatori, e i creatori di tutti i problemi della società umana devono poter mettere sotto pressione i nostri paesi indossando la maschera della democrazia ed usando la scusa dei diritti umani?

Come possiamo fidarci dei falsi difensori della libertà che usando l’ordine unilaterale dominante sul mondo inseguono gli stessi obbiettivi di ieri solo con slogan moderni?

E la domanda ancora più fondamentale e importante è che la reazione passiva alla voglia di questo gruppo di dominare il mondo, renderà forse migliore la situazione globale?

Ma davvero, mi chiedo, cos’hanno fatto i nostri popoli di tanto grave per essere sotto la pressione dei peggiori politici della storia, e sopportare le loro offese e le loro minacce?

Cari colleghi,

la storia lo dimostra ed il mondo lo sa’ che noi ripudiamo la guerra e cerchiamo di sottrarci ad essa.

Ma allora usando le vie politiche e sfruttando il potere dell’unione degli Stati, non si possono correggere questi comportamenti errati?

Non si può creare unità e cooperazione per ottenere il minimo dei diritti dei nostri popoli?

Voi sapete molto bene che la giustizia, la pace e la sicurezza, nel nostro mondo, non le regalano.

Non possiamo allora sviluppare le relazioni e sfruttare le occasioni e le capacità a livello internazionale per salvaguardare i nostri popoli?

Vostre Signorie,

oggi non c’è dubbio che la gestione del mondo ad opera degli schiavisti e dei colonialisti di ieri è la radice di tutti questi problemi.

La mia opinione è che l’Eurasia, grazie alla sua popolazione, al territorio, alla ricchezza, alla forza umana, ed alle capacità politiche, culturali e civili è un insieme senza pari. Credo che aiutandoci a vicenda possiamo correggere l’attuale gestione del mondo.

Credo che con una azione coordinata possiamo cambiare a favore dei popoli, della pace e della giustizia l’andamento attuale del mondo.

Possiamo contenere la forza spudorata del sistema imperiale e ridare al mondo un pò di tranquillità.

Il futuro appartiene a coloro che attendono orizzonti luminosi e che decidono alla grande, con l’amore, la speranza e l’aiuto delle proprie popolazioni.

Amici miei,

la fine del mondo sarà caratterizzata da bellezza e bontà.

Il dominio dell’amore e della giustizia sul mondo è l’unica via di salvezza e l’unico modo per garantire in maniera stabile e duratura il benessere a tutti i popoli.

Il passato, la cultura e la civiltà di cui siamo in possesso ci dicono che oggi noi possiamo fare qualcosa per la realizzazione di questo futuro luminoso.

Il popolo iraniano, stringe la mano a tutti coloro che si sforzano per realizzare questo sogno.

Ringrazio nuovamente tutti voi e sua eccellenza Nur Sultan Nazarbayev e auguro successo anche al presidente ed al governo cinese che ospiterà il prossimo vertice e che ha scelto il bellissimo slogan “Vicinato e Amicizia” per questo.

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